Pier Paolo Pasolini, un caso mai chiuso. Il depistaggio nella ricostruzione del legale che ha riaperto l’indagine

A 47 anni dall’omicidio, il libro di Stefano Maccioni elenca tutti gli elementi irrisolti che convergono a delineare il quadro di una deliberata manomissione della verità sull’omicidio dell’intellettuale, pilastro del pensiero del Novecento

Una morte che incarna la traiettoria che avrebbero preso i nostri giorni. Perché la costruzione di misteri è arte in cui l’Italia eccelle nel mondo e genera emuli. E la storia recente ne è piena. Ha molto a che vedere con la genesi della Repubblica sulle ceneri del fascismo e dei suoi apparati: perché è quello il vizio di origine che grava come un fardello sul presente.

 

La fine di Pier Paolo Pasolini, il 2 novembre 1975, 47 anni fa, all’Idroscalo di Ostia, è il cold case italiano più dibattuto. Tanto longevo quanto controverso, rappresenta l’archetipo dal quale tutti gli apprendisti ingegneri dell’arcano attingono la propria scienza.

 

Gli atti mancati, le prove distratte, sparite, manipolate. Le domande eluse, le risposte inconcludenti, apparentemente frutto di incomprensibile casualità, tutti elementi che, messi in fila e analizzati, appaiono, al contrario, come tessere necessarie alla manomissione deliberata della verità. E costituiscono un campionario perennemente replicato ogni qual volta, in una ridda di congetture, la nebbia diventa la miscela necessaria a mischiare il falso con l’autentico, il buio con la luce. Perché tutto rimanga nell’indistinto del mistero, appunto.

 

Per Pasolini, plasticamente, l’eterna tentazione di concentrare il punto di vista dell’indagine sul morto e non sull’assassino è la premessa da cui sembra discendere tutto. È operazione funzionale, serve tutte le volte in cui il contesto di un delitto, l’esatto giorno in cui viene compiuto, il valore preventivo dell’omicidio devono essere sviliti al rango di particolari inessenziali. Con una torsione all’indietro, si volge lo sguardo verso ciò che la vittima aveva fatto, trascurando quel che stava per fare. La confessione servita, quando c’è, e in questo caso, tra mille contraddizioni, c’è, è, per converso, il suggello perfetto a blindare montagne di scartoffie nella cassaforte delle presunte prove incontrovertibili. E consegnare tutto il resto all’oblio dell’indimostrato.

 

Nell’anniversario della morte, che arriva in fondo all’anno del centenario della nascita (5 marzo 1922), la curva dell’attenzione sulla fine di Pasolini ha conosciuto nuovo vigore. Libri, inchieste, documentari, performance hanno scandagliato e scandagliano ciò che per comodità chiamiamo mistero e potremmo tranquillamente definire, anche in questo caso, depistaggio. Tante sono le analogie con mille altri episodi che punteggiano gli anni del nostro passato (?) prossimo.

 

Alla versione, l’unica consacrata in sentenza, del delitto d’impeto del ragazzo di vita Pino Pelosi, ribellatosi a un tentativo ulteriore di approccio non sono più molti a credere. Non ci credeva più di tanto neanche Pelosi che pure fece di tutto, sostenuto dall’avvocato Rocco Mangia, per accollarsi l’omicidio in un’altalena di ricostruzioni nelle quali comparivano e sparivano i comprimari. Non ci credeva, e questa è faccenda non secondaria, il tribunale dei minorenni, presieduto da Alfredo Carlo Moro, fratello di Aldo, che condannò l’imputato ma lasciò apertissima la porta del concorso di ignoti che frettolosamente la procura generale si premurò di chiudere.

 

Da lì è ripartito Stefano Maccioni, avvocato - parte civile nei processi per la morte di Stefano Cucchi, per la strage di Viareggio, in “Mafia capitale”, per il “Sangue infetto” e per l’omicidio del vice brigadiere Mario Cerciello Rega – che, innamorato di casi impossibili, ancora una volta con la leva del diritto e l’esercizio del dubbio ha avuto il merito di far riaprire nel 2010 l’ennesima indagine sulla fine dello scrittore risoltasi però cinque anni dopo nel nulla.

 

Maccioni però di passi avanti ne ha impressi. Concentrandosi, insieme con la criminologa Simona Ruffini e con il contributo del giornalista Rai Valter Rizzo, su quella che anni di telefilm e fiction ci hanno insegnato a definire la scena del crimine. Lo ha fatto negli atti giudiziari che hanno accompagnato il proprio impegno e in un libro “Pasolini. Un caso mai chiuso” (260 pagine, Round Robin 2022, 14 euro), agile e compatto, in cui sono i fatti incongrui a rivelare la propria fragilità e ad aprire la scena all’ingresso di esami scientifici ed evidenze di laboratorio che gli si sovrappongono, escludendoli per confutarli. Consacrando nuove certezze senza alimentare la roulette del mistero. Perché semplicemente, «i reperti prelevati dalla scena del crimine», fino al 2010 «non erano mai stati sottoposti ad alcuna analisi di laboratorio».

Guerra e politica energetica
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24/10/2022

Maccioni, in modo trasparente, sposa la tesi del movente legato alla stesura del romanzo postumo “Petrolio” incentrato sugli affari dell’Eni e sulla mano interna per la morte, il 27 ottobre 1962, del patron della ribellione energetica nazionale al monopolio delle Sette sorelle, Enrico Mattei. Un omicidio, quello, lasciato passare per un incidente aereo fino a quando il pm di Pavia Vincenzo Calia non ha riaperto il fascicolo e smascherato il sabotaggio del velivolo.

