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Attualità
aprile, 2020

Il colera di Napoli al tempo dei Borboni

Nel 1836-37 la capitale del Regno delle due Sicilia viene investita da un'epidemia che farà oltre trentamila morti. Fra questi, il maggiore poeta italiano dell'Ottocento, Giacomo Leopardi

Il 1836 a Napoli si presenta come anno fausto. Il 16 gennaio re Ferdinando II annuncia alla plebe e ai signori la nascita del primogenito, che gli succederà sul trono di Borbone con il nome di Francesco II e il vezzeggiativo, o dispregiativo, popolare di Franceschiello.
I festeggiamenti in città e nelle province del Regno delle due Sicilie diventano un proseguimento del Natale, anche se un'ombra si è allungata da mesi sugli Stati dell'Italia. È il colera, un batterio gram-negativo che attacca l'intestino e, attraverso la dissenteria, porta alla morte per disidratazione o insufficienza cardio-respiratoria.
Il colera ha iniziato la sua marcia di conquista e di distruzione anni prima. È apparso in India nel 1817, come morbo endemico del basso Gange, ed è subito diventato il “morbo della rivoluzione commerciale” e della colonizzazione (10 mila morti fra le truppe britanniche).
Mercanti inglesi e le prime navi a vapore hanno sparso il Vibrio cholerae prima in Asia, poi in Russia. Dalla città commerciale per eccellenza dell'impero zarista, Nižny Novogorod, il colera investe Danzica, la Germania, la Francia. Parigi e Marsiglia subiscono perdite nell'ordine di 22 morti ogni mille abitanti. A Bordeaux il tasso di letalità arriva al 70%.
Città che vivono di commerci come Venezia, Livorno e Genova esitano a intervenire per non danneggiare i traffici a vantaggio della concorrenza.

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Ma la preoccupazione è tale che già nell'agosto del 1835, quando l'epidemia sta devastando il Regno di Sardegna di Carlo Alberto, il governo di re Ferdinando emette un decreto dove si prevedono i regolamenti e le contromisure da adottare in caso di esplosione della malattia. Il provvedimento principale è il cordone sanitario al confine nord con lo Stato Pontificio. Il supremo magistrato di salute impone la quarantena alle navi provenienti da zone a rischio e si riserva di chiedere a chi sbarca una certificazione sanitaria.
Napoli ha caratteristiche e debolezze ben note alla dirigenza borbonica che pure non si è data troppo da fare per trovare rimedi.

La città è una delle più popolate d'Europa con 357 mila abitanti. Ma rete fognaria e acquedotti sono quelli del Seicento. I collettori principali scorrono in mare ma la costruzione della via Marina per ordine di re Carlo III nel 1740 crea uno sbarramento che favorisce il ristagno della cloaca massima.
Dei due acquedotti cittadini (Bolla e Carmignano), il Bolla scorre quasi in superficie da Monte Somma a Poggioreale attraverso la città antica (Tribunali, Mezzocannone, Forcella, S. Biagio) e viene mantenuto dalla corporazione pubblica dei fontanieri. Il Carmignano scorre più profondo ed è curato dalla corporazione dei pozzari. Perdite nelle falde potabili e infiltrazioni dai pozzi neri non collegati alla rete fognaria principale sono innumerevoli. Il Carmignano – si scoprirà troppo tardi – passa sotto il cimitero di S. Maria del pianto dove sono stati sepolti gli appestati del 1656 e dove i nobili seppelliranno i loro morti di colera.

Il blocco del confine terrestre non basta. La malattia entra in città dall'ingresso più ovvio. Il quartiere Porto è il primo a essere colpito e un soldato in servizio alla dogana, Gennaro Maggi, è indicato come paziente uno, senza certezze. Il medico e storiografo irpino Salvatore De Renzi, nella sua relazione al governo del 1837, accusa il contrabbando già florido e segnala la comparsa di una strana epidemia nelle Puglie portata a Napoli da un barbiere di Lecce. Un medico barese che parla di colera viene punito, come il dottor Li di Wuhan.
La prima fase dell'epidemia inizia il 2 ottobre 1836 e dura 158 giorni fino all'8 marzo dell'anno successivo. Dopo un mese in cui la città si illude di averla scampata, il colera torna molto più forte il 13 aprile. La seconda fase dura 195 giorni fino al 24 ottobre 1837 con un totale ufficiale di 13810 decessi su 21784 casi e una letalità del 63,3%.
All'inizio il morbo è accolto con il solito atteggiamento negazionista-minimalista. I morti sono soprattutto fra i ceti popolari e non è una sorpresa, visto come vivono. Nei primi giorni i ricchi, per vie corruttive, nascondono i loro morti di colera e falsificano le cause del decesso in modo da evitare le restrizioni di sanità pubblica che hanno vietato le sepolture nelle cappelle gentilizie e nei cimiteri delle chiese.
La responsabilità del contagio è attribuita alla spazzatura, ai suoi miasmi e alla scarsa circolazione dell'aria fra i vicoli dei Quartieri spagnoli, a via Foria o al porto. Quindi i benestanti non corrono rischi. È un'illusione. Un medico inglese, John Snow, seguito dal collega italiano Filippo Pacini, scopritore del vibrione, intuiranno che il veicolo principale è l'acqua contaminata dalle feci.

