Tre mesi alle Vallette di Torino e otto agli arresti domiciliari. Adesso la storica attivista ha scontato la sua pena. Il racconto della detenzione e i progetti di una donna indomita. Che ricorda: «Alla prima manifestazione eravamo solo cinque»

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«La libertà è una dimensione collettiva. Sarò veramente libera quando lo saranno anche tutti i compagni e le compagne ancora in carcere, con obblighi di dimora o restrizioni». A parlare è Nicoletta Dosio, attivista del Movimento NoTav libera, sulla carta, dal 15 novembre. È entrata in carcere all’età di 73 anni, il 30 dicembre, prima che il Covid-19 si diffondesse, per poi andare ai domiciliari in pieno lockdown e concluderli durante la seconda ondata, in zona rossa e con le restrizioni che questa comporta.

Ha scontato la sua condanna a un anno di reclusione per i fatti del 2012, quando lei e altri manifestanti vennero denunciati per aver fatto passare numerosi automobilisti senza pagare il pedaggio sull’autostrada del Frejus, al casello di Avigliana. Nonostante la possibilità di chiedere misure alternative al carcere, il volto storico della lotta contro l’Alta Velocità si rifiutò e accettò la detenzione nel braccio femminile del Lorusso e Cotugno di Torino, meglio noto come le Vallette. Il suo arresto provocò un’ondata di solidarietà in tutto il Paese, non solo da parte dei suoi compagni NoTav, ma da chi ammirava la sua forza d’animo. Dal 30 marzo era stata condotta ai domiciliari, scontati nella sua casa di Bussoleno, un comune di 5mila abitanti della val di Susa, terra delle lotte del Movimento dal 1989. E con lo sconto di 45 giorni per buona condotta in carcere, la liberazione è arrivata a metà novembre.

«Il mondo l’ho visto cambiare anche dentro le mura della prigione, dove la situazione era già desolata prima dell’arrivo della pandemia tra sovraffollamento e mancanza di mezzi minimi per potersi difendere dal contagio. Quello che faceva paura fuori, dentro era tre volte peggio». Un mese l’ha trascorso nella prima sezione, dedicata ai nuovi arrivati, in isolamento assoluto. La permanenza qui dovrebbe durare non più di 15 giorni. Diciotto ore al giorno dentro la cella, con due ore d’aria al mattino e due al pomeriggio, nel cortile dedicato: «È un grande vascone circondato da alte mura che accerchiano il cielo azzurro sopra la tua testa. Si gira in tondo, senza uno scopo, come in quel quadro di Van Gogh, “La ronda dei prigionieri”».

Dopo un mese Dosio è giunta nella sezione libera, così chiamata per i finestroni al fondo dei corridoi da cui si vede la zona maschile, da cui qualcuno ogni tanto accennava un saluto da lontano. Qui le alternative all’ora d’aria sono due: la doccia o la biblioteca, ma una esclude l’altra. Una volta a settimana, poi, l’ora di colloquio con i parenti, nel parlatorio. Uno dei primi effetti della pandemia nelle carceri è stata l’eliminazione di questi incontri e con loro la sospensione degli arrivi dei pacchi dall’esterno. Come riporta il più recente rapporto dell’associazione Antigone sulle carceri in tempo di coronavirus, «l’isolamento relativo del carcere è certamente un fattore di protezione e le misure adottate di recente lo hanno rafforzato, ma quando il virus alla fine entra in luoghi sovraffollati e malsani come le nostre carceri fermarlo diventa molto complicato». Lo dimostrano i 67 casi di Covid nel carcere torinese, «numero altissimo se paragonato al resto del Paese» si legge nel rapporto.

Dosio dice che con l’isolamento la solidarietà tra detenute è stata una salvezza. «Se c’è qualcosa di buono nel carcere è proprio questo rapporto di aiuto reciproco. Di norma tutto va acquistato, anche le minime cose necessarie per la pulizia personale e della cella: il fatto che non arrivasse più niente da fuori ha peggiorato anche la situazione alimentare, considerando che il cibo della mensa è insufficiente e immangiabile. Solo l’altruismo delle più agiate ha migliorato la situazione».

L’attivista racconta all’Espresso di non aver mai ricevuto mascherine, ma specifica che erano acquistabili all’interno del carcere. L’unica disinfezione dei luoghi avveniva una volta al giorno in corridoio, non nelle celle, con una pompa simile a quelle usate per spargere il verderame sulle piante. «Ci davano solo un bicchierino con del disinfettante per sanificare la nostra cella. Ci sentivamo senza protezione e senza alcuna possibilità di fuggire dal pericolo che stava arrivando. Ciò che mi dava più angoscia, almeno a me che sono anziana, era non tanto la paura di morire ma di non vedere più casa mia, le persone a cui tengo, i miei animali».

