Dieci anni di mafia che diventano delinquenza comune. Un boss che non è più boss, nonostante da pentito abbia raccontato i segreti della 'ndrangheta. La sentenza d'Appello di Bologna riporta indietro di anni la lotta alle mafie

«Gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già oltre Roma». Leonardo Sciascia fa dire questo al suo capitano Bellodi nel “Il Giorno della Civetta”.

La pressione del malaffare mafioso sale, risale la penisola, supera la Linea Gotica. E raggiunge l’Emilia Romagna, per esempio. Dove però la conoscenza giuridica delle Corti non è pronta né formata per leggere ciò che nel Sud ormai è ovvietà. C'è voglia di normalizzare lungo la via Emilia, che chiude una stagione di inchieste antimafia che hanno segnato la storia criminale della regione. Normalizzare per ripulirsi, per staccarsi l'etichette di terra di mafia come una qualunque Calabria o Sicilia. Normalizzare dopo gli scioglimenti per mafia. Non è un'impressione di chi osserva da lontano. È una riflessione di chi dal 2006 segue i fatti di mafia in Emilia Romagna. Di chi ne ha seguito l'evoluzione e il radicamento. Già, il radicamento, cosa ben diversa dall'infiltrazione di qualche sgherro dell'organizzazione. Con la sentenza di appello che condanna il gruppo Femia, autore anche delle minacce nei miei confronti, ma fa cadere il reato di associazione mafiosa, il 416 bis, si compie un salto indietro di dieci anni. Quando tutti, politici e magistrati, si affrettavano dopo ogni inchiesta giornalistica a dichiarare "tranquilli, abbiamo gli anticorpi". 

All'epoca ero un giovane cronista alla Gazzetta di Modena, alle prese con il racconto quotidiano delle mafie su quel territorio. Qualche anno prima del 2010 era prassi per i giudici sorvolare sul 416 bis. La loro tesi, in sintesi, era: noi ci occupiamo dei singoli criminali, non dell’organizzazione nel suo complesso, perché la mafia è una roba meridionale, che per il contesto in cui ci troviamo non potrà mai attecchire. Una tesi con dei tratti anche molto razzisti, verrebbe da dire: la 'ndrangheta è solo cosa di Calabria, la camorra è questione da napoletani. E così per molto tempo abbiamo raccontato di boss dei Casalesi o della ‘ndrangheta che nelle loro terre di origine erano accusati di associazione mafiosa, il 416 bis appunto, mentre in Emilia venivano processati per reati comuni il più delle volte senza neppure l’aggravante dell’articolo 7 (l’utilizzo del metodo mafioso). Eppure si trattava di personaggi di altissimo profilo, emissari dei padrini più influenti della camorra e della ‘ndrangheta. Il principio alla base di questa visione ristretta della magistratura emiliana era: in Emilia non c’è controllo del territorio, quindi non può esistere la mafia. Non bastavano né estorsioni né intimidazioni a fargli cambiare idea. L’Emilia doveva restare immune dal fenomeno, una questione di immagine.

Il caso
«Gli spariamo in bocca al giornalista»: ma per i giudici la mafia in Emilia Romagna non c'è
30/10/2019
Arriviamo così al 2010. Alla procura di Bologna e alla distrettuale antimafia arriva Roberto Alfonso, esperto magistrato che ha lavorato in Sicilia e alla procura nazionale, gestendo collaborazioni delicatissime di pentiti di Cosa nostra. «Qui è più difficile indagare sui clan perché non è tutto bianco o nero, c’è una vasta zona grigia, dove tutto si mischia», le prime parole da capo dell’ufficio giudiziario segnano l'inizio di una nuova stagione. Che coincide con un salto di qualità delle indagini in Lombardia, Piemonte, Liguria. Fioccano le inchieste per mafia, la contestazione del 416 bis, i sequestri di beni, e in primo grado reggono le accuse.

In questa nuova fase si inserisce il processo contro Nicola Femia, il capo dell’omonimo gruppo che ha fatto i milioni col business del gioco d’azzardo legale e illegale. Mi ero occupato di lui prima che partisse l’inchiesta giudiziaria denominata Black Monkey. Sulla Gazzetta di Modena avevamo pubblicato alcuni articoli sul personaggio, spiegando, sulla base di documenti giudiziari e societari, la sua parabola certamente anomala: dal narcotraffico a uomo d’affari delle slot e del poker online, al quale i Monopoli avevano concesso le omologazioni per le macchinette prodotto dalle sue società. Avevamo raccontato chi è Nicola Femia, detto “Rocco”: uomo legatissimo al clan Mazzaferro di Gioiosa Jonica, nella Locride, provincia di Reggio Calabria, e in stretto contatto con il clan dei Casalesi, a cui forniva le slot e le schede per i giochi d’azzardo online.

