La crisi ambientale ci costringe a rivedere il significato di molti termini. A partire dai concetti di democrazia e di sovranità. Perché ci sono i diritti umani di chi è costretto a emigrare dal riscaldamento globale. E i diritti civili fioriti in Occidente. Saranno compatibili tra loro?    

Shooting-FFF6326-jpg
Business as usual. Un paio di giorni dopo il fallimento della Cop25 di Madrid, nel Parlamento italiano ci si scannava per la cannabis light, nei pub britannici la working class ex laburista non aveva ancora finito di brindare alla vittoria della destra isolazionista, e sul sito di El Pais, il più autorevole quotidiano del Paese che aveva appena ospitato la Conferenza sul clima, l’ennesimo fallimento della politica globale sul tema numero uno dell’agenda globale era già sparito, scalzato da notizie come la “raccomandazione” dell’Ue alla Spagna per la valorizzazione delle lingue “co-ufficiali”.

Nel frattempo, a New York, il cda della JpMorgan Chase (la più grande banca del mondo) distrattamente avallava il finanziamento di un’altra trivellazione nell’Artico, tanto per aggiungere qualche spicciolo a quei 196 miliardi di dollari destinati all’industria dei combustibili fossili nel periodo trascorso dall’accordo-non accordo sul clima di Parigi (2015) a oggi. Del resto, perché dovrebbe essere una grande banca a fare da apripista alla decarbonizzazione dell’economia se negli ultimi anni i Paesi del G20 - secondo un rapporto dell’Overseas development institute (Odi) - hanno triplicato i sussidi alla produzione energetica basata sul carbone?
La battaglia
Per salvare il pianeta impegniamoci tutti: cosa possiamo fare noi, cosa devono fare i governi
27/12/2019

Business as usual è la musica da organetto che continua a suonare sempre più stridula, assurda, all’orecchio dei ragazzi della generazione Thunberg, che oltre a ricevere in eredità un pianeta deteriorato (se non in prognosi riservata, come nelle previsioni dei climatologi più allarmisti), dovranno anche trovare gli strumenti concettuali, semantici, per costruire il loro futuro nel “Nuovo Regime Climatico” (secondo la definizione di Bruno Latour). Perché le “generazioni del rischio globale” - come ha ricordato nel suo ultimo libro-testamento Urlich Beck - non dovranno semplicemente gestire un cambiamento, ma vivere una metamorfosi la cui potenza è tale da sovvertire non un regime politico, bensì l’idea stessa di politica e di società. A cominciare dalle travi che hanno sorretto la normalità, il mondo, o almeno il nostro “mondo”: le parole.

Un mondo febbricitante, sì, ma ancora formalmente democratico, per esempio. Che la democrazia muoia non è certo, e forse nemmeno probabile. Ma c’è chi lo paventa, stilando diagnosi non proprio fauste. E non si tratta di tweet, ma di analisi che ci invitano a riaprire il forziere in cui le società liberali hanno custodito i loro “beni intangibili” sotto forma di parole/valori. Per verificare se hanno bisogno di manutenzione.

Parole come democrazia, appunto. Ma anche diritti, libertà, giustizia, uguaglianza, crescita (economica)... E poi giù, fino al lessico che ha caratterizzato maggiormente questo primo tratto di XXI secolo, egemonizzato da parole come globalizzazione, sovranismo, nazionalismo, migrazioni. Mentre ci stiamo ancora chiedendo come l’avvento delle Rete e la pervasività delle tecnologie digitali stiano cambiando la sfera pubblica, fino a trasformare la democrazia in “datacrazia” - o perlomeno fino a interferire pesantemente nelle formazione del consenso/dissenso nelle società democratiche - quelle parole, e noi con loro, potrebbero essere travolte da quella che il filosofo britannico Stephen Gardiner ha chiamato la “tempesta morale perfetta”: il cambiamento climatico.

Potrebbero doversi adattare a quel “Nuovo regime climatico” nel quale siamo già entrati senza quasi accorgercene, per la banale ragione che la nostra corteccia frontale si attiva di meno di fronte a scenari negativi. O per la ragione ancora più banale che se ti occupi della goccia nel mare invece che del mare (come provano a fare molti ragazzi di Fridays for future e gli attivisti di Extinction rebellion), farai fatica a trovare la notizia che 11 mila scienziati di 153 Paesi hanno fatto suonare sulla rivista “Bioscience” il terzo campanello d’allarme in pochi anni, preconizzando «immense sofferenze umane in assenza di cambiamenti radicali e duraturi nelle attività antropiche». Mentre tenevano banco i battibecchi e tira-e-molla sugli zerovirgola della plastic tax, colonizzando intere pagine e accendendo dibattiti social.

