Quel 2 agosto la bomba provocò 85 morti. È l’unico attentato di cui la magistratura ha accertato gli esecutori e gli autori dei depistaggi. Che però sono continuati fino a oggi
Al disastro di Ustica del 27 giugno 1980 seguì la strage di Bologna, il 2 agosto successivo. Tra i due tragici eventi trascorsero trentacinque giorni incerti e sospesi, scanditi dalle note sdolcinate di Alan Sorrenti («non so che darei per fermare il tempo») che vibravano nell’aria afosa di luglio.
La bomba di Bologna costituisce un’eccezione nel panorama dello stragismo italiano dal 25 aprile 1969 in poi perché è l’unico attentato di cui la magistratura è riuscita ad accertare sia la responsabilità degli esecutori materiali (i neofascisti dei Nar Valerio Fioravanti, Francesca Mambro, Gilberto Cavallini, Luigi Ciavardini, che pure continuano a professarsi innocenti) sia il ruolo svolto da un secondo livello “cerniera”, formato da quanti, tra i servizi segreti militari, infiltrati dalla loggia massonica P2, hanno depistato le indagini con lo scopo di coprire i responsabili dell’inaudito crimine.
Nel 1995, infatti, sono stati condannati con sentenza definitiva «in ordine al delitto di calunnia, aggravato dalla finalità di eversione dell’ordinamento democratico e di assicurare l’impunità degli autori della strage della stazione di Bologna» il capo della P2 Licio Gelli (10 anni), il generale del Sismi e affiliato alla P2 Pietro Musumeci (8 anni e 5 mesi), il colonnello del Sismi Giuseppe Belmonte (7 anni e 11 mesi) e il collaboratore civile del servizio militare Francesco Pazienza (10 anni), questi ultimi due anche loro massoni ma non piduisti. Secondo la Corte d’assise di Roma tali azioni depistanti sono avvenute con la connivenza del responsabile dei servizi militari di allora, il generale Giuseppe Santovito, anche lui iscritto alla P2, arrestato nel dicembre 1983, ma prematuramente scomparso due mesi dopo a causa di una crisi di cirrosi epatica di cui soffriva.
È interessante notare un italico paradosso. Nell’unico caso in cui si è registrata una duplice condanna sia degli esecutori materiali sia dei depistatori della strage si è sviluppata una parallela campagna d’opinione volta a ridiscutere questa verità giudiziaria faticosamente acquisita. Nonostante le prove raccolte abbiano superato il vaglio di oltre un centinaio di diversi magistrati, togati e popolari, e abbiano retto in tutti i gradi di giudizio oltre ogni ragionevole dubbio, ciò non è bastato ad arrestare il continuo zampillare di teorie alternative, dubbi e petizioni innocentiste. Anzi, lo ha alimentato. Tale atteggiamento, certamente condizionato dal fatto che i giudici hanno attestato per la prima volta l’azione di infiltrazione e di condizionamento della P2 ai massimi livelli dello Stato, sembra rivelare un dato di fondo della società italiana, ossia il suo continuo oscillare tra attese salvifiche affidate all’azione della magistratura, che alimentano una diffusa cultura giustizialista, e il profondo scetticismo sul suo agire quando essa riesce a giungere a sentenza secondo le regole proprie di uno Stato di diritto.
A integrazione e completamento di questo primo processo per depistaggio se ne è svolto in anni più recenti un secondo in cui sono stati imputati il capocentro del Sismi di Firenze Federico Mannucci Benincasa e l’esponente dei Nar Massimo Carminati, i quali sono stati condannati in primo grado nel 2000 e assolti nei successivi gradi di giudizio nel 2001 e nel 2003.
Concretamente in cosa è consistito il primo depistaggio giudiziariamente accertato nel 1995? Nel gennaio 1981, a seguito di una segnalazione del Sismi, nell’ambito di un’operazione denominata “Terrore sui treni” i condannati fecero ritrovare in un vagone dell’espresso Taranto-Milano, una valigia con esplosivo dello stesso tipo di quello utilizzato a Bologna, insieme con armi e oggetti personali attribuibili a due estremisti di destra, uno tedesco e l’altro francese.