A Femia il nostro lavoro di indagini giornalistiche dà fastidio. E si lamenta costantemente con il suo faccendiere, Guido Torello. In una telefonata registrata del dicembre 2011, i finanzieri del Gico della Guardia di Finanza di Bologna intercettano la frase, terribile, «Gli sparo in bocca e la finiamo qua». Da allora per me e la mia famiglia inizia un calvario, una vita sotto protezione, catapultati in una dimensione che ci ha fatto ripiombare negli anni in cui vivevamo in Calabria: l’omicidio di mio padre, ancora irrisolto, l’incendio del mobilificio di mio nonno, senza colpevoli. La ‘ndrangheta tornava nelle nostre vite, anche lontano dalla nostra terra, nella città, Modena, dove avevamo deciso di riparare per le troppe ingiustizie subite in Calabria.

Otto anni sotto scorta, dicevamo. La protezione imposta d’urgenza, con il procuratore dell’epoca che si limita a dire ai cronisti: «La situazione è molto seria, Tizian va protetto». Poi arrivano gli arresti di Femia e dei suoi gregari, dei suoi figli, dei sodali, dei colletti bianchi. Viene diffuso l'audio del "Gli sparo in bocca". Emerge con forza la rete di “Rocco”, dai servizi segreti ai capi ‘ndrina della Lombardia. E poi il ruolo dei servitori infedeli dello Stato. La procura antimafia di Bologna nella richiesta di arresto del 2013 ipotizza il reato di associazione mafiosa più tutta una sfilza di delitti, dall’estorsione al riciclaggio. E le intimidazioni nei miei confronti. Che non si sono fermate neanche durante le udienze preliminari e del dibattimento. Femia continuava ad accusarmi di essere io l’artefice del suo arresto, della sua gloriosa fine imprenditoriale, da narcotrafficante a re delle slot d’Italia.

In una delle memoria depositate al processo di primo grado chiedeva alle istituzioni di revocarmi la protezione per far risparmiare soldi agli italiani. In un’altra udienza ha pronunciato, invece, queste parole: «Se Femia ha sbagliato paga, ma se Tizian ha sbagliato paga anche Tizian». Senza contare le querele presentate nei miei confronti dopo l'arresto in seguito all’operazione antimafia di Bologna. Accuse di diffamazione, ovviamente, archiviate e che io non ho reso pubbliche perché volevo semplicemente riprendermi la mia vita e la mia libertà. In silenzio e senza clamori ho continuato a fare il mio mestiere, nulla di più.

Il primo grado contro Femia si conclude con il riconoscimento dell’associazione mafiosa e del risarcimento alle parti civili (Tizian, Ordine dei giornalisti, Libera, e molti enti locali) per il danno prodotto dall’associazione mafiosa capeggiata da Nicola Femia, che viene condannato a 26 anni. Era il 22 febbraio 2017.

Pochi giorni dopo il signore che si fa chiamare "Rocco", che per il tribunale di Bologna è a tutti gli effetti un boss mafioso, decide di collaborare con la giustizia. Riempie migliaia di pagine di verbali. Con le procure di Catanzaro, Bologna, Reggio Calabria, Roma, Napoli. Ripercorre 35 anni di ‘ndrangheta. Mette a verbale alcuni segreti del periodo dei sequestri di persona, accenna alle trattative con i servizi segreti per la liberazione degli ostaggi, circostanze apprese quando lavorava al servizio del padrino Vincenzo Mazzaferro, membro del gotha criminale calabrese. Racconta di quando la cosca Mazzaferro importava 3 mila chili di droga dal Sud America. Racconta del suo salto nell’economia legale, nel gioco d’azzardo di Stato: prima con i video poker, poi con le slot e infine con il poker online.

Durante un’udienza si è sfogato così: «Voi state processando me, ma io ho pagato milioni di tasse allo Stato, quindi dovreste processare pure lo Stato». Nicola Femia ancora è in regime di protezione. Da pentito di mafia. Eppure per i giudici d’Appello di Bologna non è mafioso, riformula l’accusa in associazione criminale semplice lasciando per i singoli delitti l’articolo 7, il metodo mafioso. Solo un delinquente, insomma, che usa il metodo delle cosche.

Basta questo superamento del sottile confine lessicale per interrompere il nuovo corso iniziato nel 2010. Non resta che prendere atto della contraddizione. Consapevoli, però, che non sarà un giudice a Bologna a farci dire che la ‘ndrangheta in Emilia non è radicata. Non intendiamo partecipare alla gara di salto all’indietro. La ‘ndrangheta non è soltanto una questione calabrese, oggi è soprattutto settentrionale. E se questa non diventarà verità giudiziaria, esiste un’altra verità, che ha che fare con la storia, con i fatti, con i curriculum personali dei protagonisti del crimine.