Francesca Tolino, tra le relatrici a una conferenza stampa organizzata dai Radicali italiani, ripercorre le tappe che hanno portato la giunta capitolina a dichiarare illegittima la prassi della pubblica esposizione, su croci di metallo, del nome di chi aveva interrotto una gravidanza. La norma, però, è solo il primo, importante passo per garantire un diritto

Non è un punto di arrivo. Lo ripete chi prende parola alla conferenza stampa che Radicali e la campagna Libera di Abortire hanno organizzato con lo slogan “Quello che i feti non dicono, ma noi sì”, a seguito dell’approvazione da parte della giunta di Roma della delibera che modifica la norma che aveva reso possibile la creazione del cimitero dei feti. Non è con quest’ultimo risultato che si arresta l’impegno di chi in questi anni ha cercato un modo per arrivare alla modifica di un regolamento che negava la dignità delle donne coinvolte.

Sicuramente continuerà nell’attivismo di Francesca Tolino la cui storia, raccontata per la prima volta sulle pagine de L’Espresso, ha aperto la strada alla conoscenza e alla testimonianza di molte donne.

Continuerà per diversi motivi. Primo tra tutti quello per cui la delibera comunale è un passo avanti non sufficiente a evitare che in futuro gli ospedali della regione possano continuare a decidere del destino dei feti senza informare le donne che hanno abortito. Manca un protocollo che la Regione Lazio dovrebbe impegnarsi a promuovere per far sì che le persone che ricorrono all’interruzione di gravidanza vengano informate riguardo la possibilità di chiedere il seppellimento o la cremazione.

Due opzioni previste proprio dalla nuova delibera il cui merito principale è proprio quello di definire esplicitamente chi abbia il diritto di decidere della sorte del feto. La donna. Non più, come si leggeva in una legge nazionale “i parenti o chi per essi”, ma la donna. Messa finalmente al centro di una scelta che l’ha sempre riguardata direttamente.

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L’impegno deve continuare anche perché, come detto da Giovanni Caudo, capogruppo di Roma Futura nell’assemblea capitolina, «ciò che è successo in assemblea è frutto di quello che è successo fuori e non deve fermarsi perché scopre un problema molto serio che nessuno vuole affrontare. In Italia è molto difficile abortire».

Proprio da questa difficoltà, che si traduce nella pratica in negazione della dignità della donna, nasce la storia che ha portato al risultato di questi giorni. Una storia fatta da «diverse dimensioni» - civile, politica, mediatica e istituzionale – che ha come inizio la forza di chi ha condiviso la propria esperienza senza darsi un nome, perché potesse avere una valenza collettiva.

«A me come cittadina non interessava chiedere i danni a titolo personale, mi interessava un’azione politica che portasse a un dialogo con le istituzioni». Francesca Tolino racconta il percorso che l’ha portata a intraprendere, grazie anche al supporto dei Radicali Italiani, «un’azione popolare» per trovare ascolto istituzionale riguardo quella che era stata la sua esperienza. A cominciare da quando si presentò nella redazione de L’Espresso con la storia del suo «aborto – tortura».

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Dall’articolo è nata sul giornale una campagna, In nome di tutte. In ognuna delle testimonianze delle donne che decisero di aderire «si ritrova a pezzi la storia di Francesca», come ricorda Beatrice Dondi, la giornalista de L’Espresso che insieme a Elena Testi ha scritto la storia di Tolino.

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Da quella campagna emerge anche un altro tassello della storia di Francesca e di molte altre donne. Quello della sepoltura del feto.

«Io ho domandato che fine facesse il feto, tutti hanno negato di sapere qualcosa», ricorda Tolino. Solo un anno dopo, dalla testimonianza di una persona che aveva risposto alla campagna de L’Espresso, Francesca venne a sapere dell’esistenza di una parte del cimitero Flaminio in cui venivano sepolti i feti con i nomi delle donne che avevano intrapreso l’interruzione di gravidanza. Si reca sul posto e scopre la croce con il proprio nome il giorno in cui anche i giornalisti sono lì a documentare la realtà. «Sulla croce del Flaminio c’è una data che è tre mesi successiva al mio aborto. Ancora mi chiedo cosa sia successo in quei tre mesi».

Francesca è consapevole che il suo shock e le sue emozioni di fronte a quella croce non sono quelle di tutte le donne. «Il mio percorso è stato quello di dire che io voglio un paese laico, ma ho molto rispetto per chi la pensa diversamente». Ma quello che è davvero importante in questo caso è il problema comune che, come evidenzia il giornalista Gabriele Barbati, «è l’inconsapevolezza».

 

E a questa mancanza c’è solo un rimedio. «Cura e informazione. Prima, durante, dopo l’aborto». In queste parole, apparentemente semplici, c’è il senso di tutto l’impegno degli ultimi anni e del bisogno che questo non si esaurisca.