 

In definitiva, per l’avvocato Maccioni, così come per lo stesso giudice Calia, (“Il caso Mattei”, Chiarelettere 2017, scritto con Sabrina Pisu) sono le consapevolezze conquistate da Pasolini sul conto del vice e successore di Mattei, Eugenio Cefis, nel romanzo Aldo Troja, e in «un’informativa del Sismi indicato come il vero fondatore della P2», il cuore della ragione della sua uccisione. E Maccioni lo scrive in premessa: «Secondo me Pelosi non era solo quella notte, Pasolini era sotto ricatto da giorni, e un altissimo papavero italiano stava per essere travolto da Petrolio, il suo romanzo inchiesta il cui argomento aveva già due omicidi sulle spalle. Questo penso, e a questo credo».

 

Maccioni, quanto al movente, si inserisce nel solco di altri lavori sul punto come quello di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza (“Profondo Nero”, Chiarelettere, 2010 o “L' Italia nel petrolio. Mattei, Cefis, Pasolini e il sogno infranto dell'indipendenza energetica” di Giuseppe Oddo e Riccardo Antoniani, Feltrinelli, 2022.

 

Ma è sull’analisi del fatto che il lavoro dell’avvocato spicca per sforza di sintesi nell’analizzare i mille dettagli trascurati che compongono la ricostruzione sbilenca. Così traballante da apparire rabberciata ad arte nella fretta di concludere come nel più classico dei copioni che in fondo la vittima se l’era cercata.

 

Perché anche a voler credere, invece, che il movente ultimo della morte di Pasolini, sia prossimo ma diverso, come sostenuto in altre appassionate pubblicazioni, per esempio, i lavori di Simona Zecchi, (“Massacro di un poeta”, 2015 e “L’inchiesta spezzata di Pier Paolo Pasolini, 2020, entrambi per Ponte alle Grazie), sulle trame neofasciste dello stragismo degli esordi nei Settanta, che alimentava il lavoro giornalistico di Pasolini, il punto di vista deve comunque spostarsi a quel che il sangue dell’Idroscalo ha impedito e non a quello che uno dei pilastri del Novecento, aveva già fatto. Frequentazioni dei marchettari della stazione Termini incluse, ovvero il movente omofobo che Maccioni giustamente liquida come funzionale al nascondimento della verità: «Ovvio, comodo, lineare e inevitabile. Anche troppo», scrive.

 

«Una storia un poco scontata, una storia sbagliata. Storia diversa per gente normale, storia comune per gente speciale», avrebbero sintetizzato Fabrizio De André e Massimo Bubola (1980), prima di quel «Tutto passa, il resto va», di Francesco Di Gregori (A Pà, 1985) e dopo quel «Non può non può, può più parlare», che Giovanna Marini urlò nel 1979 (Lamento per la morte di Pasolini).

 

Il cuore del lavoro di Maccioni è proprio il luogo del delitto. Gli oggetti recuperati e trascurati, la genesi delle testimonianze che convergono a rafforzare la responsabilità di Pelosi ma descrivono tratti e colori di persone che non gli corrispondono. Che dicono di aver riconosciuto l’assassino sulla base di una foto mostratagli dagli investigatori che incredibilmente era già nelle loro mani a poche ore dal fermo di Pelosi e della quale però non c’è traccia negli incartamenti.

 

E poi ci sono i particolari, come l’ostinata ricerca di un anello, dono di Johnny lo zingaro, alias Giuseppe Mastini, di cui l’assassino rivendica la proprietà che innesca una forsennata ricerca fino al ritrovamento nei pressi del corpo della vittima. Il sigillo necessario a chiudere il caso. Fino alla sorprendente presenza di Maurizio Abbatino, boss della Magliana, tra i curiosi fotografati nella calca dell’Idroscalo l’indomani dell’omicidio.

 

Puntigliosamente elencati, sviscerati, messi a confronto con le risultanze di esami indipendenti e perizie del Ris che hanno supportato l’ennesima istruttoria archiviata - in tutto sono quattro –  gli elementi raccolti fanno dire a Maccioni che con Pelosi ci fossero almeno altre cinque persone, per tre delle quali si ha il profilo genetico, e sul conto delle quali non si era mai indagato a fondo, né si indagherà. Nel 2015 l’indagine si è arresa all’esito negativo di trenta confronti del dna con altrettanti potenziali assassini. Vicino ai quali però si arriva per fisionomia, incroci e coincidenze. Come la circostanza di un’auto identica a quella di Pasolini e con tracce di sangue, portata a riparare in tutta fretta all’indomani del delitto.

 

Il contesto è quello dei giovani della malavita romana legata all’eversione di destra e di origine siciliana. Molto più di una suggestione che sembra tracciare una retta che riconnette Pasolini al molto del grumo di potere che ha ipotecato il Paese. E che ancora una volta riconduce a Mattei e a un altro mistero italiano, la fine del giornalista Mauro De Mauro (16 settembre 1970), impegnato nelle ricerche per la sceneggiatura del film di Francesco Rosi sul presidente Eni. E anche per De Mauro, il movente ipotizzato non è l’unico. L’altro, anche questo prossimo ma non coincidente, porta invece alle rivelazioni impedite sul golpe neofascista (notte tra il 7 e l'8 dicembre 1970), progettato dal principe nero Junio Valerio Borghese. E da lì si riallaccia a una teoria di altri delitti eccellenti siciliani, da quello del procuratore Pietro Scaglione a quello del giudice Cesare Terranova fino all’omicidio del commissario Boris Giuliano.

 

Abbastanza per concludere con l’autore che davvero il caso non è affatto chiuso. Perché Pasolini ci parla ancora. E quel corpo martoriato all’Idroscalo allunga ombre su quel che eravamo e su quel che ancora oggi siamo.

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