3 ottobre 2013: la strage

Lasciati morire in mezzo al mare: per la strage pagano solo marinai e scafisti

di Fabrizio Gatti   1 ottobre 2021

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Otto anni fa il naufragio di Lampedusa in cui morirono 368 migranti. Il processo di primo grado ha condannato l’equipaggio di un peschereccio e due dei responsabili della tratta. Restano i punti oscuri sui mancati soccorsi. Parla un testimone che aiutò i superstiti

La fotografia di quella notte sotto le stelle di Lampedusa è sempre lì nella mente che lampeggia. Sono le ultime due ore di spensieratezza per i testimoni del naufragio del 3 ottobre 2013, Vito Fiorino e i suoi amici. E sono gli ultimi centoventi minuti di speranza per 523 profughi, quasi tutti eritrei, che verranno presto separati dall’acqua: 368 sommersi e 155 salvati, secondo gli atti dell’inchiesta. Da quella tiepida notte d’autunno, l’Europa contemporanea ha definitivamente perso la sua innocenza. La strage di uomini, donne e quattro bambini è infatti così vicina alla costa che da quel giovedì nessuno può più dire di non aver visto o sentito. 

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"Io, scafista della morte"
16/10/2013

Dopo otto anni, questo è il primo anniversario che, oltre alle vittime, può elencare i presunti colpevoli. Il 9 dicembre 2020 il Tribunale di Agrigento ha condannato in primo grado il comandante, Matteo Gancitano, 63 anni, e i sei marinai dell’Aristeus, un peschereccio partito dal porto siciliano di Mazara del Vallo. Secondo il giudice monocratico Alessandro Quattrocchi, i sette hanno violato l’articolo 1158 del Codice della navigazione: omissione di assistenza a navi o persone in pericolo. Sei anni di reclusione, la pena per il capitano. Quattro anni, per i membri dell’equipaggio. 

I tracciati del loro Ais, il sistema di identificazione automatica a bordo del peschereccio, dimostrano che per cinquantasette minuti si sono fermati e hanno girato intorno all’imbarcazione stracarica di profughi che, con il motore fermo, prima di affondare gridavano e chiedevano loro aiuto. Cinquantasette minuti di attesa, per poi andare a scaricare il pesce fresco nel porto di Lampedusa, non sono un po’ troppi per un’omissione di soccorso? Stavano forse aspettando le motovedette, che però non sono intervenute? E come mai la consueta chiamata via radio dell’Aristeus alla capitaneria, prima di entrare nel porto di Lampedusa, proprio quella notte non risulta agli atti? 

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I sopravvissuti, già negli interrogatori e durante l’incontro con l’allora premier Enrico Letta e il presidente della Commissione europea, José Barroso, raccontano di essere stati illuminati dai fari di due imbarcazioni, che poi si sono allontanate senza prestare soccorso. Se una è il peschereccio di Mazara, di chi era l’altra unità senza tracciamento Ais, come accade con le navi militari, tanto da non essere mai stata identificata? Durante il processo, i sette imputati hanno scelto di non fare dichiarazioni, peggiorando la loro posizione. Vedremo se anche in appello accetteranno anni di carcere per mantenere il silenzio concordato con l’armatore, Marco Marrone, intercettato più volte al telefono mentre discute su come comportarsi durante le udienze.

L’ottavo condannato di questa tragedia, in un procedimento concluso con sentenza definitiva nel 2017, è lo scafista: Khaled Bensalem, 42 anni, tunisino di Sfax, deve scontare 18 anni per favoreggiamento dell’immigrazione illegale, naufragio e omicidio plurimo e pagare, chissà come, una multa di dieci milioni. Il nono è uno schiavista somalo, sbarcato a Lampedusa qualche giorno dopo la strage e riconosciuto dai sopravvissuti: sempre nel 2017 la Corte di Cassazione ha così confermato la condanna a 30 anni di Mouhamud Elmi Muhidin per traffico di persone e violenza sessuale ai danni di venti ragazze eritree. 

