Il ruolo della Libia e di Gheddafi nella strage di Bologna
Il paese africano era sempre più centrale nella politica italiana. Per le alleanze, il petrolio, la finanza e il commercio. filo di sangue che arriva ai neofascisti coinvolti nell’attentato
Sul piano internazionale il biennio 1979-1980 fu assai significativo per le relazioni tra l’Italia e la Libia perché il colonnello Mu’ammar Gheddafi consolidò il suo passaggio nella sfera d’influenza dell’Unione sovietica che, nel dicembre 1979, invase l’Afghanistan. In quei mesi l’orso russo sembrava avere dato la zampata decisiva per modificare gli equilibri della guerra fredda in quanto, una volta conquistato l’Afganisthan, avrebbe potuto minacciare direttamente la sicurezza dei pozzi petroliferi dell’Arabia Saudita che alimentavano l’economia capitalistica da Tokio a New York. Per parte loro gli Stati Uniti apparivano sulla difensiva: ancora scossi dall’umiliazione militare subita in Vietnam e, dal novembre 1979, impelagati nella crisi degli ostaggi dell’ambasciata di Teheran, dove un nuovo regime sciita ostile all’occidente aveva preso il posto dell’accomodante scià di Persia.
La decisione della Libia ebbe inevitabili ripercussioni anche sulla politica mediorientale dell’Italia. Il nostro Paese, infatti, per tutti gli anni Settanta, sotto la regia di Aldo Moro e di Giulio Andreotti, aveva rinsaldato i suoi rapporti con la Libia impegnandosi per una distensione delle relazioni di Gheddafi con Israele, che sarebbe però dovuta passare sotto le forche caudine di una soluzione ragionevole della questione palestinese.
L’onda lunga di questa strategia sarebbe culminata con la cosiddetta dichiarazione di Venezia del 13 giugno 1980, quando la Comunità europea cominciò a prendere atto della necessità di dare una soluzione politica al conflitto arabo-israeliano mediante una conferenza di pace tra Israele e l’Olp di Yasser Arafat quale legittimo rappresentante dei palestinesi. Una soluzione prospettata, che sarebbe fallita, che prevedeva il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione dei palestinesi e alla sicurezza dei confini degli israeliani, nel rispetto, però, delle risoluzioni dell’Onu.
In questo quadro, i vertici della nostra intelligence militare, in sinergia con una parte di quella statunitense, avevano a lungo vagheggiato di realizzare con la Libia di Gheddafi un processo politico analogo a quello compiuto con l’Egitto di Anwar Sadat e culminato nel 1978 con gli accordi di Camp David. Infatti, l’auspicata pacificazione che ne sarebbe derivata non avrebbe soltanto rafforzato la presenza atlantica nel Mediterraneo, ma anche incrementato gli interessi economici e il prestigio nazionale dell’Italia a ulteriore detrimento dei concorrenti francesi e inglesi nella stessa nevralgica area.
La volontà opposta e contraria di Gheddafi pose in seria crisi il posizionamento geopolitico dell’Italia che, nel settembre 1972, aveva stipulato un vantaggioso accordo con l’Eni per utilizzare il petrolio libico e nel 1976 aveva consentito che il governo di Tripoli investisse 415 milioni di dollari nella Fiat, la più importante fabbrica nazionale.
Questi dati economici avevano alimentato la celebre battuta attribuita ad Andreotti, ossia che l’Italia ormai si trovasse nell’imbarazzante situazione di avere una moglie statunitense e un’amante libica. Peraltro assai esigente come tutte le amanti che si rispettino. Basti pensare che nel 1979 le importazioni dell’Italia verso la Libia erano cresciute del 47,3 per cento rispetto all’anno precedente raggiungendo i 2.144 miliardi di lire, mentre le esportazioni erano aumentate del 44,4 per cento arrivando ai 1.600 miliardi annui. La Libia era il maggior fornitore di petrolio della penisola e l’Italia il primo partner commerciale della Libia.
Nel frattempo circa sedicimila italiani, che Gheddafi aveva messo alla porta nel 1969, erano rientrati alla chetichella dalla finestra e lavoravano nel deserto africano con centinaia di imprese nei settori industriali più svariati in una generosa commistione di commesse pubbliche e iniziative private: dall’edilizia alle infrastrutture (ponti, dighe, autostrade), all’aeronautica, al turismo, alle forniture militari con relativo personale d’addestramento.
