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C'è il rischio che Gianfranco Librandi da ora in poi possa essere scambiato per il clone moderno del marchese del Grillo. Il protagonista del film di Mario Monicelli che, arrestato in una bettola dai soldati di papa Pio VII, viene subito liberato da un solerte commissario: «Mi dispiace: ma io so’ io, e voi non siete un cazzo», chiosava il nobile minacciando il povero gendarme che aveva osato far rispettare la legge: «Hai visto? E mo’ so’ cazzi tuoi...».
A leggere le relazioni segrete della Guardia di Finanza su una verifica fiscale nell’azienda del deputato di Italia Viva, sembra essere di fronte a un Alberto Sordi redivivo. Lo scorso 24 luglio, ai militari che iniziavano una normale ispezione fiscale nella sua azienda elettronica da oltre 200 milioni di fatturato l’anno, Librandi ha infatti spiegato che lui «lavora, non come voi che non fate un cazzo dalla mattina alla sera, pago le tasse e quindi anche il vostro stipendio». Poi ha insultato chi comandava l’operazione («un leghista di merda»). E, dopo essersi definito un «intoccabile», l’onorevole ha annunciato che uno dei militari non avrebbe più percepito la pensione. Salutando i finanzieri che facevano il loro lavoro con un definitivo: «Siete morti».
Ma cosa ha scatenato l’ira funesta del deputato renziano? Andiamo con ordine, partendo dall’inizio. Librandi non è un peones qualsiasi: ex garzone di una panetteria a Saronno e poi operaio di quinto livello della vecchia azienda di tv Ultravox, è un self made man. Fondatore trent’anni fa di una grande società di componentistica per l’illuminazione, la Tci Telecomunicazioni Italia, da qualche anno s’è buttato anche in politica. Ex berlusconiano, Librandi ha finanziato per anni partiti di destra e sinistra per centinaia di migliaia di euro: nel 2017 risultava tra i dieci donatori più generosi, quasi mezzo milione distribuito un po’ a tutti. Nel 2013 è riuscito ad entrare lui stesso in Parlamento tra le file di Scelta civica. L’esperienza nel movimento creato da Mario Monti dura però poco. Il saronnese passa presto nel Gruppo Misto e poi, folgorato da Matteo Renzi, nel 2017 entra nel Partito democratico. Che ha lasciato qualche mese fa, seguendo il suo leader preferito nell’avventura di Italia Viva.
Sconosciuto ai più, Librandi è finito agli onori delle prime pagine dei giornali solo qualche settimana fa. Quando l’Espresso ha scoperto che il parlamentare è il più munifico tra i tanti finanziatori della fondazione Open, l’ente renziano su cui sta indagando la procura di Firenze. Una segnalazione sospetta di Bankitalia sui conti correnti di Open segnala infatti come Librandi tra febbraio 2017 e giugno 2018 abbia donato ben 800 mila euro all’organismo un tempo guidato da Alberto Bianchi. Ricchi bonifici emessi attraverso la Tci, proprio l’azienda al centro della verifica fiscale che risulta ancora in corso.
A marzo 2018 Renzi, allora segretario dei democrat, candidò il primo finanziatore della sua fondazione per una poltrona alla Camera, piazzandolo in una confortevole circoscrizione lombarda. «Ci sono imprenditori che si comprano la barca o i cavalli, io investo su Matteo», s’è giustificato Librandi sul Fatto Quotidiano.
Come mai l’onorevole e la sua srl finiscono nel mirino del nucleo di Varese? A causa di altre segnalazioni della Banca d’Italia. Che evidenziano una serie di anomalie su cui i finanzieri decidono di vederci chiaro. Sia sull’utilizzo della carta di credito aziendale (Librandi, amministratore delegato, «utilizza soventemente il conto corrente della stessa società per prelevare denaro contante al fine di versarlo successivamente sul proprio conto corrente»; solo tra giugno 2016 e giugno 2017 ci sarebbero prelevamenti per circa 137 mila euro). Sia su alcune operazioni finanziarie e immobiliari, connesse al rientro di capitali dalla Svizzera: gli investigatori evidenziano come circa 800 mila euro arrivati dall’estero siano stati infatti usati dalla Tci Telecomunicazioni per l’acquisto di due appartamenti a Saronno e a Porto Cervo, mentre altri 3,5 milioni (provenienti da un conto presso l’Ubs Ag) siano stati investiti per riscattare un leasing immobiliare.
Non solo: la Guardia di Finanza spiega che l’azienda, specializzata in led, risulta proprietaria di un ingente patrimonio immobiliare valutato 44,5 milioni di euro a bilancio, e che la srl di Librandi nell’ultimo decennio non è mai stata sottoposta a «un’ispezione fiscale generale», ad eccezione di una visita mirata da parte dell’Agenzia dell’Entrate per l’anno 2012, riguardante solo i cosiddetti “prezzi di trasferimento”. Le nuove segnalazioni di Bankitalia, dunque, facevano propendere per una «verifica extraprogramma». Una procedura standard, interpretata però da Librandi come un affronto inaccettabile.