La sentenza di primo grado del secondo processo per depistaggio avrebbe accertato che il mitra Mab, con il numero di matricola abraso e il calcio rifatto artigianalmente, fatto ritrovare nello scompartimento del treno dagli agenti segreti, era stato prelevato da un deposito di armi presso il ministero della Sanità custodito dalla banda della Magliana. Nonostante le univoche testimonianze dei neofascisti Sergio Calore e Paolo Aleandri e dal delinquente comune Maurizio Abbatino che avrebbero riconosciuto il mitra, il primo verdetto non ha retto sul punto negli altri due gradi di giudizio.
Ovviamente, il concetto di «servizi deviati» appare del tutto insufficiente a descrivere quanto è avvenuto perché stiamo parlando dei vertici istituzionali della struttura, nominati nel gennaio 1978 dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti, con il placet del presidente della Repubblica Giovanni Leone, e confermati nel loro ruolo anche dopo il sequestro e la morte di Aldo Moro dal nuovo premier Francesco Cossiga e dal capo dello Stato Sandro Pertini. Non sappiamo se Santovito e Musumeci, nonostante l’umiliazione subita dall’Italia nella primavera 1978, furono conservati nei loro posti in ragione di una riconosciuta professionalità o perché avevano validi argomenti per essere ritenuti degli intoccabili dai vertici politico-istituzionali dello Stato.
Le ragioni che spinsero il numero uno e il numero due dei servizi militari a compiere un depistaggio tanto importante a rischio e pericolo della propria libertà personale, della carriera e della stessa reputazione - come del resto è avvenuto - sono molteplici e stratificate e meritevoli di essere comprese nelle loro effettive dinamiche.
Il primo scopo del depistaggio fu quello di coprire la responsabilità dei Nar, ossia degli esecutori materiali della strage e, più in generale, di quella galassia neofascista con cui è stato accertato in diversi processi quei servizi avevano relazioni di infiltrazione e un consueto atteggiamento impostato sul laissez-faire.
Basti pensare che Fioravanti, secondo quanto attestato dal magistrato Vito Zincani, durante il servizio militare, svolto nel 1978, aveva rubato due casse contenenti 144 bombe Srcm, utilizzate dai Nar per compiere attentati dinamitardi a Roma, tra cui uno alla sezione del Pci dell’Esquilino, nel giugno 1979, in cui si era sfiorata una vera e propria strage. Nonostante sia stato accertato che i servizi segreti fossero al corrente che gli autori del furto erano stati il sottotenente Fioravanti e Alessandro Alibrandi, figlio di un alto magistrato del tribunale di Roma, nulla si fece per rintracciare le bombe e identificare gli autori di quegli attentati prima che avvenissero. Peraltro il problema per i servizi militari era acuito dal fatto che su questa composita galassia neofascista la magistratura, sin dal 28 agosto 1980, aveva riservato le sue attenzioni imboccando la pista giusta. Coprire i Nar, dunque, significava anzitutto occultare questi legami imbarazzanti con quel mondo che si erano sviluppati nel corso degli anni Settanta.
Una seconda ragione, strettamente collegata alla precedente, riguardava la necessità di mandare un messaggio tranquillizzante al criminologo Aldo Semerari, detenuto in quei mesi con l’accusa di essere coinvolto nella strage di Bologna, il quale stava dando segnali di improvviso cedimento e collaborazione con gli inquirenti. L’illustre cattedratico, di simpatie filo-naziste, autore di compiacenti perizie mediche in favore degli esponenti della Banda della Magliana, era anche lui piduista e con strette relazioni sia con i servizi militari italiani sia con quelli libici essendo un grande ammiratore di Mu’ammar Gheddafi che aveva incontrato nella primavera 1980 a Tripoli. Nella clinica privata ove lavorava, Villa Mafalda, ospitava regolarmente e in modo anonimo esponenti del regime libico bisognosi di cure mediche. La sistemazione nella valigia contenente l’esplosivo di un mitra di marca Mab, da Semerari conosciuto e riconoscibile, serviva a fargli arrivare la notizia che, anche grazie all’impegno di soggetti a lui vicini politicamente, si stavano ponendo in essere atti di depistaggio per sviare le indagini degli inquirenti bolognesi e facilitarne l’uscita di prigione.
