Pride month
«Fuori dal buio»: la rivoluzione Lgbt alla conquista dello spazio pubblico
Dal Cassero di Bologna al Mario Mieli di Roma. Dal Gender Bender al Muccassassina. I presidi dell’orgoglio che hanno portato l’Italia dentro la comunità arcobaleno e viceversa. «50 anni di lotte per la libertà contro chi vorrebbe rispedirci nelle carceri e nei manicomi»
«Se ti battezzano come disforica è chiaro che disforicamente ti costruisci, se ti definiscono patologica è chiaro che, come malata, ti muovi, se ti considerano criminale, depravata, degenerata non potevamo essere sante, tantomeno diventarlo». Le parole di Porpora Marcasciano, attivista storica del movimento italiano e presidente del Mit (Movimento identità trans), fanno durare a rallentatore l’ultimo fotogramma del mondo prima.
Molto prima delle serie tv friendly su Netflix, degli arcobaleni nelle strade e nei negozi che celebrano il mese dell’orgoglio. Molto prima delle discussioni in Parlamento, della partecipazione dei quotidiani nazionali ai Pride cittadini. Un mondo in cui le persone Lgbt non avevano un posto. Costrette a ritrovarsi nei luoghi a loro concessi: bagni pubblici, cinema, parchi. Nella semioscurità. Sappiamo che il movimento per i diritti delle persone Lgbt ha fatto passi da gigante negli ultimi 50 anni - dalla nascita del F.u.o.r.i, primo movimento omosessuale italiano nel 1971.
Certamente non ha raggiunto ancora tutti gli obiettivi, deve ancora assicurarsi la piena parità, soprattutto in Italia, ma l’avanzata del progresso è stata senza precedenti nella storia dei movimenti per la giustizia sociale. Quello che sfugge è la conquista degli spazi pubblici da parte della comunità arcobaleno. Come, quando e perché gli omosessuali sono usciti in pubblico per dire: noi esistiamo. È stata una battaglia portata avanti sempre in solitudine contro società, politica, istituzioni. La consapevolezza che il luogo più sicuro sia una piazza, che è lì, nella folla sotto la luce del sole che le identità tornano coscienza e diventano lotta, il movimento Lgbt l’ha conquistata a poco a poco.
È un viaggio, questo, che parte da Bologna. La città arcobaleno per eccellenza che ha accolto il primo centro italiano Lgbt sorto in un edificio monumentale concesso dal Comune nel 1982. La storia del Cassero nasce grazie a un esule gay cileno, in fuga dal regime di Pinochet, Samuel Pinto alias Lola Punales che fonda nel 1977 il “Collettivo frocialista”. Un anno dopo cambia nome in “Circolo 28 Giugno”, data di inizio dei moti di Stonewall. «C’erano con noi un collettivo lesbico, il Tiaso, le cui esponenti più attive erano Luky Massa, allora giovanissima, e la sua compagna Nadia Magrini. Le donne transgender come Valérie Taccarelli e la Robertina e molti e molte altre». Lo ricorda Beppe Ramina, giornalista, ex dirigente di Lotta Continua e co-fondatore del Cassero: «Pinto andò in Svezia e a Stoccolma, ebbe modo di osservare l’organizzazione gay locale che gestiva un grande edificio e, oltre all’attività politica, c’erano una libreria, un bar, un ristorante, si tenevano incontri culturali, si ballava».
Lì l’illuminazione: una sede dove far incontrare gli attivisti non basta più, serve un luogo che possa essere la casa di gay, lesbiche, transessuali. «Fu una battaglia lunga due anni. La sede venne promessa dal sindaco Zangheri durante un incontro avvenuto il 28 giugno del 1980. A un certo punto venne individuata in Porta Saragozza, ma la Curia si oppose con toni duri in quanto sul voltone c’è una lapide che la dedica alla Madonna di San Luca, protettrice della città. La destinazione fu incerta fino all’ultimo giorno.
Decisive furono le 10.000 firme raccolte tra la cittadinanza, con prima firmataria Virginia, la mamma di Francesco Lorusso (lo studente di Lotta Continua ucciso dai carabinieri durante gli scontri del ’77, ndr), la presa di posizione delle donne nei partiti, la spinta degli intellettuali, tra tutti ricordo Roberto Roversi, e quella dell’allora segretario della federazione del Pci Renzo Imbeni».