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"Io, scafista della morte"
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La storia sembra definita, anche dal punto di vista giudiziario. Ma non è così. La ricostruzione ufficiale dei fatti lascia in sospeso testimonianze che raccontano di ritardi nei soccorsi e presenze mai chiarite. La voce di Vito Fiorino, 72 anni, lombardo di Sesto San Giovanni, si increspa al pensiero di quel buio stellato, due ore prima del disastro, quando il Mediterraneo era per tutti il mare nostrum e non ancora un mare mortis. Eccolo, una mattina di fine settembre, mentre va a imbarcarsi all’aeroporto di Milano Linate per tornare a Lampedusa. Da allora, ogni 3 ottobre, vuole essere lì dove hanno salvato dall’acqua, raccogliendole con le loro mani, quarantasette persone: «Quarantasei uomini e una donna», dice per precisione.

«Noi siamo usciti con la Gamar, la mia barca, attorno a mezzanotte, insieme a me c’erano altri sette amici. Abbiamo fatto il nostro bagno, siamo stati tranquilli in compagnia. Ricordo che prima di andare a dormire, intorno alle due e mezzo di notte e io ero seduto a poppa della mia barca con Alessandro Marino, a un certo punto ho visto in mezzo al mare una luce blu, una luce sulle motovedette o su una nave militare. E allora ho detto ad Alessandro: guarda, sicuramente stanno portando in porto qualche imbarcazione di migranti. E però questa barca è rimasta ferma per parecchio tempo. Solo quella luce vedevamo, erano a una distanza di un chilometro al massimo. Però quella luce era ben definita», racconta Vito Fiorino.

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Sono le stesse parole che Fiorino ripete davanti al Tribunale di Agrigento, nel processo al comandante e ai sei marinai dell’Aristeus, due italiani, tre tunisini e un senegalese. Quella luce che lampeggia in lontananza viene confermata davanti al giudice anche dagli altri amici a bordo della Gamar, Alessandro Marino e Linda Barocci. 

«La mattina alle sei, dopo aver dormito un po’ di ore, ho sentito che la nostra imbarcazione si metteva in moto. Ma neanche dopo dieci secondi di navigazione il motore si è spento, al che sono andato in cabina di pilotaggio e ho chiesto ad Alessandro cosa fosse successo. Lui mi ha guardato e mi ha detto: stai zitto, ma ‘u senti vuciari? Io non sentivo queste grida. Lui insisteva, gli ho detto: metti in moto e andiamo al largo. Io mi sono messo a prua della barca. A un certo punto davanti a me si è presentato un anfiteatro di teste che urlavano, che gridavano, che volevano aiuto, ho capito che il suo sentir vuciare era verità. Ho chiesto di fermare la barca. Albeggiava, il sole non c’era assolutamente. Erano almeno duecento persone in mare. Immediatamente, ho detto ad Alessandro di avvisare la capitaneria di porto con la radio di bordo. Lui l’ha fatto, ha segnalato che cosa stava accadendo»,  dice Fiorino al giudice.

Ancora oggi il proprietario della Gamar ripete parole che dipingono una Guernica di Picasso sui colori dell’alba: «Ho portato a bordo la prima persona. Era disperata, aveva gli occhi che sembravano palle di fuoco. Poi è arrivato il secondo naufrago, alcuni di loro avevano solo la maglietta, altri solo le mutandine, ma molti erano veramente proprio tutti nudi. Scivolavano dalle mani, avevano il corpo che era tutto sporco di gasolio. Ho saputo l’anno scorso, perché sono andato a trovarli a Stoccolma, e mi hanno detto che quando è successa la tragedia, il primo segnale che si sono dati è stato “spogliatevi”, perché l’acqua appesantiva gli abiti. Ma era anche per una questione di sopravvivenza: non permettere a chi non sapeva nuotare, di attaccarsi alla maglietta e salvare almeno la propria vita. Ci hanno detto che erano circa tre ore che erano in mare».

