La storia unica del fondatore dell’Espresso, dagli inizi di via Po fino a Repubblica. Con il sogno di un’informazione più moderna, libera e democratica

Con Eugenio Scalfari, che si è spento la mattina del 14 luglio a 98 anni, se ne va in fondo anche il “secolo di carta”. Quello dei settimanali irriverenti e combattivi, dei grandi quotidiani d’informazione e di battaglia, del giornalismo moderno che si fa protagonista della politica e dell’economia. Insomma, il “suo” secolo, perché su di esso Scalfari ha imperato come nessun altro, e lasciato un segno profondo inventando stili, rinnovando formule, fondando giornali. E naturalmente vivendo la vita con pienezza.

 

E dunque è ben difficile riassumere qui e ora i momenti salienti di una lunga esistenza, le tante esperienze in cui si è lanciato, sempre con il piglio – e spesso con la palma – del vincitore: giornalista, amministratore, direttore, saggista, romanziere, infine poeta, sempre marito e amante. I tanti volti di un uomo cui è toccato in sorte perfino di conquistare l’amicizia del Papa. Forse meglio indagare allora le radici, la genesi, le velleità di una lunga e bella avventura, anche perché coincidono con la nascita e la vicenda stessa di questo giornale, “L’Espresso”. Dal quale peraltro tutto il resto è cominciato.

 

Una storia, è vero, raccontata e scritta mille volte, forse perfino mitizzata. Eppure vale la pena ricordarne ancora alcuni dettagli illuminanti, se non altro perché spiegano bene molti degli eventi che si sono succeduti dopo: il successo del settimanale, l’azzardo vincente di “Repubblica”, la poderosa catena dei giornali locali, in altre parole l’irruzione sulla scena di un modo diverso di fare giornalismo che influenzerà a lungo l’intero mondo dell’informazione.

 

Dunque, una mattina di primavera del 1955 due giovani uomini arrivano a Ivrea, negli uffici dalle grandi vetrate della Olivetti, per incontrare Adriano, patron dell’azienda che porta il nome di famiglia, imprenditore illuminato, l’animatore del Movimento di Comunità pensato e fondato nell’assoluta convinzione che far convivere sviluppo industriale e diritti dei lavoratori e studiare un’organizzazione del lavoro più umana avrebbe reso la fabbrica più efficiente e la società più democratica.

 

Uno dei due ospiti è Arrigo Benedetti, ha 45 anni, viene dalla brillante scuola giornalistica di “Omnibus” e di Leo Longanesi e ha già fondato e diretto due settimanali di successo, “Oggi” e “L’Europeo”. L’altro è Eugenio Scalfari, di anni ne ha 31, ha da poco sposato Simonetta De Benedetti – figlia di Giulio, il geniale e spietato direttore della “Stampa” di Torino – ed è un ex funzionario di banca che ora scrive per il “Mondo” di Mario Pannunzio articoli puntuali sui potentati dell’economia che per vivacità e autonomia di giudizio hanno colpito il patron della Banca Commerciale, il mitico Raffaele Mattioli. Anzi, è proprio Mattioli a spingerli a coinvolgere Olivetti nel progetto.

 

I due amici sognano un nuovo giornale, un quotidiano totalmente diverso dagli altri perché immaginato come un settimanale che esca tutti i giorni, e che nel quotidiano porti dunque le peculiarità del settimanale. Tre i principali campi d’indagine: politica cultura economia (parole che ancora oggi spiccano sotto la testata dell’“Espresso”); grafica accattivante; massima attenzione alla scrittura; inchieste, approfondimenti, punti di vista originali: in nuce c’è già “la Repubblica”, no? A Olivetti viene spiegato il progetto, e gli piace assai; anche presentato un preciso, dettagliato piano industriale, costi e ricavi, che però gli appare subito troppo impegnativo per lui. Troppo costoso. Si offre allora di contribuire all’impresa, di acquisire una partecipazione minore, ma suggerisce di rivolgersi a qualcuno con le spalle più robuste, la Fiat di Vittorio Valletta o l’Eni di Enrico Mattei.

 

Per tante ragioni, i due scelgono Mattei. Che li riceve subito, s’invaghisce del progetto e senza por tempo in mezzo si propone come azionista di maggioranza della nuova creatura. Era fatta, finalmente si poteva partire. Benedetti e Scalfari, felici, tornano con la buona notizia da Olivetti che invece li gela: l’idea di entrare in società con l’Eni non lo convince affatto, troppa sproporzione tra i due azionisti, bolla la possibile alleanza come «un pasticcio di allodola e cavallo». Ed è a questo punto che anche Benedetti e Scalfari cominciano a temere che il “cavallo”, l’Eni, la potente Eni dell’attivissimo Mattei possa diventare per loro troppo ingombrante, predominante, e finire per condizionare idee e progetti. E si accordano con Olivetti per il settimanale.