Una richiesta di visibilità che reclamava il diritto della città ad arricchirsi e a riflettere su sé stessa attraverso dibattiti, rassegne cinematografiche, letterarie, spettacoli a tema Lgbt. Il Cassero nacque nel 1982. «Non è esagerato affermare che tutta Bologna venne coinvolta da questa discussione che verteva su un tema che era stato nascosto o denigrato fino ad allora: la libertà di scegliere come e con chi esprimere la propria sessualità e il proprio universo relazionale. Le donne, soprattutto, e i protagonisti e le protagoniste della cultura furono in prima fila e ne fecero un tema proprio. Ma altrettanto accadde in ambiti apparentemente impermeabili a questi ragionamenti: nel sindacato, nelle sezioni di partito, in luoghi di vita quotidiana». Oggi il Cassero celebra 40 anni.
Mentre spegne 20 candeline il suo prodotto più riuscito: Gender Bender Festival, bollato nel 2006 dalla Curia di Bologna come «invasione barbarica che oltraggia la fede e la ragione dei bolognesi». Capofila di un progetto europeo finanziato con oltre un milione e 200 mila euro, è una giostra di eventi spettacolari, legati alla danza e alle arti performative che da due decenni indagano le questioni di genere e di identità. Per l’importanza dei temi e la qualità delle proposte ha il sostegno del Comune di Bologna, della Regione Emilia-Romagna e del Mibact. Gender Bender è uno specchio che funziona da macchina del tempo: guardi dentro e ti vedi fra dieci anni, forse meno. Come racconta Daniele Del Pozzo, storico curatore della rassegna che sta preparando la nuova edizione prevista dal 9 al 22 settembre: «Un tempo le rassegne teatrali, cinematografiche e artistiche a tematica Lgbt avevano uno scopo comunitario che puntava a ritrovarsi e riconoscersi. Gender Bender sfonda la parete in cui ci si riconosce tra pari e apre al dialogo con pezzi della società apparentemente molto distanti».
Per capire meglio come ha rivoluzionato il nostro Paese la presenza della comunità Lgbt «in pubblico», bisogna entrare nel Circolo di cultura omosessuale “Mario Mieli” di Roma. Racchiuso tra le mura gialle del quartiere di Basilica di San Paolo. Attraversare le scalinate arcobaleno e mettersi in ascolto dei suoi fondatori a un anno dai 40 anni dalla sua costituzione.
Nato nel 1983 dalla fusione di due organizzazioni romane, “F.u.o.r.i” e “Collettivo Narciso” è stato il punto di riferimento per generazioni. «Esistevano già dei gruppi gay a Roma che facevano impegno politico per “Liberazione Omosessuale”», ricorda Andrea Pini, insegnante in pensione, storico attivista dal 1978, tra i fondatori del Circolo Mario Mieli, terzo presidente tra il 1989 e il 1993. «Il circolo nasce dal sentimento di rabbia dopo l’ennesimo “omocidio”. Salvatore Pappalardo, un operaio di origini siciliane venne massacrato nel parco di Monte Caprino, dove nella notte i gay si ritrovavano». È il momento in cui tutto cambia. Quella notte porta la comunità gay romana a unirsi, organizzare una manifestazione, poi a incontrare il sindaco Ugo Vetere, tra i temi: la mancanza di luoghi di aggregazione sicura, una carente tutela giuridica, la totale sfiducia nelle forze dell’ordine. «Da lì le prime riunioni, Nel frattempo, nel marzo del 1983 si era suicidato Mario Mieli, molto amato per il suo “Elementi di Critica Omosessuale”, una sorta di bibbia per noi giovani gay guerriglieri così il Circolo decise di prendere il suo nome».
