«Non chiediamo alle persone di prendere un aereo e andare a protestare alla Cop27 quando il lavoro da fare è in Italia, sul territorio. Perché il punto non è solo l’ambientalismo ma contrastare la corruzione politica e morale del sistema», spiega Michele Giuli, tra i cinque fondatori di Ultima Generazione, l’organizzazione che negli ultimi mesi ha catturato l’attenzione con i blocchi del traffico sul Raccordo a Roma, i raid nei musei, gli attacchi alle opere d’arte e gli scioperi della fame per aprire un dialogo con le forze al Governo. Con l’obiettivo di salvare il pianeta. «La Cop27 è un evento ininfluente, gli accordi tra gli Stati non sono vincolanti o vengono disattesi».
In che senso?
«Di solito non succede nulla dopo questi incontri, mentre il punto è agire: ridurre le emissioni di Co2. L’azione deve partire dai governi, l’idea neoliberista secondo cui lo Stato non conta, ma tutto dipende dall’economia, è falsa. Siamo contrari a Cop27 perché è uno specchietto per le allodole, ma è peggio spingere la gente ad andare per protestare: gli striscioni con scritto “climate justice” non dicono niente. Non chiediamo di marciare con le Ong in Egitto quando in Italia il movimento climatico non esiste. Dobbiamo lavorare qui».
Qual è il vostro obiettivo?
«Creare mobilitazione. Negli ultimi mesi i media parlano molto di cambiamento climatico: succede nel 27 per cento degli spazi tv per l’intrattenimento. Ci invitano perlopiù per denigrarci ma arriviamo preparati, invece di rispondere alle domande prendiamo il tempo per informare chi non era neanche a conoscenza della crisi climatica. Così penetriamo spazi che non sarebbero stati accessibili. Siamo l’ultima generazione che può fare qualcosa. Non è un pensiero radicale, è la realtà».
Che cos’è Ultima generazione?
«Tanti sono Ultima generazione: i Fridays for future, i lavoratori di Gkn, i movimenti studenteschi, tutti quelli che fanno il massimo per cambiare rotta. Siamo un’organizzazione nata da Extinction Rebellion che si è creata un’identità propria: non un movimento ma un progetto. Non vogliamo una sovraidentità, portare avanti sempre le stesse richieste, fare le stesse cose. Puntiamo al calo drastico delle emissioni in più paesi possibili attraverso cambi legislativi ma anche a una ristrutturazione della democrazia partecipativa. Nel frattempo, ci sono le campagne quotidiane. Facciamo da apripista senza essere la soluzione: vogliamo generare uno spostamento dell’opinione pubblica in modo che la lotta per il clima diventi necessaria anche per le fasce moderate. Così la politica dovrà considerarla».
Quanto è importante la collaborazione internazionale?
«Siamo il capitolo italiano della rete internazionale A22, un gruppo di progetti che prova a salvare l’umanità. Condividiamo la strategia, le tattiche, l’approccio statistico e l’utilizzo dell’apprendimento in tempo reale. Che per noi è fondamentale vista la mancanza di cultura politica, così impariamo dal confronto. Consapevoli che la situazione è catastrofica, diciamo: “Ama e fai quello che puoi per migliorare la società. Tutto, non basta qualcosa”. Siamo fuori dalla logica del costo-beneficio, agiamo perché è giusto».
Ma cosa vi spinge a sopportare anche il clima d’odio che le vostre azioni generano?
«Quando i media parlano di te, anche se con odio, stai provocando un cambio nell’opinione pubblica. Ci dispiace far arrabbiare le persone con le nostre azioni ma pensiamo sia necessario. Perché l’indignazione genera controindignazione. Come ha detto Amitav Ghosh: “Discutere dei gesti estremi fa parlare anche del problema vero. Che uccidiamo il pianeta”. In molti durante i blocchi del traffico gridano: “Non state qui. Andate al Parlamento”. Andremo, ma abbiamo bisogno che tanti riconoscano che il problema è politico. Per questo servono indignazione e rabbia che sono le basi per l’azione politica. Le neuroscienze dimostrano che le decisioni importanti non vengono prese a mente fredda, sono guidate dalle emozioni. Arriviamo a farci odiare perché cerchiamo la reazione negli altri. Per coinvolgerli».