La metamorfosi, ricordava Beck, «travolge tutto in un secondo». Anche la democrazia? Quella democrazia - già da anni ridotta quasi solo al rito del voto - che ha regalato al mondo due “killer” ambientali come Trump e Bolsonaro? «Sul fronte del cambiamento climatico, la democrazia appare sempre di più come l’incantesimo anziché come la cura», osserva amaro David Runciman in “Così finisce la democrazia”. E se «l’arrivo di Trump alla Casa Bianca ha reindirizzato parte dell’energia politica contro gli scettici», continua, «non ha fatto nulla per disperdere i miasmi della sfiducia».

E se dentro la “tempesta morale perfetta” la democrazia non costituisse più un riparo adeguato? È la tesi del filosofo statunitense Jason Brennan, che nel 2016 ha fatto molto discutere con “Contro la democrazia”. La tesi è secca: molte delle questioni politiche del XXI secolo (e il climate change è in cima alla lista) sono troppo complesse perché la maggior parte dell’elettorato le comprenda. Non solo, ma gli elettori non sanno di non sapere. La soluzione? Epistocrazia. Potere a chi sa.
Disastri
La guerra di Bolsonaro agli ambientalisti dell'Amazzonia
2/1/2020

Il paleoclimatologo Lonnie G. Thomson in un saggio del 2010 raccontava il disagio degli scienziati ambientali nel doversi pronunciare sulla politica. Ma è proprio a loro (o anche a loro) che dovremmo dare il potere - secondo Brennan - dato che sono i custodi dell’episteme sul fronte climatico. «Ma l’ignoranza e la stupidità non sono oppressive come la conoscenza e la saggezza», obietta Runciman: «Proprio perché sono incompetenti: il demos cambia idea di continuo».

Il dibattito è aperto. E si tratta di un’apertura che è una voragine - visto che in gioco è la democrazia - se anche studiosi non certo sospettabili di simpatie autoritarie, si interrogano sulla compatibilità tra l’urgenza di risposte e la ritualità democratica. Il saggista ambientalista George Monbiot sul Guardian del 28 maggio scorso osservava che di fronte a una «classe di politici confusionaria, riluttante, lontana dal mondo e strategicamente incapace di affrontare anche una crisi a breve termine, per non parlare di una situazione esistenziale come quella ambientale, la convinzione che il voto sia l’unica azione politica necessaria per cambiare un sistema è ingenua; il voto, pur essendo essenziale, resta uno strumento ottuso e debole».

Che oggi si individui nella stagnazione economica la principale minaccia - populista, nazionalista - alla democrazia, potrebbe costituire un errore prospettico, un cortocircuito generato dalla memoria storica, da un residuo di pensiero novecentesco. «La storia insegna che la mancanza di crescita favorisce la rabbia populista», scrive Runciman. Ecco l’antidoto in grado di arrestare l’ondata antidemocratica che percorre l’occidente liberale minacciando la stessa democrazia. Ma nel Nuovo regime climatico l’antidoto-crescita potrebbe rivelarsi un medicinale scaduto, oppure esaurito.

Il 23 settembre del 2019 Greta Thunberg, di fronte all’Assemblea delle Nazioni Unite, ha definito “una favola” la promessa della crescita, assestando un colpo a un’altra delle parole-totem a cui i governi e i think-tank globali si aggrappano (dai liberali ai socialisti) per provare ad arginare nazionalismi e populismi. Molti twittatori, postatori e commentatori hanno per lo più aggirato quel passaggio, concentrandosi sulla performance (con tanto di ironie e dietrologie) che sul contenuto. Ma i “gretini” forse sono meno “cretini” e sanno che crescita sarà quasi certamente una delle parole da sottoporre a una profonda revisione semantica. La ragione è spiegata semplice-semplice di Kate Raworth in “L’economia della ciambella”.

Prendete due cerchi concentrici, l’interno è la base sociale definita dai nostri bisogni, quello esterno è il “tetto ambientale” definito da ciò che non possiamo oltrepassare. Se il confine esterno viene spinto all’insù (bomba demografica e consumi) e quello esterno rimane fermo si arriva al collasso. «Per rimanere dentro la ciambella dobbiamo moderare le aspettative materiali, ma vallo a spiegare a 7,7 miliardi di persone per buona parte delle quali gli standard di vita occidentale sono ancora una chimera», ha chiosato Antonio Massarutto, economista esperto di sostenibilità ambientale.