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I soccorsi, chiamati via radio sul canale 16 delle emergenze, però non arrivano. La prima chiamata, verso le 6,30. Vi hanno risposto? «Le prime due-tre volte sì. Ci dicevano: state lì, arriviamo. Ma dopo non ci hanno più risposto. Loro sono usciti precisamente alle 7,25», conferma da otto anni Vito Fiorino, visto che l’ultima volta che guarda l’ora su un telefonino sono le 7,20 e ancora non appare nessuno. 

«Sono stato chiamato dopo quindici giorni in capitaneria di porto», aggiunge Fiorino nella sua deposizione giurata al processo: «Quando sono entrato nella stanza del comandante, mi dava del tu. Mi ha detto: “Ti voglio comunicare che ho già parlato con le alte sfere della capitaneria e della presidenza della Repubblica perché vi verrà assegnata una medaglia d’oro... Guarda Vito, io sono andato a controllare i tabulati e la prima chiamata che hai fatto è alle 7 e un minuto”. Se così fosse, perché non me l’ha portato subito il tabulato? Mi avrebbe convinto e avrei detto: ho sbagliato. Gli ho detto: mi dispiace, ma io non posso accettare di firmare un documento su un orario che sono convinto non sia quello. Allora un militare che è entrato dopo di me mi ha detto: “Guardi signor Fiorino che lei verrà denunciato”. Me ne sono andato. Il comandante mi è venuto dietro subito: “Fiorino fermati, vieni a firmarmi questo documento. Devi capire che io ho una famiglia e ho una bambina piccolina”. Gli ho risposto: sai quante famiglie, mio caro, sono morte e quanti bambini da quella notte non ci sono più, io non ti firmo assolutamente niente, io non vengo a raccontarti o a firmarti cose che ti fanno comodo. Mi ha poi telefonato sul cellulare: “Ci vediamo in ufficio e mi firmi questo documento”. Gli dico: perché devo dichiarare il falso? E così si è chiusa la questione». È tutto scritto nel verbale d’udienza del 3 giugno 2019.

Un altro retroscena, mai indagato, lo riferisce sempre Vito Fiorino che, con onestà e precisione, non ha mai censurato i suoi ricordi: «La prima sera dopo la tragedia sono stato avvicinato da un maresciallo della capitaneria di porto, che mi ha detto: “Guarda Vito, sono dispiaciuto per quello che è successo. Vado sempre sul posto di lavoro almeno un’ora prima e quando sono arrivato c’era questo ragazzo nell’ufficio dei telefoni che era disperato, perché non sapeva più come comportarsi e cosa fare e io non ho potuto fare tanto di più, perché gli equipaggi avevano finito alle quattro e mezzo di mattina e si rifiutavano di fare questa missione che andava fatta». 

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Gli equipaggi lavorano su turni di ventiquattro ore durante i quali, se necessario, non è previsto riposo. Il nome del maresciallo è agli atti fin dal 2014. Così come quello del comandante della capitaneria di porto di Lampedusa che, per conto della Procura di Agrigento, ha tra l’altro indagato e testimoniato contro l’equipaggio dell’Aristeus. 

Le luci in lontananza viste dal gruppo di amici a bordo della Gamar coincidono poi con l’orario di rientro di un pattugliatore classe Zara della Guardia di finanza, che come tutti i mezzi militari non è tracciato dal sistema Ais. Alle due e mezzo di quella notte, i finanzieri portano a Lampedusa 276 profughi tra cui 90 bambini, in un’operazione coordinata dall’agenzia europea Frontex: hanno forse visto i 521 profughi alla deriva e deciso di rinviare il loro recupero alla mattina dopo? Scrive però il giudice Alessandro Quattrocchi nella sentenza: «Del tutto indimostrato è l’assunto secondo cui abbiano avuto un ruolo, o meglio, una responsabilità gli uomini in forze presso la locale capitaneria di porto della guardia costiera». In altre parole, salvo colpi di scena, le uniche prove finora raccolte condannano il comandante del peschereccio e i sei marinai che hanno scelto il silenzio.