Michelangelo è già “Michelangelo”, ha già regalato all’umanità il corpo de l David e la volta della Sistina, quando scrive a uno dei suoi amici più cari: «Se si potessi morire di vergognia e dolore io non sarei vivo». L’origine di tale sofferenza è un errore che ha notato nella cappella per il Re di Francia. Comporta solo un ritardo, ma basta al Buonarroti, impegnato nel cantiere di San Pietro, per voler disegnare all’amico l’arco sbagliato spiegando come l’errore non sia colpa del modello - «facto a punto, come fo d’ogni cosa» - ma della sua «vechieza»: dal non aver cioè visitato i lavori abbastanza a causa dell’età. È a Giorgio Vasari che si rivolge questo Michelangelo inaspettatamente fragile. E la lettera è una delle tante, straordinarie, sorprese dell’archivio Vasari di Arezzo: un nucleo di documenti unici al centro di una tormentata contesa fra i proprietari privati e lo Stato che dura ormai da decenni. Contesa arrivata però in questi giorni a una svolta chiave, come L’Espresso può raccontare.
Il ministero dei Beni Culturali ha notificato infatti agli attuali padroni l’esproprio delle pagine arrivate dal Rinascimento. Per mettere fine a dissidi e tentativi di vendita, proteste, cause e rinvii che si susseguono dagli anni Ottanta lo Stato ha deciso di requisire l’archivio e di renderlo bene pubblico. I proprietari gridano allo «scippo» e hanno già pronto un ricorso. Ma grazie al provvedimento per la prima volta è possibile mostrare alcune delle meraviglie conservate nella collezione. Come appunto le righe in cui «il vostro Michelagniolo in Roma» si incupisce, anziano, con l’amico, per quello sbaglio rimediabile.
L’importanza dell’archivio conteso è legata alla fama del suo fondatore. Giorgio Vasari, l’autore delle “Vite dei più eccellenti artisti” lette da generazioni e generazioni di studenti, era un uomo ordinato e consapevole del proprio ruolo. Nei faldoni di famiglia (le carte più antiche risalgono al 1460), fra i rendiconti di incombenze e spese domestiche, mantiene così alcune raccolte che sono diventate un tesoro senza pari per comprendere il Rinascimento, per entrare nell’ambiente artistico e culturale di cui Vasari è un perno portante. Fra questi dossier ci sono le “Ricordanze”, una lista dettagliata degli affreschi e delle opere realizzate da lui stesso, elencate «et a utile et esaltazione di me e tutta la Casa mia».
Sono intestate simbolicamente al 1527: anno del sacco di Roma e dell’epidemia di peste, ma soprattutto anno in cui Giorgio perde il padre, a soli 16 anni. Gli autografi continuano nello “Zibaldone” dove raccoglie i suoi appunti di lavoro. Ma il cuore più emozionante, per chi si avvicina oggi a questi documenti, sono sicuramente le corrispondenze. Fra le pagine ben ordinate dal Vasari sono conservate infatti le lettere dei più grandi personaggi del tempo, da quelle di Cosimo I de’ Medici ai saluti di prelati, artisti, intellettuali. «Si vede il nascere stesso delle “Vite”, gli spunti e i consigli che innestano l’intera opera», racconta Diana Marta Toccafondi, la soprintendente toscana che da anni si batte per la tutela dell’archivio: «È un repertorio unico, una macchina della memoria che abbiamo il dovere di difendere e rendere viva».
La memoria: nel carteggio, si trova ad esempio la voce di Paolo Giovio, grande umanista dell’epoca, che attribuisce alle “Vite” un’eternità che non sarà mai degli affreschi. «Il bel libro delli famosi pictori vi farà certo immortale», scrive al collega nel 1547: «perché le cose che avete fatto a Monte Oliveto in Napoli a quelli tiranni delle frittate grosse e grasse alla fine saranno chachabandole consumate dal salnitro e dalle tarle, ma quello che scriverete non lo consumerà il tempo». Il futuro gli ha dato ragione. Anche Annibal Caro, altro grande umanista, altro grande amico del biografo di Arezzo, è certo che il libro di Vasari avrà vita «perpetua», seppure «in un’opera simile» avrebbe voluto «la scrittura come il parlare». È il timbro vivo degli umanisti, la loro voce, che arriva senza mediazioni. Netta quanto «la grafia precisa, quasi scolpita», come dice Toccafondi, della scrittura di Michelangelo. Che pur «vecchio e pazzo» per la gente, invia a Giorgio i suoi sonetti, commenti e impressioni.
