Con chiunque parlasse per un po’ di tempo, prima o poi tirava fuori l’Afghanistan. L’argomento poteva essere la cardiochirurgia o i progetti contro il Covid-19: non importa, a un certo punto l’Afghanistan entrava nel discorso con naturalezza.
Anche in casa, le fotografie della Kabul degli anni ’70, qualche monile dei Kuci, i tappeti mantenevano vivo il legame indissolubile con un luogo del cuore.
Ci aveva vissuto 7 anni in tutto, ma non era una questione di biografia: quel Paese e la sua gente gli avevano lasciato un segno profondo. Forse perché erano stati l’inizio di tutto.
La prima volta che Gino ha avuto a che fare con l’Afghanistan è stato nel 1989.
Aveva deciso di provare a fare il suo lavoro di chirurgo in un Paese a basse risorse. Presentò il curriculum alla cooperazione italiana e ricevette la chiamata dopo pochi giorni.
Doveva esserci stata una rinuncia improvvisa, ed era il suo il curriculum in cima alla pila. Venne mandato a Quetta, in Pakistan, dove arrivavano i profughi e i feriti afgani ai tempi dei combattimenti tra le forze ufficiali filosovietiche e i mujaheddin.
L’impatto con quell’ospedale della Croce rossa internazionale fu spiazzante. Per un chirurgo eccellente, specializzato alla Scuola di chirurgia di urgenza del professor Vittorio Staudacher, con diversi anni di lavoro nelle Università di Stanford e Pittsburgh nei trapianti cuore-polmone, lavorare in un ospedale per feriti di guerra era un cambiamento radicale.
Raccontava sempre che all’inizio non aveva il tempo di pensare. I feriti erano tantissimi, passava ore in sala operatoria, a volte giorni: tagliava, cuciva, tagliava, cuciva. Serviva quello.
Affrontava l’emergenza e intanto aveva un grandissimo interesse per il suo lavoro, gli piaceva imparare e lì vedeva ferite che non aveva mai curato prima. Enormi, sconvolgenti.
Scoprì lì, a Quetta, gli effetti delle mine antiuomo, vedendo un bambino con le mani bruciate dall’esplosione: «Erano diventate dei piccoli cavolfiori». A distanza di anni e di altri migliaia di feriti, quell’immagine lo turbava ancora.
Dopo il primo periodo a testa bassa sul tavolo operatorio, iniziò a leggere i registri e vide che le vittime erano contadini feriti mentre badavano ai campi, commercianti dilaniati al bazar, donne e bambini colpiti mentre tornavano a casa. In 9 casi su 10, erano civili.
Che cosa c’entravano i civili con la guerra? Gino non ha mai smesso di chiederselo per tutta la vita, neanche quando si dedicò anima e corpo ad altri progetti.
L’incontro con quei feriti segnò l’inizio della sua vita di chirurgo di guerra: Pakistan, Etiopia, Tailandia, Perù, Gibuti, Somalia, Bosnia. Poi nel 1994 fondò Emergency e fu il tempo del Ruanda, dell’Iraq, della Cambogia.
Nel 1999, durante la guerra civile tra talebani e Alleanza del Nord, Gino tornò in Afghanistan, nella valle del Panshir. Aveva una forte sintonia con il comandante Massoud, che guidava i mujaheddin dell’Alleanza. Uno stratega militare, ma anche un idealista, uomo colto e pragmatico.
Durante una delle loro partite a scacchi, Massoud gli disse: «Se vuoi aiutare le donne afgane, non mi parlare di burqa, ma porta istruzione e lavoro. Il resto verrà da sè». E così è stato. I risultati straordinari del Centro di maternità in Panshir in termini di donne curate e che ci lavorano danno ragione a quella scommessa, che all’inizio era sembrata una follia, «la solita follia di Gino». Per Gino quei dati erano la conferma che la democrazia non si porta con gli F16, ma riconoscendo diritti e dando una possibilità di scelta alle persone. «Dai alla gente “qualcosa da perdere” e vedrai quanti metteranno da parte il kalashnikov».
Massoud mise a disposizione una vecchia caserma e lì sorse il primo ospedale di Emergency in Afghanistan. Gino teneva profondamente a quell’ospedale e a quelle montagne – ai piedi dell’Hindukush – e costruì intorno all’ospedale una rete di Posti di primo soccorso per dare le prime cure a chi abitava troppo lontano.
Cambiò la vita della gente della valle: l’ospedale offriva cure gratuite dove non c’era niente, e lavoro, e formazione; i Posti di primo soccorso aiutavano persone che altrimenti sarebbero state abbandonate a se stesse.
