La diagnosi di cancro. Il ricovero. Il reparto dove si lotta per la vita. E la scoperta di un’umanità fantastica. In questa intervista l'autore scomparso spiegava come era nato il progetto sulla serie tv

La temperatura. Il problema era la temperatura del tono e del racconto. Nella serie tv e nel libro non era semplice misurarla bene, anche se Mattia Torre, scrittore, sceneggiatore, regista, si era appena ripreso da qualcosa di molto più complicato. L’esperienza di un intervento importante per un tumore al rene: ventuno giorni nel reparto di urologia di un grande ospedale, che aveva l’urgenza culturale, antropologica, sentimentale di raccontare. Poi ha pensato, spiega, che se qualcuno si fosse sentito offeso dalla temperatura del racconto, a volte satirico, surreale, a tratti tragico e un po’ folle, lui sarebbe stato protetto dall’onestà della verità, «e dall’aver voluto esternare la mia personalissima storia». Con un’ulteriore aggravante al paradosso della comicità in un affare così serio.
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La rappresentazione di una sanità buona di un ospedale che funziona come un dio. Il simbolo che può esistere nel pieno della normalità. La storia è “La linea verticale”. Laddove verticale sei vivo, orizzontale sei morto, 137 pagine di carta scritte da Torre e quattro prime serate su Rai 3 sceneggiate e dirette sempre da lui. Il racconto di una pagina sociale del paese dove una piccola porzione dell’arcipelago della sanità italiana si trasforma nella parabola anche politica di quello che il Paese potrebbe essere, e che infatti lo è in certi o in tanti posti e non lo veniamo a sapere nemmeno «Perché siamo il Paese dove ognuno vorrebbe stare da un’altra parte, dal presidente del Consiglio che farebbe carte false per governare un civile Paese nord europeo all’ultimo dei disperati che cerca rame per venderlo come negli anni Cinquanta». Un paese disomogeneo, in conflitto permanente dove in un ospedale, l’ultimo dei luoghi che ti viene in mente di andare a cercare, è possibile ritrovare «un mondo luminoso». Dice luminoso, proprio così. E Torre ha fama di uomo ironico, intellettuale, tecnico raffinato di satira e dei suoi trucchi, che ha scritto per Guzzanti e Dandini, autore e regista di “Boris” e di “Ogni maledetto Natale”, uno che ha senso dell’umorismo e dell’autoironia e non parla di luminosità tutti i giorni e tanto per dire.

Da un minuto all’altro due anni fa gli dicono che ha un tumore da operare d’urgenza. Nel giro di pochissime ore si trasforma nel paziente italiano, uno come tutti, un paziente zero di cui nella serie e nel libro, a parte una moglie all’ottavo mese di gravidanza e una figlia di sette anni, non si saprà cosa faccia nella vita, in quale quartiere abiti, perché nel microcosmo del reparto dell’ospedale questo non conta nulla. Conta invece che «tutto è possibile a chi crede» come segnala la grande scritta nell’atrio dell’istituto che lascia costernati lui e Valerio Mastandrea (nella serie è il protagonista) che era passato a trovarlo. «Una frase dalla violenza inaudita. «Allora io sono spacciato», gli ho detto. Per fortuna l’input non era proprio esatto», racconta Torre, a proposito di temperatura. «Forse è una forzatura dirlo ma la malattia è stata una grandissima occasione di crescita», spiega seduto come un guru su una sedia da ufficio che fa muovere come una lancetta nel piccolo studio simile a quello di uno psicanalista; l’atmosfera è questa, e infatti le altre stanze sono occupate da medici e lettini che fanno il loro lavoro.
L'intervento
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«Se hai la fortuna di uscire quanto meno da quella porzione di crisi, naturalmente il futuro è sempre incerto, puoi trarne qualcosa di molto costruttivo. Per me è stato esaltante trasformare un’operazione dolorosa in un progetto culturale, scrivendo senza rete, affrontando un tabù molto forte, parlare di dolore afferrando la comicità delle situazioni, esorcizzando la paura che è sentimento comprensibile ma il più inutile in un ospedale dove devi affidarti e basta». Se non hai paura di niente, scrive, puoi sopravvivere a tutto. “Linea verticale” è un grande piccolo pezzo del racconto della condizione umana, il corridoio di un reparto di malati, la sveglia del pop italiano della caposala, vera macchina da guerra. Il su e giù dei sentimenti (è un dramedy, «ok ok, ho scritto un dramedy ma l’ho saputo dopo»), lacrime e vasi sanguigni, risate e valore dell’emoglobina, la vita e la morte per ridere o tremare. E poi le infermiere che danno subito del tu, le tipologie dei medici, quelli che ripetono la stessa incomprensibile frase, quelli dalla falcata calcolata al millimetro per scappare senza dare l’impressione di sfuggire come invece hanno intenzione di fare, i mantra che non vogliono dire nulla come “un passo alla volta”, per esempio, oppure “ci devi mettere la testa”, «che mi faceva impazzire, che volete dire, datemi una ricetta, una formula chimica, dove la devo mettere questa testa?». Tra l’operazione e la degenza passano tre settimane, ma già dopo i primi giorni in una sorta di sdoppiamento da trattato teatrale, uno scrittore che si ritrova nella sua storia che poi scriverà, è come si spalancasse uno scenario sconosciuto e affascinante.

