Sovranisti, populisti, anti-parlamentaristi, nazionalisti, no tax, no migranti, fascisti... Si era mimetizzata ma dopo il voto nelle città ha rialzato la testa. E rischia di dominare nelle prossime elezioni. Sotto il comando di Berlusconi
«Non c’è una sufficiente consapevolezza di un pericolo a destra nella vita politica italiana», ad avvertirlo, sembra preistoria, era stato Aldo Moro, in un consiglio nazionale della Dc nel 1961, all’indomani della fallita svolta autoritaria del governo Tambroni. Viene la vertigine, perché da allora sono passati decenni, repubbliche, riforme costituzionali, partiti secolari sono tramontati, leadership scintillanti sono appassite, ma resta l’errore di avversari e analisti: la sottovalutazione, la mancanza di consapevolezza, l’incapacità di vedere cosa si muove nel profondo, nel sotterraneo della società. E come un fantasma, un fiume carsico che riaffiora appena trovi lo sbocco, in questa estate 2017 di deserto della politica, di piazze vuote e urne prosciugate, rispunta la Destra.
Si era quasi dimenticata di esistere, come soggetto politico unitario. Si era camuffata, nascosta, mimetizzata, in una legislatura che l’ha vista divisa in mille rivoli: un frammento attorno a Angelino Alfano a puntellare i governi guidati dagli uomini del Pd (Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni) in cambio di poltrone di lusso, un drappello di leghisti e di fratelli d’Italia di discendenza più mussoliniana che garibaldina, il corpaccione berlusconiano in apparenza dormiente, assente, in coincidenza con l’impeachment del suo Capo cacciato dal Parlamento e ridotto ai servizi sociali dopo la condanna in Cassazione del 2013. E poi l’indecifrabile esercito del Movimento 5 Stelle che ostentava equidistanza, né di destra né di sinistra, incolore come uno schermo trasparente o come il camaleonte, che assume di volta in volta i colori degli avversari. Invece, al momento giusto, nella fase finale della legislatura, quando al voto politico mancano pochi mesi, eccola ritornare, la Destra italiana, con le sue molteplici facce. Sovranista, nazionalista, populista, no tax, no migranti, anti-parlamentarista. E fascista. [[ge:espresso:attualita:1.305366:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.305366.1498829376!/httpImage/image.JPG_gen/derivatives/articolo_480/image.JPG]] Dopo il ballottaggio delle elezioni amministrative di giugno è il centrodestra «l’attore dominante», si legge nel report post-voto dell’Istituto Cattaneo, che vince in un comune su due, conquista stabilmente le regioni del Nord, mette radici sempre più stabili in Emilia e in Toscana, l’ex cuore rosso del Paese, e nel Centro Italia dove Lazio e Abruzzo, regioni amministrate dal centrosinistra, tornano in bilico. Il Sud si astiene o resta a guardare (con l’eccezione della Puglia di Michele Emiliano) e si conferma un terreno dello scontro che verrà nel 2018, diviso tra ribellismo e rassegnazione, ma non governativo e non rappresentato dalle leadership regionali, tutte in mano al Pd.
Se dalla fredda analisi dei dati quantitativi si passa alle ragioni della valanga neroazzurra, ai temi utilizzati in campagna elettorale e ai suoi uomini più rappresentativi cadono molte raffigurazioni circolate a livello nazionale.
Ad esempio quella di un centrodestra di «chiaro profilo liberale, moderato, basato su radici cristiane, vincente in tutta Europa e oggi anche in Italia», come recita il burocratico comunicato di Berlusconi all’indomani del voto, emesso da Arcore. È il ritratto di un centrodestra simile ai democristiani di Angela Merkel, il Ppe, il partito popolare europeo che ha portato alla presidenza del Parlamento di Strasburgo l’italiano e forzista Antonio Tajani. Piacerebbe molto a Gianni Letta e a un pezzo di Forza Italia che non vuole finire egemonizzato da Salvini. Peccato a che a Monza, 11,6 chilometri e 26 minuti di macchina da Arcore, la coalizione berlusconiana abbia riconquistato il comune presentandosi con un volto decisamente diverso.
Tra i più votati della coalizione del sindaco berlusconiano Dario Allevi c’è Andrea Arbizzoni di Fratelli d’Italia, quarto consigliere più votato in assoluto per numero di preferenze con lo slogan “Difendi Monza”, una campagna tutta su immigrati, topi, strade sicure, presidio alla stazione, difesa della gente «che non si sente sicura a prendere il treno o un caffè».
Tra i sostenitori c’è Lealtà Azione che si rifà a Leon Degrelle e a Corneliu Codreanu, non esattamente campioni di moderatismo e liberalismo, per l’associazione di estrema destra il sindaco sconfitto di centrosinistra Roberto Scanagatti aveva chiesto il divieto di manifestare per commemorare la Repubblica di Salò il 25 aprile. «Non ci voleva dare gli spazi e ora andiamo direttamente in Comune», esulta su Facebook Stefano Di Miglio, presidente di Lealtà Azione. La lista Fasci italiani del Lavoro, che a Sermide nel mantovano ha preso il 10 per cento e ha portato Fiamma Negrini in consiglio comunale, non è un caso isolato.