Come è comprensibile che fosse, questa ricchezza di scambi all’incrocio tra politica ed economia aveva portato alla nascita in Italia di una sorta di «partito libico» trasversale, che andava cioè dall’estrema sinistra fino all’estrema destra passando per l’estremo centro in tutte le diverse sfumature. Ad esempio, nel mondo dei giornali, solo la passione per la Libia poteva accomunare un comunista eretico come Valentino Parlato e un gladiatore missino come Filippo De Marsanich; mentre, nella sfera dell’alta finanza, sempre la Libia univa il banchiere italosvizzero Pierfrancesco Pacini Battaglia, che aveva ingenti interessi nella compagnia aerea Ali e il vicedirettore di Italstrade Giancarlo Elia Valori, il quale, grazie ai buoni uffici del generale del Sismi Giuseppe Santovito era riuscito a introdursi nel mercato libico.
Ovviamente, dove vi erano affari legali così ingenti prosperavano anche quelli illegali che alimentavano un brulicare famelico di intermediari, faccendieri, maneggioni e avventurieri, tutti impegnati, mediante un vorticoso giro di “mazzette” (ai tempi del regno fascista di Rodolfo Graziani si chiamavano “morsicate”), a finanziare il sistema politico ed economico italiano, a partire dal dispendioso gioco correntizio della Democrazia cristiana e del Partito socialista.
I nostri servizi segreti militari, che avevano istituzionalmente la delega nei rapporti con l’estero, gestivano, come se fossero degli amministratori delegati dell’azienda Italia, questo campo di relazioni diplomatiche, politiche, commerciali, industriali, militari ed energetiche su cui cadde improvvisa la bufera del 1980. Prima lo fecero con il generale “moroteo” Vito Miceli e poi con quello “andreottiano” Santovito, entrambi collocati in un italico crocevia ove la funzione pubblica e istituzionale si confondeva con l’interesse e il vantaggio privato. Anzi, la somma delle virtù stava proprio nella capacità di fare coincidere i due ambiti in un impalpabile conflitto di interessi in cui il servitore dello Stato riusciva a servire anche se stesso e i suoi compagni di cordata.
Sia chiaro: tutto ciò avveniva sotto l’egida della sposa statunitense, nel quadro di una indiscutibile fedeltà atlantica (verrebbe voglia di dire «a prova di bomba» se non stessimo parlando del sangue d’Italia), che però doveva contemplare anche la tutela dei supremi interessi nazionali. Magari rispolverando un’antica rivalità nei confronti della Francia e dell’Inghilterra a cui quei vertici militari erano stati educati al tempo della loro formazione sotto il fascismo e che poi avevano sperimentato sulla propria pelle combattendo sul fronte nordafricano.
L’Italia, indebolita nella primavera 1978 dall’umiliazione subita con l’“operazione Moro”, si trovò nel 1980 all’improvviso sguarnita e priva di punti di riferimento consolidati, affacciata su un mare Mediterraneo divenuto sempre più agitato e limaccioso. A peggiorare il quadro contribuì anche l’uscita di scena di Andreotti che, tra il marzo 1979 e l’agosto 1983 restò fuori dal governo. Dall’agosto 1979, sotto la presidenza del Consiglio di Francesco Cossiga, che era ritornato repentinamente al potere dopo le sue dimissioni a causa dell’assassinio di Moro, l’Italia subì un graduale cambiamento della tradizionale politica filolibica. Il governo sembrò abbandonare la sua tradizionale linea di prudenza e di lungimiranza e si trovò fuori asse proprio nel momento in cui gli equilibri del mondo stavano cambiando nell’area mediorientale.
Certo, anche l’amante libica pensò che fosse giunto il momento di aumentare le proprie pretese, approfittando di uno stato di sudditanza che sembrava essersi impadronito di un’Italia infragilita e smarrita. Lo dimostra, ad esempio, l’irrituale reazione che i nostri servizi segreti militari ebbero davanti alla richiesta di Gheddafi di fornirgli la lista dei dissidenti libici che avevano trovato protezione nel nostro Paese.
Il 27 aprile 1980 Gheddafi lanciò un ultimatum all’Italia e ad altri Paesi europei nel corso di un discorso tenuto durante una visita all’Accademia militare di Tripoli. Il colonnello dichiarò che i dissidenti del suo regime ospiti nella penisola avevano tempo fino al 10 giugno 1980 per rientrare in Libia e sottomettersi al suo regime altrimenti sarebbero stati giustiziati. Allora non si sapeva che, già il 14 febbraio 1980, i nostri servizi militari, invece di continuare a proteggere i dissidenti libici, molti dei quali erano loro informatori segreti, avevano scelto di consegnare ventitré nominativi alla vendetta di Gheddafi.
