Pazienti positivi, ma senza sintomi gravi. Dopo settimane di clausura, non riescono a sapere se sono ancora contagiosi. Un rischio che mette in pericolo la ripartenza. E a Milano l'hotel per la quarantena resta vuoto (Foto di Alessio Mamo)

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L’isolamento domiciliare di quasi centomila italiani positivi al covid-19 si può davvero definire “isolamento”? Centomila persone con l’aggiunta di due, tre familiari per nucleo, e magari la badante per i più anziani, dovrebbero gestire la loro casa con i criteri di sicurezza di un laboratorio Bsl-4: percorsi puliti differenziati e percorsi sporchi per le persone e gli oggetti, sanificazione costante di ambienti e indumenti. E mai un errore. Questo prevedono le norme per la convivenza con virus pericolosi come il Sars-Cov-2 in tempi normali. E non basta essere laureati e specializzati in virologia o microbiologia per maneggiarli, bisogna anche essere addestrati. Ma quante delle persone malate e non ricoverate, o asintomatiche, o dimesse dagli ospedali ma ancora contagiose, sanno cosa significa biosicurezza di livello 4 e possono trasformare il loro piccolo appartamento in un set del film Contagion?

La domanda, soprattutto al Nord, è un bel dilemma: perché in attesa del vaccino, senza una risposta scientifica basata su tamponi e test sierologici per liberare dall’isolamento chi è già immune, l’ottimistica corsa verso la riapertura potrebbe trasformarsi tra due, tre o quattro settimane in un nuovo scontro frontale con l’epidemia. Lo suggeriscono i dati sui nuovi contagi diffusi dalla Protezione civile. Se sommiamo l’ultima settimana dal 15 al 21 aprile nelle regioni più colpite, la cautela è necessaria: 2.340 nuove diagnosi in Emilia Romagna, 4.265 in Piemonte, 1.972 in Veneto e addirittura 6.605 in Lombardia.

Se poi consideriamo che si tratta di numeri basati sui test di laboratorio eseguiti, ormai si stima che la realtà sia fino a quattro volte superiore. Considerati i giorni di incubazione, queste persone si sono infettate a inizio-metà aprile: cioè dopo la tacita riapertura delle attività in Veneto, ammessa anche dal governatore Luca Zaia, e il blocco totale nelle altre tre regioni. Magari durante le uscite per fare la spesa. Ma soprattutto, data la probabilità di maggiori contatti in uno spazio chiuso, durante la convivenza con familiari contagiosi. Insomma, l’isolamento domiciliare non ha isolato abbastanza.

Anna S., 47 anni, impiegata, abita in un paese della provincia di Lodi. Non ha più sintomi da dieci giorni. Ma non ha la certezza di non essere più contagiosa. Senza i due tamponi di controllo, nessuno lo può sapere. «Ho chiamato in ospedale», racconta, «e mi hanno detto che devo avere pazienza. Non ci sono tamponi per tutti e servono prima per le diagnosi e per il ritorno in servizio del personale sanitario che si è ammalato. Mi hanno quindi invitata a rivolgermi al mio medico, poiché sono stata curata a casa. Ho chiamato anche lui. Ma se nemmeno l’ospedale ha i tamponi, figuriamoci il medico di base. Continuiamo quindi l’isolamento di tutta la famiglia. Io da quasi un mese vivo nella camera delle mie figlie. Loro dormono nel nostro letto matrimoniale, mio marito sul divano. E da quasi un mese nessuno esce, perché dopo di me ha avuto la febbre mia figlia di diciotto anni. Ora ce l’ha la piccola di quindici. I loro sintomi sono lievi, non sapremo mai se è covid. Per fortuna abbiamo due bagni. Certo, sarebbe stato più semplice se fossi andata io a dormire sul divano in soggiorno. Ma a quel punto sarebbe stato impossibile isolarmi dal resto della famiglia».

Anna è stata contagiata a marzo, nell’assistere i genitori anziani. Mamma e papà sono morti in una settimana. Certamente per coronavirus: i tamponi hanno dato esito positivo. «A quel punto», aggiunge, «io, mio marito e le mie figlie abbiamo cominciato la quarantena obbligatoria. Ci chiamavano a casa tutti i giorni. Come sta signora? Ha febbre? E le figlie, e suo marito? Un giusto monitoraggio. Una sera mi è salita la febbre. Ho cominciato a sentirmi a pezzi, dolori alle ossa, respiro corto non appena facevo qualche passo in casa. Mi chiamano dall’ospedale per il contatto quotidiano e riferisco i sintomi. Mi dicono di telefonare subito al mio medico. E da quel giorno dall’ospedale non chiamano più. Una mattina, dopo la diagnosi di covid, telefono io al numero che mi avevano dato. Gentilmente mi spiegano che da “contatto con un paziente positivo” ero diventata “paziente covid” e che quindi non ero più di loro competenza. Ma mio marito e le mie figlie? Nessuno ha più telefonato. La diagnosi mi è stata fatta senza tampone, con una radiografia: polmonite interstiziale, come tutti. Il medico ha impiegato quasi due giorni per trovare un’ambulanza che mi portasse e riportasse dall’ospedale per la lastra. Ci avevamo provato noi prima di lui, inutilmente. Due sole risposte: “Signora, se può parlare al telefono non è poi così grave” e “Se siete in quarantena suo marito non la può accompagnare, potrebbero denunciarlo”. Mi immagino quanta gente non abbia trovato assistenza in quei giorni. Il dottore mi ha curata a casa con Plaquenil, l’antimalarico, azitromicina e cortisone. Comunque nel dubbio di poter contagiare qualcuno, non uscirò fino a quando non avrò la certezza di essere completamente guarita. Abitiamo in un paese, abbiamo un solo negozio di alimentari ma efficiente: ci lasciano la spesa davanti alla porta, pagheremo alla fine».