La teoria delle due razze
In effetti il colera, come le pestilenze del Trecento e del Seicento, inizia la sua corsa fra i “bassi” abitati dal popolo ma non si fermerà di fonte ai palazzi dei magnati che anzi saranno i più colpiti nella seconda durissima fase del contagio.
Detto questo, la spaccatura di classe nella Napoli dei Borboni è una delle più clamorose d'Europa.
« Chi viene straniero fra noi e vede il nostro popolo ed i suoi costumi», scrive De Renzi nel 1848, «non crede di osservare ceto civile e plebe, ma sospetta due razze diverse di uomini: tanto la miseria e l'abbandono ha abbrutito gran parte degli abitanti... Senza tetto e senza vestito, molti confidano più nella clemenza del clima che nella pietà ? nella giustizia degli uomini; e coloro che possono ricoverarsi tra quattro mura disputano agli animali il luogo di ricovero, e gli animali de' ricchi sono spesso più fortunati. Le case de' poveri sono tutte al livello delle strade e molte sottoposte ad esse ne ricevono l'umidità, le immondizie, lo spruzzo del fango, e la polvere. In un angolo il focolaio, in un altro il deposito delle impurità, due logore sedie ? una pietra per sedere, quattro tavole con uno strame di paglia che chiamano letto, una volta ? quattro travi affumicate, nere, minaccianti ruina, costituiscono queste tane che covrono genitori e fìgli di ogni età, accovacciati sul terreno, costretti a tenere aperto l'uscio per riconoscere il giorno, e ad uscir sulla strada per vedere il sole. Tutte le funzioni della vita di molti esseri ad umana figura si compiono in questo breve ricinto. Lauta imbandigione è per essi un poco d'erba mal cotta e peggio condita con poco nero pane, e talora qualche frutto acerbo ? guasto».

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Le terapie
I dati dei decessi divisi per classe sociale mostrano che il morbo colpisce di più i benestanti del popolo. Le spiegazioni date sono varie. Una dipende dalle difficoltà dei due acquedotti a rifornire le zone alte della città come Posillipo, Capodimonte, Vomero, S.Elmo, già allora preferite dalle classi superiori. In realtà, date le infiltrazioni e l'inquinamento delle acque pubbliche, spesso si ricorreva a pozzi privati ancora più a rischio oppure al trasporto da parte di acquaioli. Altri hanno ipotizzato che proprio le condizioni igieniche della città bassa avessero, alla lunga, fortificato chi riusciva a sopravvivere alla mortalità infantile elevatissima.
Ma il vero e paradossale vantaggio del popolo era l'impossibilità di pagarsi cure e rimedi che, senza proteggere o guarire, spesso procuravano danni. Chi poteva permetterselo faceva largo uso di oppiacei, di purghe e di ossido di zinco. Spesso era il colpo di grazia.
Le istituzioni organizzano sette ospedali. Ma i malati possono scegliere di farsi curare a casa. I funerali vennero ammessi solo di notte e lo Stato organizzò panifici a prezzi calmierati per evitare la carestia. A vigilare sull'applicazione delle ordinanze, re Ferdinando mette il suo ministro della Polizia, Francesco Saverio Del Carretto.

Lo sbirro e il poeta
Del Carretto è una delle figure più interessanti dell'epoca. Nato a Barletta nel 1777 ha una vita parallela con il suo quasi coetaneo e collega francese Eugène-François Vidocq, nato nel 1775. Anche Del Carretto, prima di diventare il superpoliziotto del Regno borbonico, si è trovato in difficoltà con la giustizia.
Mentre Vidocq ha un passato da criminale comune, il pugliese è stato un delinquente politico. Durante i Moti liberali del 1820-1821, viene arrestato in quanto carbonaro. Dopo essersi riconvertito ai principi della restaurazione monarchica, sosterrà che la sua appartenenza alla carboneria era una messinscena. Come Vidocq, anche Del Carretto si era infiltrato per meglio denunciare le reti rivoluzionarie, dettando un metodo che sarà molto praticato nei secoli a venire.
È proprio Del Carretto ad arrestare nel 1832 un giovane avvocato napoletano, Antonio Ranieri, che sarà espulso dal Regno in quanto liberale. Ranieri otterrà il permesso di rimpatrio un anno dopo. Glielo dà il re al termine di un colloquio personale a quattr'occhi, secondo quanto sostiene lo stesso Ranieri che pure non apparteneva a una famiglia fra le più in vista del Regno e che, come si vedrà, si prendeva frequenti libertà con i dati del reale.
Il liberale pentito, a meno che non fosse un infiltrato anche lui mandato in giro per l'Italia a frequentare i circoli rivoluzionari e i mazziniani della Giovine Italia, torna a Napoli il 2 ottobre 1833 insieme a un amico di Recanati, un curioso personaggio che ha deciso di condividere con Ranieri una lunga avventura in giro per l'Italia.