Il Circolo, come lo chiama Pini, non aveva ancora un posto. «Occupavamo spazi concessi da piccoli partiti ma volevamo uscire in pubblico. Gli omosessuali si erano sempre incontrati al buio, vivevano una doppia vita. Per la prima volta volevamo raccontarci con la nostra voce. Tutto era iniziato nel 1971 con il F.u.o.r.i, passando per Bologna nel 1982 con il Cassero e noi a Roma volevamo riprendere questa esperienza». Non fu facile. Arrivò la pandemia dell’Aids: «Una tragedia che però non bloccò la nostra testimonianza pubblica, la moltiplicò. Certo, le nostre rivendicazioni erano cambiate e fummo costretti a rimboccarci le maniche di fronte a nuove paure, stigma e un ministro non degno della Repubblica come Carlo Donat-Cattin, “l’Aids ce l’ha chi se lo va a cercare”, diceva. Ci contattò l’Istituto Spallanzani, collaborammo con allora giovani ricercatori come Giovanni Rezza e Giuseppe Ippolito. Avviamo i primi test anonimi e trasformammo il circolo in uno studio medico. Fu terribile. I nostri amici, i nostri amanti ci morivano accanto nel silenzio della società e della politica. Così iniziammo a lavorare sulla prevenzione, senza rinunciare all’idea della liberazione sessuale: da combattere erano lo stigma e il pregiudizio alimentati da Chiesa, istituzioni e media. Siamo stati in grado di metter su gruppo di psicologici e il primo servizio di assistenza domiciliare dei malati di Aids. Con il direttivo del Mieli e Vanni Piccolo, all’epoca presidente, ci mettemmo a fare quello che avrebbe dovuto fare lo Stato».
Ma non solo lotta all’Aids: rassegne cinematografiche, teatrali, dibattiti, gruppo di ascolto per tutte le identità, lotta all’omotransfobia, politica. A trainare il tutto una serata come Muccassassina, spesso paragonata dai quotidiani dell’epoca allo Studio 54 di New York, anticipatore di tendenze e luogo di frastuono e di euforia. «Muccassassina è stata un momento di comunità vero - ricorda Deborah Di Cave, presidente del Circolo Mario Mieli nel 1994 - Fare una festa con diverse migliaia di persone, stoppando la musica per lanciare messaggi importantissimi con tutto il personale volontario è qualcosa che salda la comunità. Era la nostra piccola San Francisco».
Direttrice artistica per molti anni fu Vladimir Luxuria: «Una discoteca Lgbt è diversa da quella eterosessuale - racconta - per noi non è solo un luogo di divertimento ma di libertà, dove è possibile fare cose che il mondo fuori disprezzerebbe. A Mucca ho cominciato le prime settimane come “portinaia”, come dico io invece di door selector. Eravamo io e la Karl Du Pigné, addobbate come du’ alberi de Natale. Avevamo il compito di non fare entrare i malintenzionati». La serata diventò il simbolo di una comunità che prendeva spazio e influenzava musica, arte, spettacoli, moda. «Ricordo che L’Espresso titolò: “L’effetto Muccassassina”. Interrompevano la musica all’una e trenta. Prima dello spettacolo si annunciavano alcune manifestazioni, si commentavano alcuni fatti di cronaca. Mucca era frequentata anche da talent scout e celebrità come David La Chapelle, Franca Rame, le Spice Girls, Franca Valeri, Grace Jones. La serata era e resta unica nel suo genere».
Cassero di Bologna, Mario Mieli di Roma, Gender Bender, Muccassassina i presidi dell’orgoglio che hanno portato l’Italia dentro la comunità arcobaleno e viceversa. Non sono i soli. Negli anni si sono imposti: “Immaginaria”, il primo festival internazionale di cinema a tematica lesbica e femminista in Italia. “Divergenti”, unico festival cinematografico in Italia dedicato al tema dell’identità di genere. Ed è in arrivo per la prima volta al sud “Sherocco” il festival Queer che dal 23 al 26 giugno soffierà sulla Puglia, a Ostuni, con ospiti nazionali ed internazionali mostre, laboratori, dibattiti. «Noi abbiamo occupato gli spazi pubblici - sottolinea Porpora Marcasciano che oggi siede nel consiglio comunale di Bologna - l’ultimo è questo da dove le parlo. Tra gli spazi non possiamo non ricordare il Mit a Bologna, un luogo fisico, punto di riferimento per le persone trans, attraversato da 1.250 persone all’anno. Occupiamo e lasciamo ogni giorno delle impronte. Usciamo fuori, calpestiamo con i nostri tacchi questa terra franosa culturalmente e politicamente per dire “noi esistiamo”. Uso la metafora dei tacchi perché sono stati quelli scagliati contro la polizia da Marsha P. Johnson o Sylvia Rivera, due donne trans, a dare inizio alla liberazione Lgbt mondiale. E non si sono ancora posati. A distanza di 50 anni continuano a vibrare liberi su chi vorrebbe toglierceli, rispedirci nelle carceri e nei manicomi».