In terzo luogo, si scelse di inventare a tavolino una pista internazionale provando ad attribuire la strage alla galassia neofascista e neonazista franco-tedesca - il gruppo neonazista Wehrsportgruppe Hoffmann (Wsg) e la Fédération d’Action Nationaliste et Européenne (Fane) - con la speranza di riuscire a fare coincidere i mandanti e gli esecutori materiali dell’attentato così da cancellare il ruolo dei Nar. Del resto, secondo la testimonianza dell’alto funzionario del Sisde Elio Cioppa, anche lui iscritto alla P2, proprio questo fu il suggerimento che Gelli gli aveva dato nei primi mesi delle indagini su Bologna: «mi disse che avevamo sbagliato tutto e che gli autori dell’attentato dovevano essere ricercati in campo internazionale», come da lì in poi sarebbe avvenuto.
Coerentemente con questo assunto gli stessi ambienti del Sismi, si prodigarono con il medesimo scopo ad accreditare una sedicente pista libanese rivelatasi poi inconsistente. Successivamente si sarebbero impegnati con straordinaria energia ad attribuire le responsabilità della strage di Bologna ai palestinesi e/o al gruppo di Carlos, una chiave di lettura che non ha avuto esiti giudiziari apprezzabili, ma è comunque servita a rinfocolare lo scetticismo dell’opinione pubblica sugli esiti giudiziari conseguiti.
La tecnica depistante, già messa in pratica ai tempi della strategia della tensione, tra il 1969 e il 1974, era sempre uguale e ormai ben oliata: bisognava fabbricare le prove per false direzioni investigative, all’interno delle quali si mescolavano però elementi autentici o suggestivi in funzione di esche attrattive per raggiungere l’obiettivo minimo di costringere la magistratura inquirente a lunghe e defatiganti inchieste che, comunque, la distraessero dalla sua attività investigativa principale. Contestualmente, occorreva intossicare la stampa e l’opinione pubblica, sviluppando relazioni con giornalisti collaborativi per screditare alcune tesi e metterne in circolazione delle altre. I depistaggi, infatti, hanno una funzione di inquinamento spesso sottovalutata, ma preziosa per i loro autori e sempre pagante. In ogni caso una falsa pista, se ben accreditata, può portare un ufficio giudiziario a impegnare intelligenze, risorse e mezzi per svariati anni, fosse soltanto per riconoscerla e smontarla.
Un quarto livello, si direbbe il più importante, fu quello di provare a impedire che, al netto della manovalanza implicata, si identificasse un movente e dei mandanti della strage come se scoppi di violenza così inauditi, raffinati e ripetuti nel tempo non avessero un’intelligenza organizzata alle spalle. Su questo piano i depistaggi hanno stravinto perché per uno che è stato accertato e punito in modo esemplare, almeno una decina di altri hanno prodotto i loro effetti di sviamento e di rallentamento delle inchieste senza che fossero individuati e sanzionati i loro autori.
Se ancora quarant’anni dopo continuiamo a ripeterci la solita «canzone dalle domande consuete» e «siamo ancora qui a domandarci e far finta di niente come se il tempo passato e il tempo presente non avessero stessa amarezza di sale» come una qualsiasi canzone di Francesco Guccini, vuol dire che la tecnica depistatoria e disinformativa, di cui abbiamo provato a delineare l’anatomia, ha lavorato con sorprendente efficacia incrociando l’orizzonte d’attesa di una parte significativa dell’opinione pubblica nazionale.
Con l’obiettivo supremo di coprire i veri committenti della strage che, secondo una serie di testimonianze convergenti altamente qualificate e coeve ai fatti, come quella del più volte ministro democristiano Giuseppe Zamberletti, dell’allora ministro dell’Industria Antonio Bisaglia, del prefetto Bruno Rozera e degli stessi Pazienza e Santovito autori del depistaggio di copertura, andavano individuati nella Libia. Proprio per questo motivo i mandanti andavano nascosti al massimo livello in ragione degli ingenti interessi pretroliferi, industriali e commerciali che l’Italia aveva storicamente stretto con quel Paese, i quali erano entrati pericolosamente in crisi dopo l’eliminazione di Moro e la fine del governo Andreotti che di quel campo di relazioni erano stati gli artefici e i garanti.