Quanti, di fronte alla mancanza di tamponi e di informazioni, hanno mantenuto l’impegno dell’isolamento? Alla vigilia di Pasqua l’assessore lombardo al Welfare, Giulio Gallera, si è rassegnato al fallimento della campagna di test e ha aggiunto altri quattordici giorni di quarantena dalla “scomparsa dei sintomi”. Ma il senso di prostrazione che Anna continua a provare è un sintomo della malattia o la conseguenza della cura particolarmente aggressiva? Due settimane di isolamento dopo un contatto sospetto e altre due dopo l’apparente guarigione, tra l’altro, potrebbero non bastare. Proprio in Lombardia sono stati registrati casi di persone che trenta giorni dopo la comparsa dei primi sintomi sono ancora positive. Quante sono? Quanti sono i portatori asintomatici del virus?
Senza indagini scientifiche e tempestive sul territorio, non lo sapremo mai. Ma senza reagenti e senza sufficienti kit per i test, non sarà possibile alcuna indagine scientifica.

Dossier
Sul coronavirus non c'è partita: Italia - Germania finisce 0-4
21/4/2020
La Germania ha costituito abbastanza scorte in tempo per l’epidemia. La Regione Veneto si è arrangiata da sola. Per il resto d’Italia, secondo la delibera con cui il 31 gennaio il premier Giuseppe Conte dichiarava lo stato di emergenza, ci avrebbe dovuto pensare la Protezione civile.
Tra gli anziani positivi che hanno bisogno di assistenza diretta, a volte chiusi in appartamenti piccoli, l’isolamento è praticamente impossibile. Familiari o badanti entrano ed escono dalle loro case, hanno contatti ravvicinati e spesso nessuna consapevolezza dei rischi. A Milano gli abitanti tra i 75 e i 79 anni sono oltre 69 mila (dati Istat del 2017), quelli tra 80 e 84 più di 52 mila, tra gli 85 e gli 89 sono 34 mila, tra i 90 e i 94 anni 15 mila. Il capoluogo e la sua città metropolitana finora non hanno perso la battaglia contro il virus, ma non hanno nemmeno vinto la guerriglia quartiere per quartiere. Ci sono giornate in cui la differenza dei contagi e dei morti con il giorno precedente è ancora in aumento, nonostante il blocco di settimane.

Due valori ci aiutano a capire che cosa sta accadendo. Una è la densità di abitanti a Milano per chilometro quadrato: 7.589 persone, con dieci comuni della città metropolitana sopra i quattromila abitanti per chilometro quadrato e 34 comuni sopra i duemila. Wuhan, la metropoli cinese di otto milioni e mezzo di residenti da cui è partita la pandemia, ha una densità di sole 1.200 persone per chilometro quadrato.

L’altro valore che probabilmente influisce nel difficile isolamento domiciliare è la dimensione media degli appartamenti nei quartieri popolari. La tabella della superficie utile pubblicata a inizio marzo dall’Azienda lombarda per l’edilizia residenziale e dalla Regione conferma i seguenti parametri: valori minimi per una persona 28 metri quadri, per due 38, per tre 48, per quattro 58, per cinque 68, per sei inquilini 78 metri quadri.

La sera che Luisa e Giulio, 70 e 75 anni, si sono rassegnati a chiamare l’ambulanza, lui aveva la febbre alta da una settimana. Lei forte come una roccia. Dopo cena, tre astronauti entrano nel loro piccolo appartamento del quartiere Comasina. «Proprio così, degli infermieri potevo vedere soltanto gli occhi», rivela Luisa: «Gentilissimi e molto delicati. Mi hanno detto: signora, lei si sieda in un angolo, ci pensiamo noi. Hanno visitato mio marito. Aveva da giorni tosse secca, febbre, dolori al torace. Quando lo hanno portato fuori, mio marito mi ha guardata. Ciao Luisa, mi ha detto. Solo questo. Hanno portato via anche i suoi vestiti e le lenzuola. In ospedale gli hanno dato i farmaci contro l’Aids, così mi ha detto il dottore che telefonava. Lo facevano stare malissimo, ma dopo due settimane me l’hanno restituito vivo. Ora è in quarantena: lui chiuso in camera. Io nel piccolo soggiorno. Abbiamo un bagno solo. Pulisco, disinfetto. Non ho avuto sintomi, ma non so se sono positiva. Ci porta la spesa nostra figlia. Sì, lei viene in casa una volta alla settimana. Entra lei a pulire la camera dove dorme mio marito, così io non dovrei rischiare. Aspetti che è qui, gliela chiamo». Non lascia il tempo di spiegarle che è meglio evitare il passaggio della cornetta, la figlia prende subito il telefono. Nessuno ha detto loro che quel semplice gesto potrebbe far circolare il virus. E non tutti hanno parenti vicini che possono portare la spesa: così non si saprà mai con precisione quante sono le persone che, nonostante la quarantena, sono costrette a uscire. Anche solo per comprarsi da mangiare.
Il piano di emergenza, rimasto in parte sulla carta, prevedeva che i pazienti dimessi concludessero il periodo di isolamento in un albergo.

Per questo il Comune di Milano il 30 marzo ha aperto trecento posti assistiti all’hotel Michelangelo davanti alla stazione Centrale, grazie a un accordo con le aziende sanitarie, la prefettura e la proprietà che ha messo a disposizione gratuitamente il grattacielo. Ma la collaborazione con la Regione non è decollata nemmeno per assistere i milanesi guariti. E due settimane dopo l’apertura, il Comune ha rivelato lo spreco: duecento posti dell’hotel sono rimasti vuoti.

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