L'amico è Giacomo Leopardi.
La vicenda di Leopardi a Napoli ha riempito i libri di storia ed è stata raccontata al cinema di recente da Mario Martone (Il giovane favoloso con Elio Germano, 2014). Ma la fine del poeta, che muore il 14 giugno 1837, resta un mistero.
È noto che Leopardi e Ranieri abbandonano Napoli durante la prima fase dell'epidemia, nel 1836. Vanno a Torre del Greco, località di villeggiatura per i signori, in una residenza dove lo scrittore marchigiano scrive la Ginestra, uno dei suoi poemi immortali.
Nell'illusione che il contagio sia al termine, a febbraio 1837 i due amici tornano in città nel palazzo dove si sono trasferiti nel 1835 in vico del Pero 2, a monte del Museo nazionale.
Il ritorno di fiamma del colera li blocca in casa. Il loro conoscente Francesco De Sanctis, il maggiore critico letterario italiano dell'Ottocento che al tempo ha vent'anni, ricorda quei giorni con poche parole: «La vita pubblica sospesa. Le scuole, le botteghe deserte».
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Il 14 giugno, nel racconto di Ranieri, il contino Leopardi si abbandona a uno dei suoi frequenti stravizi alimentari. Ingurgita un chilo di confetti di Sulmona, una cioccolata, si ingozza di brodo caldo, poi ci mette sopra un paio di granite ghiacciate. Poche ore dopo è morto.
Il medico certifica l'idropisia polmonare (liquido nei polmoni) come causa del decesso. L'amico Ranieri, a quanto egli stesso sostiene, riesce a eludere la sorveglianza strettissima della polizia borbonica nel modo più semplice. Si mette d'accordo con il ministro Del Carretto in persona e fa seppellire il poeta nella chiesa di San Vitale a Piedigrotta.
Considerando una certa tendenza immaginifica di Ranieri, la tesi alternativa è che Leopardi sia morto di colera e che il suo corpo sia finito, come imponevano le ordinanze di pubblica sanità, nella gigantesca fossa comune allestita alle Fontanelle, un ex cava di tufo a Poggioreale.
Nel giugno del 1900, quando viene riesumato il feretro a San Vitale, nella cassa si trovano poche ossa secondarie e due femori troppo lunghi per essere compatibili con la statura del poeta. Niente cranio, né colonna vertebrale. Nel 1939 Benito Mussolini sposta la presunta reliquia nel Parco virgiliano a Mergellina.

Rivolta in Sicilia
Poco più di un mese dopo la morte del poeta, il ministro Del Carretto viene spedito d'urgenza in Sicilia che ha abbandonato la cordonatura sanitaria applicata nella prima fase ed è stata colpita dalla seconda ondata.
Del Carretto deve reprimere i moti di piazza scatenati, a quanto pare, dalla propaganda liberale che accusa i Borboni di avere diffuso il colera per piegare il popolo. Il 16 luglio a Siracusa, dove il morbo infierisce, c'è una sollevazione che porta all'assassinio dell'Intendente, del capo della polizia locale e di altri rappresentanti del potere.
Del Carretto agisce come aveva fatto anni prima nella repressione del brigantaggio in Calabria citeriore. Arresta e fucila centinaia di persone.
A ottobre del 1837 il peggio è passato, anche se non per molto. Napoli conoscerà altre quattro epidemie di colera nell'Ottocento, prima e dopo l'Unità d'Italia: 1854-55, 1865, 1873 e 1884, quando finalmente si mette mano al sistema fognario che risaliva al viceré don Pedro de Toledo (XVI secolo).
Nel 1836-37 lil colera raggiunge i livelli delle grandi pestilenze del Trecento e del Seicento. Nella prima fase muoiono 5669 persone su 10361 (letalità del 54,7%). Nella seconda, i decessi sono 13810 su 21784 malati (letalità del 63,3%). Ma è un calcolo minimo che esclude migliaia di vittime. De Renzi parla di oltre 30 mila morti.

Conclusioni
Oggi il Vibrio cholerae è tornato a essere una malattia per poveri. Ci si ammala nelle zone meno sviluppate del mondo e si muore nell'ordine di decine di migliaia di persone l'anno, come accade nello Yemen investito dalla guerra.
A Napoli il colera si è ripresentato in tempi recenti. È accaduto nel 1973 con un bilancio finale di 24 morti e 278 casi tra Ferragosto e la prima metà di ottobre. Imputato principale, i frutti di mare pescati in un Golfo avvelenato dagli scarichi.

Nota
La maggior parte delle notizie di questo post sono tratte dai lavori storici sul colera a Napoli di Annalucia Forti Messina.

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