A Lucca la lista di CasaPound ha conquistato il 7,8 per cento, più del Movimento 5 Stelle, con Fabio Barsanti, capo ultras della Lucchese. A Todi, nella rossa Umbria, CasaPound ha eletto un consigliere comunale e si è apparentata con il centrodestra che ha strappato il comune al Pd, senza troppi problemi degli altri partner della coalizione (quelli che Berlusconi vorrebbe moderati, liberali, europei eccetera). [[ge:rep-locali:espresso:285281769]] Manifestazioni di CasaPound si sono viste a La Spezia e a L’Aquila, comuni strappati alla sinistra, il neo-sindaco del capoluogo abruzzese è anche un ex militante, anche se, garantisce il leader di CasaPound Simone Di Stefano, sono solo convergenze locali, a livello nazionale le distanze restano enormi, ci mancherebbe. Ma intanto con questi risultati diventa concreta la possibilità che liste di estrema destra si candidino in Parlamento per superare lo soglia del tre per cento alla Camera, con l’attuale legge elettorale. Sarebbe la nascita, in Italia, di qualcosa di simile ad Alba Dorata in Grecia. E, dopo tanto parlare di nuovo in politica, in Parlamento tornerebbero i saluti romani.
Solo estremisti, certo. Ma temi, battaglie, parole d’ordine, fanno scuola anche nel cuore del centrodestra vincente. Immigrazione. Frontiere chiuse. No allo ius soli, che il centrosinistra ha portato in aula alla vigilia del voto, dopo anni di paralisi. Il sindaco eletto di Sesto San Giovanni Roberto Di Stefano, Forza Italia, ha strappato alla sinistra la sua Stalingrado dopo settant’anni sventolando la bandiera del no alla moschea. A Budrio, alle porte di Bologna, la sinistra è passata all’opposizione, nella cittadina sconvolta dal delitto di Igor il russo, ancora latitante. E Salvini ha percorso in lungo e in largo i paesini liguri, emiliani, toscani. «Buongiorno da Marliana, qui suonano le campane e girano le palle!», ha salutato il leader della Lega in diretta Facebook dalla cittadina di 3200 abitanti in provincia di Pistoia dove erano arrivati 48 profughi. La sinistra litiga sulla rete e organizza gli apericena, la destra assalta il territorio più remoto e le sue paure.
La Lega non fa sparire del tutto ma mette in dissolvenza il no all’euro, in Francia non ha portato grandi consensi a Marine Le Pen e sembra un tema spuntato, mentre immigrazione, Islam, sicurezza sono vita quotidiana. E a differenza del Front national in Francia o del partito per la Libertà di Geert Wilders in Olanda, gli sconfitti delle elezioni 2017, la Lega amministra da decenni comuni e le regioni più ricche e europee d’Italia. Per l’autunno i presidenti di Lombardia e Veneto Roberto Maroni e Luca Zaia preparano un referendum consultivo per ottenere maggiore autonomia per l’ente da loro governato. Un voto più simbolico che altro, eppure si trasformerà in un nuovo successo per la Lega, con Berlusconi costretto a inseguire.
Immigrazione e sicurezza sono il campo elettromagnetico che attrae l’elettorato che vota centrodestra. Compreso quello che, nel primo turno delle elezioni amministrative, ha votato per il Movimento 5 Stelle. Le ricerche dell’Istituto Cattaneo dimostrano che per M5S si è chiusa la prima fase “movimentista”, quella dei meetup, tendenzialmente di nuova sinistra, ambiente e consumi, e la seconda “identitaria”, quando bisognava trasformare il movimento in un soggetto strutturato. In questa fase “tattica” gli elettori si mescolano più facilmente con il centrodestra per due motivi: perché anti-renziani, e dunque votano tutto quello che si oppone al Pd, e per una vicinanza ad alcuni temi della destra. Per citare le ultime settimane: la polemica contro le Ong che fanno salvataggio in mare per i migranti, la svolta securitaria a Roma di Virginia Raggi contro i rom e l’accoglienza dei profughi, l’astensione al Senato sullo ius soli (che vale voto contrario), l’inserimento tra nel pantheon del leader del Msi e capo gabinetto della Repubblica di Salò Giorgio Almirante da parte di Luigi Di Maio, e sì che nel 2014 Beppe Grillo e Gian Roberto Casaleggio si erano contesi con Renzi l’eredità di Enrico Berlinguer.