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La mattina del 24 luglio 2019 i finanzieri si presentano a sorpresa ai cancelli aziendali, come vuole il regolamento. Bussano alla porta della grande sede centrale di Saronno (300 dipendenti, segnala il sito on line dell’azienda), e a quella degli uffici commerciali di Milano e di Roma. Leggendo le relazioni di servizio, i militari segnalano come, «in considerazione della carica pubblica rivestita», Librandi veniva subito avvisato della loro presenza. In modo da evitare di ispezionare i locali eventualmente usati per le sue attività parlamentari.
Il renziano, quando riceve la telefonata, è in Commissione Finanze, a Montecitorio. Appena capito che i militari si trovavano nella sua azienda perde le staffe. «Il dottor Librandi con tono alterato» scrive la Finanza riassumendo i fatti «incalzava il maggiore Pirrazzo dicendogli che, vista la sua assenza, doveva andare via e tornare solo quando lui fosse stato presente. Che stava commettendo un abuso di potere e che i militari non potevano occupare un’azienda che lavora senza prima avvisarlo». Quando il finanziere prova a spiegargli che l’ispezione può essere tranquillamente svolta senza la presenza del rappresentante legale della srl, il deputato, «esasperato», esplode. «Non ha capito, ve ne dovete andare... lei pagherà le conseguenze di quello che sta facendo violando le leggi. Ora chiamo i generali e le faccio vedere io se sta facendo bene! Andrà a finire male», si legge in una prima relazione di servizio. Mentre il maggiore tenta di convincere il deputato di Italia Viva a moderare toni e parole, Librandi lo incalza ancora: «Ve ne dovete andare! Non ha capito, io sono onorevole, e sto in Commissione Finanze ha capito? Ora chiamo il prefetto e la faccio sbattere fuori».
I militari, però, non possono andar via. Chiedono a Librandi chi, in azienda, possa aiutarli ad avere la documentazione contabile richiesta, e a seguire le varie operazioni ispettive. L’imprenditore non si contiene: «Lei non ha capito, voi ve ne andare e tornate quando sarà possibile perché state violando i miei diritti e intralciando la mia attività di parlamentare. Io non mi faccio assistere da nessuno... lei ne pagherà le conseguenze... le farò causa e le farò pagare le conseguenze dell’occupazione militare che ha fatto questa mattina nei miei uffici di Saronno... io sono intoccabile, avete violato i miei diritti garantiti, io le avevo detto di tornare venerdì perché oggi erano presenti anche dei clienti tedeschi... Ci divertiremo in tribunale, vedrà. Mi saluti i suoi amici leghisti». Parole virgolettate nel documento protocollato il giorno dopo, il 25 luglio 2019, e firmato da tutti i militari intervenuti alla sede della Tci Telecomunicazioni di Saronno.
Mentre il maggiore Pirrazzo avvertiva dell’accaduto il comandante provinciale di Varese, il generale Marco Lainati, Librandi si precipitava negli uffici romani della srl, dove altri tre finanzieri, guidati dal tenente Cerra, erano arrivati da una ventina di minuti. A leggere una seconda relazione di servizio, alla vista dei militari Librandi prima «si rifiutava di stringere la mano ai finanzieri che si presentavano intenti a rappresentare i motivi dell’intervento». Poi partiva nuovamente lancia in resta: «Io lavoro, non come voi che non fate un cazzo dalla mattina alla sera, pago le tasse e anche il vostro stipendio». Nonostante gli investigatori avessero cominciato a perlustrare solo gli spazi che una collaboratrice di Librandi aveva indicato come adibiti ad uso aziendale, l’onorevole faceva subito presente che la palazzina di quattro piani era «prevalentemente adibita all’attività parlamentare», e che dunque avrebbe «denunciato gli operanti per abuso di potere ed “estorsione”».
Secondo la Guardia di Finanza, Librandi «inveiva contro i verbalizzanti asserendo che non avrebbe fornito il proprio documento richiesto per l’identificazione, che il tenente Cerra probabilmente a causa delle operazioni in corso non avrebbe percepito la pensione, che gli operanti avrebbero potuto considerare finita la propria carriera professionale pronunciando le parole “siete morti”».