Come la scoperta di un reparto di eccellenza (al Regina Elena di Roma, «dove sono stato curato senza pagare un euro con le migliori cure e le migliori terapie»), in cui tutti sono carini e bravi, nessuno parla male di nessuno, segnato dalla figura di un chirurgo anti barone amato da tutti, innamorato del suo lavoro e a cui tutti riconoscono le qualità che ha. Uno spaccato quasi irreale. Dove la differenza rispetto all’inquietudine collettiva tra gerarchie, famiglie, condomini della società «sana» pervasa dal senso dell’estraneità, fa spalancare gli occhi. «La mancanza di coesione, la rabbia scaricata verticalmente, la ferocia ingiusta del conflitto latente che nella vita normale sembrano ormai acquisite, in quel reparto d’ospedale così armonioso mi sono apparsi davvero il tema capitale. Soprattutto osservando come il chirurgo che mi ha operato rappresenti tutto il contrario di chi in una posizione di potere debba rivelarsi per forza uno stronzo scollato dalla realtà pronto prima o poi a abusare di questa posizione di potere».

Nella serie il suo chirurgo, il professor Zamagna gli appare oniricamente di notte. Nella vita reale il professor Michele Gallucci, questo è il vero nome, abbandona la noia delle cene per andare a controllare come stanno i suoi pazienti. «Non si aspettava che il mio lavoro sarebbe stato anche un monumento a lui. È un uomo buono e sentimentale e c’è qualcosa di più profondo e raro in lui che ho cercato di raccontare». L’immersione è in un mondo virtuoso dal quale si esce arricchiti e non impoveriti, gli amici gli fanno visita e prima di andare via lo avvertono che ne scriverà una grande storia, il professore Zamagna-Gallucci gli chiede «Come hai potuto vedere tutto questo nella condizione in cui eri?». Torre in realtà non ha in mente nulla, allo choc della malattia si è aggiunta la curiosità di un mondo parallelo di positività inaspettata. Quando lo scrittore Vittorio Sermonti va a trovarlo gli raccomanda: «Lasciati andare a un abbandono vigile». Al ritorno a casa, senza aver preso un appunto ma avendo solo osservato, incamerato, assorbito, gli torna in mente tutto come qualcosa che era dentro ma poteva uscire quando lui sarebbe stato fuori. E quando le porte dell’ascensore, altra linea simbolicamente verticale (le sale chirurgiche nel ventre della terra, gli inferi, il piano meno tre, i reparti a quelli superiori), lo riconsegnano alla sua vita.

«Doveva essere uno spettacolo teatrale poi Lorenzo Mieli, il mio produttore, mi ha scongiurato di provare a fare almeno un episodio pilota di una serie. Ha avuto ragione lui», ricorda Torre. Tinni Andreatta, capa di Rai Fiction si è entusiasmata e i critici continuano a applaudire. «Quando è andata in onda m’hanno chiamato gli infermieri del reparto: la loro categoria è il motore della sanità italiana, fanno un lavoro fondamentale, sottopagato, faticosissimo. Erano davanti alla tv, tutti insieme intorno al mio ex letto ora occupato da un giudice costretto a vedere la mia storia di cui non gli fregava proprio nulla. Oggi mi ha telefonato Carla Taviani, la moglie di Vittorio: “Conosco le strutture pubbliche”, mi ha detto, “e leggendo il libro ho capito che l’ospedale è un luogo dove le persone si amano”. È proprio così e non avevo mai pensato che potesse capitare in un paese disomogeneo come il nostro. Eppure, gioco forza, si sviluppa una forma di fratellanza credo inevitabile, qualcosa tra tenerezza e solidarietà, una spiritualità poco religiosa». C’è Peppe, il compagno di stanza architetto, elegantissimo, di Gaeta, diventato un fratello nella vita reale con il quale registrare tic e ritualità della degenza. C’è il compagno di stanza chirurgo somalo «che nel momento del massimo dolore diceva “i drenaggi sono molto buoni, bene, bene mi piacciono”, e io mi domandavo “ma chi cavolo è questo?”». C’è quello che viene in visita trascinando flebo e sacchetti e nessuno sa se sta parlando a un amministratore delegato o a un criminale.

«Era una rappresentazione alla Spike Lee. Uomini in pigiama e pantofole, la livella sociale più evidente, tutti disgraziati con cui chiacchierare di cose di cui nessuno sapeva nulla come l’emoglobina e ridere perché qualunque dolore si provasse era sempre colpa dei vasi sanguigni. Eravamo dei complici riuniti nei corridoi senza nessuna altezzosità. Hai poco da far valere la tua individualità. Stai lottando in un altro campionato, un campionato assoluto». Tutto cambia, dopo: soprattutto il rapporto con il desiderio, qualcosa di viscerale e potentissimo che trascuriamo sempre. Capire cosa si vuole sul serio è stata una delle tappe della malattia. Nel racconto ci sono tanti bellissimi flash: «Come stai Amed?», chiede al suo compagno di stanza. «Come un tramonto», risponde l’altro. Arriva la ripresa della vita normale, «ora sai che non sei indistruttibile, e quindi provi riflessologia, meditazione, pilates, dieta. Ecco, no. Ho retto tutto, terapie, tac, farmaci pesantissimi ma rinunciare a polpette e a pane burro e alici, no. Bisogna cercare di essere felici e a me la felicità la dà lo chardonnay ». Linea verticale è un racconto politicamente sano di una sanità politicamente pulita e di una leadership luminosa. «La luminosità che aveva il corridoio del reparto bagnato dalla luce morbida delle undici del mattino». Forse è la sindrome della montagna incantata ma, dice Mattia Torre, «questo tumore mi ha salvato la vita».