Una sovrapposizione di elettorati che preoccupa Renzi. Il segretario del Pd era il campione della nuova politica post-ideologica, tutta modernità e comunicazione, doveva essere il primo leader che alla guida di un partito di sinistra riusciva a penetrare nell’elettorato moderato, berlusconiano, di destra. E invece l’operazione sfondamento appare fallita: ai ballottaggi il centrosinistra si blocca, non prende i voti del fronte avversario o degli esclusi dal secondo turno, anzi, perde per strada i suoi elettori. Renzi non è amato a sinistra, e si sapeva, ma non recupera a destra. Si è ripetuto alle amministrative il fenomeno del 4 dicembre, quando sul no al referendum costituzionale si sono saldati il centrodestra al completo, da Forza Italia alla Lega a Fratelli d’Italia, il Movimento 5 Stelle e un pezzo di sinistra, compresa quella di Pier Luigi Bersani che allora era ancora dentro il Pd. «Il Pd mostra una crescente difficoltà a vincere nel turno elettorale decisivo», scrive il Cattaneo. Una conclusione che avvicina Renzi a certi campioni di calcio del passato, a volerlo nobilitare un Michel Platini: estroso e carismatico, ma perdeva tutte le finali. E ora appare isolato nel suo partito, attaccato dal fondatore Romano Prodi e da tutti gli ex segretari, da Walter Veltroni a Dario Franceschini.
Si è rialzato il muro della Destra, e adesso a sgretolarlo non sarà Renzi, per paradosso l’unico a poterlo fare è l’uomo che lo ha costruito nel 1994, Silvio Berlusconi. L’uomo di Arcore è dilaniato tra un doppio destino che gli sembra ugualmente infelice. Diventare il padre nobile del listone di centrodestra, la fusione o la federazione Forza Italia-Lega-Fratelli d’Italia, che finirebbe presto egemonizzato da Salvini e da Giorgia Meloni, come ha capito il presidente della Liguria Giovanni Toti, vincitore a Genova e a La Spezia, pronto a mollare Berlusconi per la nuova alleanza.
Oppure prepararsi a fare da stampella a una leadership traballante come quella di Renzi. Tutto dipenderà dalla legge elettorale, ma non è detto che basti. Anche perché, per sfuggire al triste dilemma dei due Mattei, Berlusconi sta coltivando i due schemi contemporaneamente. Un piano A e un piano B, saranno le circostanze a stabilire quale sia quello prioritario. E sta preparando, di conseguenza, una doppia leadership futura.
Il piano A prevede di andare da soli alle elezioni con Forza Italia, con il volto rassicurante, popolare, merkeliano e europeo, il capofila in quel caso sarà il presidente del Parlamento europeo Antonio Tajani, già portavoce di Berlusconi a Palazzo Chigi nel 1994, forzista della primissima ora ma inserito stabilmente nell’establishment del Ppe europeo, in ottimi rapporti con i democristiani tedeschi che spingono su Berlusconi perché scelga lui.
Se la Merkel, come sembra, dovesse vincere le elezioni di settembre in Germania, Tajani potrebbe fare nel 2018 come il suo predecessore Martin Schulz, lasciare la presidenza dell’europarlamento per correre alle elezioni nazionali come candidato premier di Forza Italia. In rottura con Salvini e Meloni e possibile alleato di Renzi dopo il voto.
Anche nel piano B, il listone unico Forza Italia-Lega-Fratelli d’Italia, Berlusconi non ha nessuna intenzione di affidare la guida a un leghista. Ed è già stato testato in questa campagna amministrativa, senza dichiararlo, l’appeal elettorale di un altro forzista della prima ora, ma di segno opposto rispetto a Tajani, il giornalista televisivo Paolo Del Debbio. Conteso dai candidati nelle città come un talismano, un portafortuna. Sul palco a Genova, facendo finta di zoppicare, «colpa delle buche», nella sua Lucca con Salvini e Toti, in apertura e chiusura di campagna, a Como con Maria Stella Gelmini, a Sesto San Giovanni, a Monza dove il filosofo si è lasciato andare: «Sono comuni di merda quelli che obbligano i cittadini a rivolgersi alla televisione per risolvere i loro problemi!». Acclamato ovunque come si addice a un leader in rampa di lancio.
Tajani e Del Debbio sono due volti di un identico berlusconismo. Ritorna la Destra ed è sfaccettata, come sempre è stata la destra italiana, multiforme, ideologicamente inconsistente, e c’era il fascismo di destra e il fascismo di sinistra, e c’era il liberale conservatore e il rautiano sociale, e c’era la destra confindustriale che si opponeva alla nazionalizzazione dell’energia elettrica e quella militare tentata dal golpe e quella clericale legata al Vaticano. Eppure la destra è solidissima nel suo radicamento, nella difesa spietata dei suoi interessi, nel suo blocco sociale di riferimento, quello che manca alla sinistra in tutte le sue sfumature, dalla leggerezza di Renzi al rancore di D’Alema, è questa la mucca nel corridoio di cui vagheggia Bersani. Questa Destra così disunita e così minacciosa ha ancora bisogno di Berlusconi per mettersi insieme. E solo lui la può far saltare: conclusione amara dopo anni di rottamazioni annunciate, partiti della Nazione che perdono nei paesi, leadership innovative più nella presunzione che nella realtà. Per parafrasare Heidegger, solo un Berlusconi ci può salvare. Altrimenti, rivincono loro.