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Per l’onorevole la verifica fiscale sarebbe stata in realtà una vendetta politica: «Il maggiore Pirrazzo sarà un leghista di merda», dice. Secondo i finanzieri mandati nella Capitale le invettive continuano per tutta la durata della tentata ispezione: quando Librandi scopre che una sua collaboratrice aveva rilasciato dichiarazioni in sua assenza (poi messe a verbale dai militari) va nuovamente su tutte le furie, spiegando che quanto scritto era del tutto falso. «Il Librandi sosteneva che la stessa era una “dipendente parlamentare” in ragione di un contratto. Alla richiesta di un documento che lo dimostrasse, l’onorevole urlava “Fuori, andate via, aria! Fuori da casa mia!”, indicando la porta d’uscita ai sottoscritti i quali, dopo aver tentato invano e con toni assolutamente pacati di riportare la calma, evidentemente persa dall’onorevole, procedevano a lasciare l’edificio».
Finita qui? Neanche per sogno. Due giorni dopo il deputato consegna alla Finanza una sua dichiarazione scritta. In cui dà la sua versione della vicenda. Una relazione firmata da altri quattro dirigenti della Tci presenti durante l’ispezione in Lombardia. Il racconto è totalmente diverso rispetto alle ricostruzioni dei finanzieri: Librandi descrive il loro intervento alla stregua di un blitz bellico. «Il 24 luglio i militari irrompevano in azienda in nove, come all’assalto, creando il panico generale, al punto che gli stessi militari si compiacevano dello stato di agitazione e timore dicendosi tra loro “li abbiamo militarizzati”», scrive l’imprenditore candidato da Renzi. «Entravano senza titolo nel Laboratorio Progetti, causando la sorpresa e il blocco della attività... Impaurendo i dipendenti ed asserendo suggestivamente di avere il potere di controllare ed acquisire i computer e i telefoni personali». In pratica violando l’articolo 68 della Costituzione sull’immunità dei deputati, e svolgendo «l’incarico con supponenza ed invasività tali da indurre in forti preoccupazioni» i dipendenti.
Librandi ammette di aver annunciato al telefono al maggiore Pirrazzo la volontà di rivolgersi «ai generali suoi superiori, a lui ben noti come persone ragionevoli, per verificare se i suoi comportamenti - oltre a violare l’articolo 68 della Costituzione - non rispettassero i diritti dei cittadini presenti, in tema di privacy e altro». Ma in tutta risposta, secondo l’onorevole, «il maggiore chiudeva la telefonata, gridando che lui non voleva sentire ragioni e “mi sono stancato di lei”».
Nella dichiarazione, Librandi si lamenta anche della scelta da parte dei finanzieri di sigillare un armadio in azienda, «contenente carte istituzionali del deputato e documenti suoi personali», oltre che di atteggiamenti «intimidatori», di un verbale finale «ridondante ed unilaterale che comunque non può essere firmato perché non corrispondente alla realtà dei fatti». Insomma, per il deputato l’accertamento tributario s’è trasformato «in una incomprensibile mancanza di rispetto verso i dipendenti di un’azienda che paga milioni di imposte, che garantisce centinaia di posti di lavoro e che recentemente ha sostenuto una verifica dell’Agenzia delle entrate durata un anno e superata senza rilievi».
Parole gravi, che sono state confutate dalle controdeduzioni della Finanza, dove si sottolinea come nove militari sono un numero più che congruo per un’ispezione fiscale in una sede con «tre buildings di due piani l’uno» e uffici con oltre 200 dipendenti. E che gli agenti hanno subito chiesto, una volta giunti nella sede societaria, di avvertire il titolare ed amministratore delegato. Inoltre, sottolineano, che la richiesta reiterata da quest’ultimo «di tornare in un’altra occasione, quando lui fosse stato presente, non poteva essere accolta in quanto non contemplata dalla normativa vigente».
In effetti la circolare della Guardia di Finanza del 2018, in merito alla lotta all’evasione e alle frodi, evidenzia l’ovvio: la verifica fiscale in un’azienda o in uno studio professionale necessita di «un effetto sorpresa», in modo che nessuno possa sottrarre o occultare documenti utili all’ispezione. E che ogni accesso «è un atto amministrativo di natura autoritativa»: i finanzieri hanno tutto il diritto dunque di entrare e restare, «anche senza o contro il consenso di chi ne ha le disponibilità», nei luoghi in cui si immagina possano esserci elementi utili all’accertamento.
Il marchese del Grillo si sentiva, nella Roma papalina di inizio ’800, al di sopra della legge. Fosse vero quanto scritto dai Finanzieri, al netto dell’esito della verifica fiscale della Tci che non ha subito finora alcun rilievo, Librandi sarebbe un suo degno epigono. Un paradosso, per un deputato che più volte ha chiesto rispetto e solidarietà per «le forze armate che ogni giorno mettono a repentaglio la propria vita per difendere la sicurezza dei cittadini». Ma che rischiano - quando toccano gli interessi di potenti che si considerano intoccabili - di prendersi insulti e pesanti minacce.