Ma la “tempesta morale perfetta”, non sembra a destinata solo a sottoporre a una profonda revisione parole come democrazia e crescita. Con la sua forza di «tempeste intergenerazionale e teorica insieme» (Gardiner ), ci obbligherà probabilmente a una rimappatura completa dell’ “universo del discorso” politico-sociale-economico. Avremmo forse bisogno di una “filosofia del cambiamento climatico” come suggerisce il sottotitolo di un recente saggio dei ricercatori statunitensi Geoff Mann e Joel Wainwright (“Il nuovo Leviatano”), che affronta da una prospettiva dichiaratamente “di sinistra” - per la semplice ragione che la destra ha un’altra agenda - il tema numero uno dell’agenda globale.

«Le questioni di base che hanno tormentato la sinistra per secoli - i rapporti tra sovranità, democrazia e libertà, le possibilità politiche di riconfigurare la vita umana in modo che produca non valore di scambio ma ricchezza e dignità sociale per tutti - sono ancora cruciali. La caratteristica distintiva della loro odierna pregnanza è che hanno una scadenza ecologica», scrivono gli autori.

Una scadenza ravvicinata, come nel caso della parola sovranità, che pure oggi anima il dibattito politico tra sovranisti e liberali più di ogni altra. Quale sovranità potrà essere esercitata in un “nuovo regime climatico” se le decisioni dovranno essere prese nel nome della specie e non di questo o quel popolo “sovrano”?

Mann e Wainwright ne individuano solo una: planetaria. Che potrà assumere due forme più probabili (e non certo democratiche), definite come “Leviatano climatico” o “Mao climatico”, a seconda che le azioni di contrasto globale ai mutamenti climatici siano intraprese nel tentativo di salvare il capitalismo o con l’intenzione di superarlo.

E del resto, che senso avrà la sovranità su base nazionale quando si svilupperanno le tecnologie Cdr (Carbon dioxide removal) già al centro dell’accordo sul clima di Parigi? Fu il chimico dell’atmosfera (e premio Nobel) Paul Crutzen a suggerire nel 2006 che la comunità globale avrebbe dovuto cominciare a prendere in considerazione l’uso delle tecnologie per mitigare i cambiamenti climatici. E l’ingegneria climatica fa progressi. Ma se raggiungerà i risultati promessi, «a chi sarebbe permesso di regolare il termostato globale?», si chiede Christopher Preston in “L’era sintetica”. Un altro possibile scenario che spazza via l’idea di sovranità nel senso in cui oggi “tiene banco”.

Nella centrifuga del Nuovo regime climatico entrano anche parole come diritti, uguaglianza, giustizia.
I diritti civili fioriti in Occidente quanto e come subiranno l’impatto dei diritti di specie (e si sopravvivenza) dei migranti climatici? Avremo bisogno di «un robusto linguaggio politico che ci aiuti a difendere il diritto delle persone a migrare in previsione del cambiamento climatico», secondo gli autori de “Il nuovo Leviatano”.

E la parola giustizia dovrà assere aggettivata principalmente con “climatica”, posto che - secondo un rapporto di Philip Alston del’Onu - il 10 per cento degli stati dovrà sopportare il 75 per cento degli effetti del cambiamento climatico? «Ogni accordo internazionale significativo sull’adattamento», scrivono ancora Mann e Wainwright, «dovrà indicare con chiarezza chi dovrà pagare chi per adattarsi a un pianeta più caldo».

La metamorfosi del mondo è in atto e che le leadership politiche globali se ne siano accorte poco o per nulla non fa che sottolineare una distanza tra la politica e i saperi che forse non ha precedenti. Si tratta allora di “Tracciare la rotta”, suggerisce il titolo del fondamentale saggio del 2018 dell’antropologo e filosofo della scienza Bruno Latour. Una nuova rotta. Lungo la quale, con il clima, cambieranno anche significati, saranno spazzate via prassi e teorie politiche insieme alle parole-valori-interessi che le sorreggono, perderanno di senso le polarizzazioni, come quella tra locale e globale. «L’impressione che la politica si sia svuotata della sua sostanza», scrive Latour, «che non si innesti più su niente, che non abbia più senso né direzione, non ha altra causa che questa progressiva rivelazione: né il Globale né il Locale hanno un’esistenza materiale durevole».

Fuori da quell’alternativa il nuovo “attrattore” politico, osserva il filosofo francese, dovrà essere il “Terrestre”. Come sostituto del Globale («Si parla di geopolitica come se il prefisso “geo” indicasse solo la cornice all’interno della quale si sviluppa l’azione politica. Ora, ciò che sta cambiando è che “geo” indica un agente che partecipa adesso a pieno titolo alla vita pubblica». E come sostituto del Locale («L’espressione “appartengo a un territorio” ha cambiato senso: ora l’istanza che prende possesso del proprietario». Bisogna rimappare tutto di nuovo, ammonisce Latour. E con urgenza. «Prima che i sonnambuli finiscano per calpestare nella loro fuga cieca ciò a cui teniamo».