E così, per trascorrere le ore, ha riletto molti grandi classici, poi le lettere di Rosa Luxemburg e quelle di Gramsci, “Resurrezione” di Tolstoj e l’Inferno dantesco, quest’ultimo acquistato all’interno del carcere. «Ho fatto l’insegnante di greco e latino, i libri io li ho amati sempre tanto. La piccola biblioteca della sezione femminile, anche se molto meno fornita di quella maschile, a cui non potevamo accedere, mi faceva sentire a casa».

E il 30 marzo ci è tornata, a casa sua: «Sono stata una delle poche a ottenere la misura alternativa, per via dell’età e dei miei problemi di salute. Anche quando ero in carcere ho subito un piccolo intervento, ma sarei rimasta ancora fino alla fine della pena. Molti, in quel periodo, chiedevano tutele e, soprattutto, l’amnistia, l’indulto: dovrebbe essere il minimo. Vedo che i grandi criminali stanno seduti ai posti di potere, mentre in carcere ci sono le vittime di questa giustizia sociale infinita, i poveri, i malati e chi ha tentato di ribellarsi a questo sistema che ci sta ammazzando». I suoi domiciliari li ha passati in solitudine, senza la possibilità di ricevere visite.

Ma il 17 settembre, alla notizia dell’arresto della compagna NoTav Dana Lauriola, Dosio è evasa dai domiciliari per vederla: «Avrei sofferto troppo se non fossi riuscita a fare questo piccolo gesto per lei. Ho ricevuto una denuncia, che non ha valore retroattivo e non poteva influire sui giorni che stavo già scontando, ma ci sarà un processo. Quando il potere è ingiusto, però, resistere è un dovere diceva qualcuno. E noi lo mettiamo in pratica», dice fiera Dosio.

La sua compagna, arrestata per i medesimi fatti del 2012, sta scontando due anni di carcere nella stessa struttura di Torino in cui si trovava lei. L’ha sentita, Dana, sta studiando nell’aula messa di recente in piedi nel carcere, dove darà alcuni esami universitari. Come lei ha avuto e continua ad avere il supporto del Movimento, in cui da sempre le donne hanno un ruolo primario: «La lotta NoTav è stata fin dall’inizio una lotta di donne. Erano loro a stare nei presìdi, a organizzare la propria vita e quella degli altri: hanno senso di responsabilità rispetto a un futuro che va protetto non soltanto astrattamente, ma nel concreto, giorno dopo giorno».

Giovani contro
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Le donne, secondo l’attivista, sentono ingiustizia e oppressione sempre più sulla loro pelle. Non si riferisce solo a Dana, ma anche a Eddi Marcucci, una delle compagne del Movimento. Il 17 marzo scorso il Tribunale di Torino ha emesso un decreto di sorveglianza speciale nei suoi confronti in quanto «individuo portatore di pericolosità sociale», dopo che nel 2017 si era unita alle milizie curde in Siria per combattere lo Stato Islamico: entro Natale la Corte d’appello prenderà una decisione dopo il ricorso presentato dalla 29enne contro tale misura. «Eddi è una dolcissima fanciulla che ha partecipato alle nostre lotte e noi partecipiamo alla sua. Abbiamo la fortuna di avere queste figure giovani a cui lo Stato non ha fatto altro che dare precarietà e incertezze: col Movimento hanno riscoperto, come successe a me in tempi ormai lontani, la forza del conflitto per un mondo più giusto».

Questa forza non è stata attenuata neanche dal lockdown. Misura doverosa, secondo Nicoletta Dosio, data la tragica situazione sanitaria: «Dovrebbe essere estesa anche a chi costruisce la grande mala-opera. Nella val Clarea continuano a lavorare e sperano di sfruttare questo periodo per agire indisturbati in nostra assenza, ma noi certamente non glielo permetteremo».

La battaglia NoTav continua e si evolve, con nuove e giovanissime leve che secondo Nicoletta hanno una sensibilità maggiore per le tematiche ambientali, meno sentite ai suoi tempi. «Ricordo la nostra prima manifestazione, erano gli anni Novanta. Eravamo in cinque, con un piccolo cartello, a protestare contro l’Alta Velocità alla stazione di Bussoleno. Cercarono di cacciarci da quella banchina, ma avevamo acquistato un biglietto per Susa, la stazione più vicina, ed era nostro diritto essere lì. E allora fecero passare un treno merci davanti a questo nuovo e scintillante Tgv per non farcelo vedere».

Il cartello recitava “No treno ad Alta Velocità, sì servizi per tutti”. E quel messaggio, in tutti questi anni, ha unito migliaia di persone. «Nel 2005, alla liberazione di Venaus, eravamo sessantamila. Vinceremo questa lotta perché è legata a ragioni del passato ma ha anche una prospettiva futura, cosa che invece manca a coloro che vogliono devastare il nostro mondo».