L'esercizio per impossessarmi della scrittura è stato lungo e faticoso. Ci ho messo un tale impegno che per molto tempo il mio engagement era esclusivamente nella ricerca del mio linguaggio. Molti pensano che il mio vigatese sia un po’ di siciliano e un po’ di italiano mischiati insieme, come una cassata, ma significa non avere capito assolutamente nulla e, soprattutto, non conoscere il dialetto siciliano. Tant’è che i miei amici siciliani quando hanno letto i miei primi libri mi hanno detto: «Cumpà, ma chi dialettu scrivisti?».
L’invenzione del vigatese è stato un percorso lungo, non so se sono abilitato a raccontarlo in poche righe. Ci ho messo anni. Avevo cominciato a scrivere in italiano ma sentivo di non riuscire a rendere tutto quello che volevo. Fu appunto mio padre a darmi la chiave quando mi disse che avrei dovuto scrivere il romanzo che avevo in mente esattamente per come glielo avevo raccontato. Così feci e quel primo tentativo, molto immaturo, lo portai a Niccolò Gallo, personaggio importantissimo della critica letteraria italiana, che su una serie di foglietti scrisse molti appunti, in cui mi rimproverava di non aver spinto il pedale verso la ricerca assoluta di un’autonomia di linguaggio. Niccolò voleva che io trovassi il mio linguaggio e mi disse: «Riscrivilo secondo queste indicazioni e io te lo pubblico ».
Lui allora dirigeva la collana “Il tornasole” presso Mondadori, dove aveva pubblicato il primo Consolo e tanti altri giovani scrittori. Poi lui morì, e io questa revisione la feci, ma molti anni dopo. Nel frattempo mandai “Il corso delle cose” a tutti gli editori possibili e immaginabili ma per dieci anni nessuno lo volle pubblicare. Allora un mio amico, Dante Troisi - che era un giudice ma anche un importante sceneggiatore, autore del “Diario di un giudice” che allora scatenò un casino - mi disse: «Dato che non lo vogliono pubblicare, perché non ne fai uno sceneggiato televisivo? Te lo sceneggio io». «Va bene», risposi. Troisi era uno importante per cui l’operazione andò in porto velocemente. Prima della messa in onda dello sceneggiato, che si sarebbe intitolato “La mano sugli occhi”, uno di questi giornali che si occupano di programmazione tv, tipo “Sorrisi e canzoni”, pubblicò la notizia. Allora mi scrisse un editore a pagamento, Lalli, e mi disse: «Guardi, se lei nei titoli di testa o di coda scrive che il libro è pubblicato da me, io glielo stampo gratis». «Va bene», feci io. Fu un patto infame, perché appena ebbi tra le mani l’oggetto libro mi venne una gran voglia - erano intanto passati dieci anni in cui non avevo scritto assolutamente nulla - di scrivere un altro romanzo. E così scrissi “Un filo di fumo”. Lo feci leggere al mio amico Ruggero Jacobbi, che pigliò il dattiloscritto e lo portò a Milano a Garzanti. Dopo una settimana ricevetti una telefonata da Garzanti che mi diceva che lo avrebbero pubblicato. E questo è il mio esordio da scrittore. Diversi anni dopo rimisi le mani a “Il corso delle cose” secondo le indicazioni di Gallo e, in questa nuova versione, fu pubblicato da Sellerio. Nell’edizione Lalli si avverte ancora il lavorio del tentativo di commistione e di fusione di dialetto e italiano in una lingua terza. Una volta mi toccò spiegare a una giornalista cinese come nasce il vigatese e per farlo le raccontai il seguente episodio: a sedici anni ottenni da mia madre le chiavi di casa, in maniera che potevo rientrare quando volevo. Io facevo sempre tardi la notte. Un giorno mia mamma si scocciò e mi fece questo discorso che riferisco testualmente: «Nenè, figliu mè, cerca di arricamparti prima la sira. Pirchì si iu nun sentu la porta ca si chiui, nun arrinesciu a pigliari sonnu. Perciò, fallu pì mmia. E se questa storia dura ancora, io ti taglio i viveri e voglio vedere cosa fai fino alle 3 di notte».