Gli effetti furono drammatici: tra il 21 marzo 1980 e l’11 giugno 1980 cinque dissidenti furono uccisi sul territorio italiano da sicari del governo di Tripoli (Salem Mohamed El Ritemi, il 21 marzo 1980, Aref Abdul Giaidli, il 19 aprile 1980, Abdallah El Khazuni, il 10 maggio, Mohamed Fuad Boujar, il 20 maggio) e due si salvarono per miracolo (Mohamed Salem Fezzan, l’11 maggio e Mohamed Saad Barghali l’11 giugno). L’assassinio più clamoroso avvenne a Milano sempre l’11 giugno, ossia alla scadenza dell’ultimatum, con l’uccisione di Azzedine Lahderi, in diretto contatto con Santovito, che almeno dal febbraio 1975 aveva lavorato come informatore dei servizi militari italiani sotto il nome di «fonte Damiano».
Nel corso di questi omicidi seriali si registrarono ben sette arresti di killer colti in flagranza di reato che, ovviamente, indispettirono le autorità libiche. Il 21 maggio 1980, Ahmed Shahati, segretario dell’ufficio relazioni estere della Libia, minacciò il nostro governo spiegando che «se costoro non saranno riconsegnati al popolo libico verranno prese very strong measures contro Italia e contro i malfattori. Le autorità italiane dovranno sopportare le conseguenze delle loro scelte». Come per incanto, nonostante in Italia vigesse l’obbligatorietà dell’azione penale e si fosse davanti a omicidi, ben cinque dei sette arrestati libici lasciarono poco dopo il Paese alla chetichella, mentre il sesto non lo fece perché morì di infarto in carcere e il settimo fu liberato nel 1986 nell’ambito di uno scambio segreto di prigionieri.
Il 9 giugno 1980, il direttore del Sismi Santovito informò il presidente del Consiglio Cossiga e il ministro della Difesa Lelio Lagorio di quanto stava avvenendo in Italia ma, come abbiamo visto, ciò non fermò la mattanza dei dissidenti.
Oggi sappiamo che, sempre nello stesso mese di giugno, quando ormai nere nubi si addensavano sul cielo e sulla terra d’Italia, il ministro dell’Industria Antonio Bisaglia ricevette dal fratello sacerdote don Mario una clamorosa quanto drammatica notizia.
Nel corso di una confessione in una chiesa di Rovigo un neofascista padovano, Maurizio Tramonte, informatore dei servizi militari con il nomignolo di «fonte Tritone» gli aveva rivelato che, a fine luglio, a Bologna ci sarebbe stata una strage organizzata «da un gruppo di destra di Rovigo e che di loro facevano parte anche dei libici […]. Gli dissi che costoro costituivano un gruppo di fuoco a disposizione di Gheddafi in Italia», attivo tra il 1976 e il 1980. Insomma, azioni di killeraggio in cambio di soldi e forse armi. Tramonte riferì questo fatto alla magistratura di Bologna nel febbraio 2000, quando non poteva ancora immaginare che nel 2017 sarebbe stato condannato con sentenza definitiva all’ergastolo come autore della strage di piazza della Loggia del 28 agosto 1974, una sentenza che rende le sue parole, confermate anche da altra fonte, particolarmente attendibili.
Don Bisaglia, comprensibilmente scosso dalla notizia, si precipitò a Roma per evitare la possibile strage e informò il potente fratello, il quale, a sua volta, mise a parte della soffiata il generale Santovito, a cui quella notizia non dovette risuonare strana ben sapendo ciò che da febbraio in poi era avvenuto in Italia con i dissidenti libici.
In quei giorni non si erano ancora verificati il disastro aereo di Ustica del 27 giugno né la strage di Bologna del 2 agosto successivo, ma quel nesso tra gli squadroni della morte di Gheddafi e i militanti neofascisti veneti dovette iniziare a tormentare come un fantasma le afose notti di Santovito. L’Italia si trovava ormai a un passo dal baratro mentre l’amante libica non era mai stata così distante da noi, ma pericolosamente in casa nostra con i suoi sicari armati delle peggiori intenzioni.