Il lockdown ha portato a riscoprire una società incentrata sulla casa. E a rivalutare le potenzialità di zone trascurate. Perché un modello urbanistico equilibrato permette di abitare dove si vuole

Durante i mesi di picco della pandemia, si è discusso molto dei modelli di sviluppo insediativo e delle forme dell’abitare nel nostro paese. La disuguale diffusione del virus ha sollecitato riflessioni sulla concentrazione della popolazione e i modi più o meno accentrati di organizzare il sistema socio-sanitario, mentre le pratiche di distanziamento e la coatta diffusione di forme di telelavoro, hanno mostrato come in molti casi sia possibile ridurre il pendolarismo e la mobilità residenziale indotta dal lavoro.

Come pronosticava Toeffler negli anni ’80, si è materializzata la «società incentrata sulla casa», nella quale le nuove tecnologie e i flussi informazionali hanno rimesso al centro l’abitazione come luogo di accesso ai servizi, mettendo in crisi però lo spazio pubblico come luogo di partecipazione collettiva alla società. Una spinta alla dimensione privata, che ha avuto esiti diversi. In alcuni casi, le già esistenti disuguaglianze abitative hanno provocato l’emersione di altre forme di disuguaglianza, che prima del lockdown venivano contenute grazie ai diritti di cittadinanza esercitati negli spazi pubblici, come le scuole. In altri casi, le geografie della centralità e della perifericità si sono modificate e sono state plasmate non più dalla localizzazione dei servizi e delle infrastrutture per la mobilità, ma dalla velocità di ricezione e invio di dati.
forum disuguaglianze

Una geografia, quella del digital divide, molto più articolata e frammentata rispetto agli altri modi di guardare i divari territoriali. Tanto è vero che i quotidiani hanno raccontato storie di lavoratori e studenti emigrati nei grandi centri urbani del Nord, che sono ritornati ai loro luoghi di provenienza, dove hanno continuato a lavorare e studiare grazie all’utilizzo di dispositivi tecnologici. Anche grazie alle tante storie di ritorno ai luoghi di origine - il meridione, le aree interne, le città medie di provincia - ha ripreso vigore il dibattitto sulla coesione territoriale attorno a prospettive di deconcentrazione della popolazione, come modello insediativo e di sviluppo non più teso a rafforzare i grandi agglomerati urbani, ma capace di valorizzare il policentrismo territoriale del nostro paese.
Tecnologia e tradizione
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Questo dibattito ha messo in luce in particolare la questione delle aree interne, quei territori caratterizzati da spopolamento e bassa densità abitativa, che da tempo sono intrappolati in una dinamica di marginalizzazione. Di un ritorno alle aree interne c’erano già timidi segnali prima della pandemia: giovani famiglie, nuovi contadini, innovatori in cerca di spazi, stranieri inseriti nelle filiere agroalimentari, imprenditori dell’economia verde. Storie di nuovi abitanti e di ritornanti, che si sono scontrati con l’ostilità delle forze conservatrici, la scarsa apertura della democrazia locale, la difficoltà di accesso alla terra e servizi di cittadinanza insufficienti. Questioni da mettere con più forza, tutte insieme, al centro della Strategia Nazionale per le Aree Interne, politica di sviluppo che deve saper raccogliere e accompagnare, ancora più di prima, la nuova domanda di territori rarefatti. Ma questa politica da sola non basta.

C’è bisogno che nella discussione sull’utilizzo del Recovery and Resilience Fund si faccia largo una postura territoriale, che guardi ai tanti luoghi da riabitare e all’insieme integrato di condizioni essenziali e di mezzi necessari perché il policentrismo si faccia largo come nuovo modello di coesione sociale e territoriale, capace di rimettere al centro delle politiche i tanti luoghi marginalizzati del nostro paese. È attorno a questa idea che il Forum Disuguaglianze e Diversità, insieme al Politecnico di Milano e molte amministrazioni comunali, ha costruito una serie di proposte per “liberare il potenziale di tutti i territori”, per dare alle persone la possibilità di scegliere davvero dove vivere. Sono tante le Italie da riabitare, dalle quali guardare il nostro paese per invertire il racconto dominante che ha messo i grandi agglomerati al centro e marginalizzato tutto il resto.

Il "Manifesto per Riabitare l’Italia", edito da Donzelli, ci fornisce una mappatura e un lessico nuovo. Dalle terre alte e i fondivalle deindustrializzati alle campagne inquinate dell’agricoltura intensiva, dai distretti industriali che hanno perso il loro radicamento territoriale sino alle sofferenti periferie metropolitane, per riabitare l’Italia c’è bisogno di cura, di diritti, di comunità, di persone, di politiche orientate ai luoghi, di confini aperti e inclusivi, di immaginazione, di conflitto. E allora sarà possibile, come scriveva Aldo Capitini, che già negli anni 60 osservava le dinamiche di contrazione ai margini «avvivare tutto e tutti, riprendere da lì il moto, da tanti punti diventati centri per la compresenza e l’omnicrazia». Riabitare i territori marginalizzati, per riabitare l’Italia intera.