Spiegai alla giornalista: «Vede, la prima parte, che è una mozione degli affetti, è tutta in dialetto. La seconda parte, che è un’intimidazione, è in lingua italiana. Questa è una divisione sostanziale nel nostro modo di parlare. Una minaccia, un’intimidazione è in italiano, una cosa d’affetto è in dialetto». A questo punto la giornalista cinese si mise a ridere come una pazza. Io e l’interprete ci guardammo come a dire: «Ma cos’ha da ridere così?». Lei spiegò: «Io vivo con mia madre e la sera torno tardi. Qualche giorno fa mia madre mi ha fatto un discorso simile a quello che le fece sua madre. Però la prima parte era in cantonese, che è il linguaggio familiare, la seconda in mandarino». Così ha capito come è nato il vigatese. Ma il passaggio dal vigatese spontaneo - quello che avevo usato con mio padre, quello di questi scambi con mia madre - al vigatese elaborato è stato un lavoro duro e preliminare, che ho fatto con me stesso. Scrivendo moltissime cose e cancellandole. Ho scritto migliaia di pagine, esercitandomi tutte le mattine come si esercita un pianista. Non si trattava di abbozzi di racconti ma di veri e propri esercizi: «lettera a un signore incontrato all’edicola», «considerazioni sul pranzo di ieri »... le cose più disparate, nelle quali cercavo di elaborare il mio linguaggio. Ho distrutto tutto, io non lascio tracce, neanche le prime stesure dei romanzi. Non so perché, lo faccio d’istinto. L’unica cosa di cui esistono due versioni è proprio “Il corso delle cose”, e sulla differenza di linguaggio fra le due edizioni è stata fatta una tesi di laurea attorno alla quale c’è un aneddoto divertente.
Diversi anni fa mi recai alla clinica Quisisana per sottopormi a una serie di visite e controlli. Mi portarono in una sorta di sotterraneo dove facevano le radiografie. L’addetto mi mise in posizione e poi andò dietro un vetro per azionare l’apparecchio. In quel preciso momento si aprì la porta e passarono due infermiere di cui una era bellissima, pareva finta, un’attrice di quelle serie americane ambientate negli ospedali. Allora istintivamente mi spostai e venni rimproverato. La ragazza si voltò e mi sorrise, doveva avermi riconosciuto. Dopo alcuni giorni ricevetti una telefonata dalla clinica: «Dottor Camilleri, sono l’infermiera che passò mentre lei stava facendo la radiografia. Ho i risultati dei suoi esami, avendo fatto anche il test dell’Hiv si tratta di una busta riservata e vorrei portargliela personalmente ». Quando venne confessò: «Era tutta una scusa, in realtà volevo portarle la mia tesi di laurea sulle due versioni de “Il corso delle cose”».
Era infatti un’infermiera che si era laureata in lettere e la tesi era interessantissima, ma non fu pubblicata e io non la trovo più. Mi piacerebbe molto ritrovarla ma i traslochi mi hanno fregato e adesso poi, con la perdita della vista, non ho più il controllo dei libri, non so più dove sono.
Fino a dieci anni fa riuscivo a scrivere contemporaneamente romanzi storici e Montalbano, oggi che la cecità mi costringe a dettare le cose che scrivo, sarebbe impossibile. Io ho sempre scritto di mattina e alternavo: un giorno decidevo di scrivere Montalbano e quello dopo il romanzo storico su cui stavo lavorando. Per entrambi iniziavo sempre rileggendo, anche due volte se necessario, le ultime venti pagine che avevo scritto, in modo da entrarci dentro. Poi, quando sentivo di essere in grado di ricollegare la nuova scrittura alla vecchia, iniziavo a scrivere. Un’operazione assai più semplice da fare per i Montalbano che per i romanzi storici. Non ho mai sentito il bisogno di prendere appunti. Il 90 per cento della storia che voglio raccontare è già presente e organizzata nella mia mente. Per i romanzi storici ho alcuni brani iniziali, finali e centrali, che sono come i piloni di un ponte che reggono poi il resto. Per quelli di Montalbano è un po’ diverso: in quel caso mi costruisco il romanzo intero in testa, sempre senza appunti. Parto dal particolare che più mi colpisce e da lì costruisco il mio racconto, che quasi inizia a scriversi da sé. Quando sei in stato di felicità creativa, la scrittura tende a prenderti la mano. Nel “Birraio di Preston” c’è addirittura un intero brano che non è mio, è del racconto. Quando il prefetto in carrozza racconta alla moglie perché si è fissato a far rappresentare quell’opera, dice: «Perché se tu ti ricordi è stato lì, proprio alla rappresentazione del “Birraio di Preston” a Firenze che noi due ci siamo conosciuti». E qui finiva il capitolo. Le righe che seguono nascono dalle dita posate sulla tastiera, non sono mie: «No, caro, tu ti sbagli». «Come mi sbaglio? Non era Il birraio di Preston?». «Ma no, era la Celestina ». «Oh Gesu!».
Ecco, queste cinque righe non sono mie, sono del racconto. È una cattiveria che mi venne così, tutto il romanzo si basa su un equivoco. Ovviamente nel mio lavoro ci sono dentro tutti gli autori che ho amato: Pirandello, Joyce, Faulkner, Gadda, Sciascia, e Simenon, ma il Simenon dei romanzi- romanzi, non di Maigret... sono autori che leggo e rileggo continuamente. Fra i classici antichi, sicuramente le Metamorfosi di Ovidio - a cui mi sono ispirato per tre miei romanzi: “Il sonaglio”, “Il casellante” e “Maruzza Musumeci” - e il “De rerum natura” di Lucrezio: li ho letti e riletti, sia in italiano che in latino. Lucrezio è un poeta assoluto. (...)