Quanto vale sul mercato una collezione come questa? E quanto può valere per la memoria nazionale, per la storia collettiva? Nasce qui il duello che riguarda le carte. Nel 1687 si estingue infatti la “linea maschile” dei Vasari, e come da volere del prestigioso antenato, i beni di famiglia vanno alla Fraternita dei laici di Arezzo. Incaricato dell’inventario è un alto funzionario locale, Bonsignore Spinelli. Che cede il resto ma tiene le carte per sé. Gli autografi aretini dormono così quasi dimenticati fino all’inizio del 1900, quando l’allora direttore del museo del Bargello, Giovanni Poggi, li riscopre negli armadi del pro-pro-pro-nipote Luciano Raspone Spinelli. Annunciata al mondo la scoperta sensazionale, Poggi si trova alla porta: il conte non gli permette di approfondire le ricerche. Nel frattempo, vende per 35mila marchi a uno studioso tedesco il diritto a pubblicare in esclusiva i documenti. «Si era prossimi alla guerra mondiale, successe un putiferio», racconta Toccafondi: «Editoriali su editoriali condannarono la vendita “ai nemici” di una gloria italiana».
Nel clamore, lo Stato interviene e vincola subito l’archivio. Nel 1921, all’anniversario dello scrittore dell’età d’oro, la città di Arezzo ottiene dall’erede il «deposito perpetuo» dei manoscritti alla Casa Vasari, diventata nel mentre museo. La memoria scorre quasi quieta fino al 1985, quando il capitale inestimabile passa dalla vedova Spinelli al nipote, Giovanni Festari. E qui la vicenda ricomincia a annodarsi. Prima con un furto, denunciato solo con anni di ritardo. Poi con tre gruppi di documenti (non depositati, per sbaglio, al museo) che vengono ritrovati nel 1988 alla biblioteca di Yale, dopo esser passati da un antiquario svizzero. Nonostante i numerosi tentativi di riportarli in Italia, portati avanti dai Carabinieri, sono ancora lì. Festari intanto fa causa al comune per ottenere la revoca del deposito. E nel 2000 una sentenza della corte d’Appello gli dà ragione.
Nel frattempo però si era mosso anche lo Stato: nel 1994 aveva vincolato per sempre le lettere e tutti gli altri scritti al museo. Vincolo ritenuto valido dal Tar con una decisione passata in giudicato. Così Vasari rimane a casa sua. Ma le peripezie continuano. Un debito dei Festari causa infatti un primo pignoramento dell’archivio. Il sonetto di Michelangelo e i suoi dubbi non si muovono dagli armadi blindati che li conservano nel museo, ma restano inagibili fino al pagamento (avvenuto).
Nel giugno del 2009 un altro colpo di scena: i quattro fratelli Festari, Antonio, Francesco, Leonardo e Tommaso, eredi a loro volta da parte del padre Giovanni, annunciano un acquirente. Si tratterebbe di un imprenditore russo, Vasily Stepanov, pronto a versare 150 milioni di euro per le carte degli umanisti. «Aveva già depositato i soldi in banca», assicura l’avvocato di famiglia, Guido Cosulich: «Ho le prove». Ma la procedura risulta al ministero piena di lacune. E il trasferimento si ferma. Nel frattempo per i Festari s’apre un altro fronte con Equitalia, questa volta, che pretende 695mila euro, si legge negli atti. L’archivio va all’asta, ma il debito viene poi estinto, il sequestro cancellato. Fino a un nuovo tentativo di vendita a un ex imprenditore italiano residente in Romania. Che salta. E ancora altri pignoramenti, dissidi e sentenze che danno ragione a una parte poi all’altra, avvisi e controversie.
Per gli eredi, arrivati a incatenarsi al cancello del museo per ribadire il proprio possesso, in questi anni lo Stato ha impedito loro di valorizzare le pagine del ‘’500 attraverso mostre e grandi eventi: attività per la quale avevano anche fondato una società, la “Archivio Vasari Management”, 17 mila euro di fatturato e 113 mila di perdite nel 2016. Per lo Stato, la proprietà è stata invece fonte estenuante di trattative e ostacoli negli interventi, dalla digitalizzazione ai restauri, ai programmi di esposizione. In questi giorni la decisione definitiva: l’esproprio.
«Quando si parla di tutela del patrimonio culturale, ovvero della funzione istituzionale di maggiore responsabilità del nostro ministero, si ricomprende anche il ricorso a provvedimenti come questo», commenta il direttore generale degli Archivi che ha firmato il provvedimento, Gino Famiglietti: «Fare tutela, infatti, è una scelta politica e culturale. Individuare, proteggere e conservare le testimonianze della nostra memoria collettiva, assicurandole al patrimonio pubblico e favorendone la conoscenza e lo studio, significa recuperare il senso della nostra storia, e quindi della nostra dignità ». La famiglia è pronta a nuova battaglia. Contesta l’esproprio nel merito - «è uno scippo», dice l’avvocato Cosulich - e nel valore: un milione e 500 mila euro. Un prezzo stabilito secondo perizie e commissioni che hanno tenuto conto dei vincoli da cui è stretto l’archivio. «Vedremo cosa diranno i nuovi giudici. È una cifra minima rispetto al prezzo di mercato», ribadisce l’avvocato: «E sì che avevamo richieste da Montecarlo, Parigi...». Sarebbe bello chiedere a “messer Giorgio caro”, lui, che ne pensa.