Ho capito quanto era profondo l’amore di Gino per l’Afghanistan - e il Panshir in particolare – ancora prima di metterci piede. Bastava guardare la mappa dei Posti di primo soccorso: Shutul, Oraty, Anjuman... Villaggi sconosciuti sulle montagne più isolate, abituati a fare la conta dei morti alla fine dell’inverno, e che invece con Emergency sapevano dove chiedere un antibiotico o ricevere una medicazione.
Non erano luoghi da telecamere o crocevia di organizzazioni internazionali: solo una persona innamorata di quella gente straordinaria e di quel Paese poteva averli scovati.
Nella primavera del 2001, è stata la volta di aprire un secondo ospedale a Kabul e nel 2004 un terzo a Lashkar-gah, nel profondo sud.
Un ospedale in ogni parte del fronte: era la sua filosofia, già da prima in Iraq, perché le cure fossero accessibili a tutti i feriti. Emergency non doveva – non poteva - essere accusata di privilegiare la popolazione di una parte sola.
Questo è il principio che ha finora salvaguardato Emergency: curare bene tutti, senza distinzioni, nell’assoluta imparzialità.
Dopo gli attentati dell’11 settembre, con Emergency e tanti altri, ci demmo da fare in ogni modo per evitare l’entrata in guerra dell’Italia, ma intanto Gino aveva deciso di partire alla volta dell’Afghanistan. Tutti i voli per Kabul erano stati cancellati per motivi di sicurezza, e allora intraprese un viaggio rocambolesco: Milano – Zurigo – Dubai – Karachi - Islamabad via aereo e poi da Chitral a dorso di cavallo per attraversare i passi montani più impervi, a 4.000 metri. Per uno che aveva già avuto un infarto qualche anno prima, in Iraq, l’altitudine e lo sforzo avrebbero potuto essere proibitivi, ma non aveva, Gino, nessuna simpatia per la parola «impossibile». Bisognava arrivare a Kabul e ci arrivò, ed Emergency fu l’unica ong occidentale a testimoniare la presa di Kabul.
L’ultima volta che Gino è stato in Afghanistan era il 2018. Ci eravamo tornati insieme. Aveva ritrovato tanti vecchi amici e collaboratori, ma un Paese profondamente cambiato: nuove costruzioni in tutta Kabul e anche nella valle del Panshir le case di fango avevano lasciato spazio a ville con i vetri a specchio. Erano i soldi dell’oppio e della corruzione.
Erano cambiate tante altre cose, ad esempio gli imponenti T-wall a separare la città degli internazionali da tutto il resto, gli attentati quasi quotidiani, che non aveva mai visto prima. Solo una cosa era rimasta la stessa: erano le vittime, i feriti, gente che con la guerra non c’entrava niente.
Qualche mese prima dell’annuncio del ritiro delle truppe, Gino aveva previsto quello che poi è successo. Si continuava a stupire di quanto poco strateghi e militari internazionali conoscessero la storia del Paese: già nel 1996, i talebani avevano preso la capitale in un lampo.
Gino aveva previsto tutto questo – la fuga delle truppe internazionali, il ritorno dei talebani più forti di prima, in casa e a livello internazionale, - ma non aveva nessuna soddisfazione a ricordarlo.
Il suo pensiero costante erano le vittime – anche indirette - di questa guerra lunga 20 anni: chi non aveva da mangiare, chi non aveva la possibilità di farsi curare, i profughi.
Oggi sono 5 milioni tra sfollati interni e richiedenti asilo e, a guardare i disperati tentativi di fuga da Kabul degli ultimi giorni, ce ne saranno presto altre decine di migliaia.
Il bilancio di questa guerra è ormai definitivo e sotto gli occhi di tutti, eppure Gino non aveva fiducia che l’Occidente avesse imparato la lezione.
«Dalle loro basi militari, non hanno mai visto la realtà della gente e non conoscono la storia, la cultura di questo Paese che è stato sempre il cimitero degli imperi», diceva. Sicuramente, dalle loro basi militari, hanno sempre ignorato la sofferenza di un corpo straziato dalle bombe e di chi lo deve operare.
Gino era un chirurgo, di professione e per attitudine verso la vita. E da chirurgo, vedeva le cose in modo molto lineare. C’erano gli oleodotti, la geopolitica, le alleanze internazionali, certo, ma poi la guerra era una cosa molto più semplice: la differenza tra un corpo integro e uno ferito, tra la dignità dell’uguaglianza e la sopraffazione.
E per questo, per Gino, la guerra non era mai la soluzione, ma era sempre – sempre - il problema.
C’è ancora tanto da fare, Gino, e andremo avanti come tu ci hai insegnato.
Continueremo a essere estremamente realisti e, allo stesso tempo, a coltivare l’utopia: continueremo a curare le vittime e a darci da fare per abolire la guerra.