LE DONNE che descrivo nei romanzi sono, sì, donne che ho incontrato nella mia vita, ma non sono le donne che ho amato. Non ho mai scritto delle donne che ho amato perché credo che l’amore sia una straordinaria lente deformante. E poi in generale non parlo mai di me, è inutile cercare qualcosa di autobiografico nei miei libri, a meno che non sia espressamente dichiarato. “Esercizi di memoria”, per esempio, è esplicitamente autobiografico e racconto tutte cose che mi sono accadute, ma nei romanzi non c’è niente di mio. Le donne dei miei romanzi sono donne molto sensuali, molto carnali ma non per questo possono essere tacciate di non essere femministe. A me peraltro pare che stiamo vivendo un’ondata sessuofobica, forse eccessiva; oggi persino mettere la mano sul ginocchio di una ragazza è considerato una molestia. Credo che abbia ragione Catherine Deneuve, che ha detto «andiamoci piano, così finisce il gioco della seduzione». È anche vero che non è proprio una deriva recente. Io una volta sono stato addirittura accusato di essere un pedofilo. Andò così. Qualche anno fa ero ospite a “Che tempo che fa” e Fabio Fazio mi rivolse questa domanda: «Se lei fosse una donna, che donna vorrebbe essere?». Io, pensando alla mia pronipotina, risposi testualmente: «Vorrei essere una bambina di quattro anni perché a quell’età le bambine posseggono quella ingenua malizia, quella bellezza che poi con gli anni perdono e che per tutto il resto della loro esistenza si sforzano invano di riconquistare». Sul web si scatenò un linciaggio: «Camilleri pedofilo!». Ma ci fu anche chi disse: «Non avete capito un cazzo». Ad ogni modo un’associazione di padri di famiglia cattolici mi voleva denunciare. D’altronde io non posso capire tutto quello che sta accadendo oggi. Non posso essere contemporaneo al 2018. Io mi sono fermato all’invenzione della bomba atomica, della tv e della minigonna. Mi basta. La minigonna pare una cosa banale: in fondo si tratta di alcuni centimetri di stoffa. Pochi centimetri che però, grazie alla signora Mary Quant, hanno fatto una rivoluzione, che ho, diciamo così, gradevolmente vissuto. Ho visto i costumi sessuali cambiare da un giorno all’altro. Ricordo che io a un certo punto ho dovuto obbligare le mie allieve a venire in pantaloni a lezione perché avevo notato che con la minigonna erano inibite nel fare certi movimenti, tendevano a tenere le gambe strette, mentre a teatro era necessario essere totalmente liberi nei movimenti.
Certo, il mondo del teatro e del cinema era già svezzato, è sempre stato sessualmente più libero. Credo sia dovuto a due elementi. Da un lato il fatto di dover interpretare molti ruoli implica da parte dell’attore una certa disinvoltura. Da sempre infatti le attrici, e quelle francesi sono rimaste leggendarie, sono note per la libertà dei costumi, anche quelle di uno-due secoli fa. L’altro motivo è senz’altro che si lavora in gruppo, con grande promiscuità e con un’intensità emotiva molto forte. C’è chi pensa che quando si invecchia lo sguardo nei confronti delle donne cambi, che non le si guardi (o non le si debba guardare) più con lo stesso desiderio e interesse. Ma chi l’ha detto? La pace dei sensi è la morte. La cosa che rimpiango più di tutte da quando sono diventato cieco è che non posso più ammirare la bellezza femminile. Le donne sono la meraviglia del mondo.
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Le parole che abbiamo pubblicato sono un lungo estratto di un numero speciale di MicroMega interamente dedicato ad Andrea Camilleri. Che conteneva un viaggio nella sua vita artistica e letteraria, attraverso le voci più rappresentative del suo universo: da Luca Zingaretti ad Alberto Sironi, da Carlo Degli Esposti, a Michele Riondino. C’è il vigatese in giro per il mondo, grazie ai traduttori che ne hanno accolto la sfida letteraria: Stephen Sartarelli, Pau Vidal, Moshe Kahn, Serge Quadruppani. “Il ricatto di Montalbano” è tra le ammissioni dello stesso scrittore: «Non solo Montalbano vende quello che vende, ma mi fa vendere anche i romanzi a cui tengo di più». Una sezione è dedicata alla trasposizione televisiva dei suoi libri. E una all’impegno politico e civile dello scrittore. Come nell’intervento di Giovanni De Luna che spiega perché gli storici del futuro troveranno nei suoi romanzi fonti utili a ricostruire il nostro tempo.