 

Pochi mesi dopo Mattei manderà in edicola “Il Giorno”, un quotidiano molto simile per formato e impostazione a quello che gli era stato raccontato. Ci vorranno invece vent’anni perché quel primo progetto spiegato a Olivetti e Mattei prenda finalmente corpo e Scalfari fondi la “Repubblica” (che non a caso ingaggerà subito molte firme del “Giorno”, a cominciare da Giorgio Bocca), ma in fondo tutto era già scritto. Ed è per questo che le scommesse dell’“Espresso”, di “Repubblica” e perfino della catena di giornali locali costruita con passione e pazienza da Carlo Caracciolo, vanno lette l’una pensando anche alle altre. Perché appartengono alla stessa storia, nascono dalle stesse radici.

Archivio
“Comprendere la realtà, fuori da ogni pregiudizio”: Il primo editoriale di Eugenio Scalfari sull’Espresso
14/7/2022

Che giornale è da subito “L’Espresso”? È un settimanale politicamente e culturalmente libero, alquanto libertino nel costume, che fa dell’irriverenza verso il potere il suo tratto distintivo. Adotta lo splendido formato “lenzuolo” che consente una titolazione robusta e un uso spregiudicato delle fotografie: tagliate e a volte talmente ingrandite da sgranarle. La scansione segue proprio l’ordine politica-cultura-economia. La cura della scrittura è ossessiva: Benedetti, il direttore che sogna di firmare grandi romanzi, sostiene di pubblicarne uno che va in edicola ogni settimana. E infatti assolda scrittori (Cancogni, Moravia, Eco, Sciascia, Arbasino…) e li usa come giornalisti, o pretende che questi si trasformino in quelli. Mitiche le sue sfuriate, gli articoli appollottolati e gettati nel cestino e poi implacabilmente fatti riscrivere e riscrivere ancora.

 

All’inizio, su tutto faceva premio proprio l’intransigenza stilistica e laica di Benedetti, detto il Tonno per via di un corpo tozzo e rotondo poggiato su due piedini, intorno al quale si forma un gruppo di intellettuali determinati a denunciare la corruzione, la mala amministrazione, l’intreccio perverso tra politica e affari: «Missionari laici in un’Italia cattolica, arruffona, pasticciona», riassumerà più tardi Caracciolo. Tutti ricordano e citano a mo’ di marchio di fabbrica le inchieste di Cancogni contro il sacco di Roma (“Capitale corrotta=Nazione infetta”), ma poi seguiranno negli anni gli scandali della Federconsorzi, delle banane, quello dei tabacchi, dell’aeroporto di Fiumicino, l’inchiesta sulla miseria nel Mezzogiorno, il “tintinnar di sciabole” del Piano Solo approntato da carabinieri e Sifar…

Il ricordo
È morto Eugenio Scalfari, giornalista senza se e senza ma
14/7/2022

Scalfari s’è ritagliato il ruolo di direttore amministrativo, ma scrive articoli d’economia con una chiarezza, un’indipendenza e una competenza fino ad allora poco praticate sui giornali. Conversa con Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, e ne traduce il pensiero in articoli firmati con lo pseudonimo di Bancor. Denunciando le insane commistioni di politica e affari, comincia ad attaccare quella “razza padrona” di boiardi di Stato – il cui campione è Eugenio Cefis – che innerverà molte campagne dell’“Espresso e poi di “Repubblica” e che negli anni Settanta diventerà un best seller scritto a quattro mani con Peppino Turani.

 

Anno dopo anno il peso di Scalfari diventerà via via maggiore e l’Espresso si caratterizzerà per praticare un giornalismo lontano dal mito anglosassone dei fatti separati dalle opinioni caro a Lamberto Sechi che su questa pietra fonderà nel 1962 a Milano il mondadoriano “Panorama”, aspro concorrente del settimanale di via Po, e primo ad adottare il formato e la filosofia dei news magazine americani come “Time” al quali esplicitamente si ispira.

 

No, piuttosto della tradizione anglosassone Scalfari ha adottato il principio del giornalismo come cane di guardia del potere e per questo ha sempre interpretato e praticato un’informazione orgogliosamente e dichiaratamente di parte, nel senso di criticare, prendere posizione, dichiarare i propri bersagli. Insomma, un giornale con il gusto della provocazione, protagonista del dibattito politico e culturale, che ha l’orgoglio delle sue idee e il coraggio di difenderle. Diceva Caracciolo: «Un giornale cosi non può che essere, sia pure in forme non ossessive né ringhiose, un giornale contro».

 

Anche il campo scelto è esplicito fin dagli esordi: in senso lato è quello liberal democratico, riformista, post azionista, alquanto radicaleggiante (contiguo all’inizio alla pattuglia del Partito radicale) che guarda a sinistra e si identifica soprattutto con Ugo La Malfa. Quando nel 1967 prende il posto di Benedetti che lascia la direzione, ufficialmente nella speranza di scrivere finalmente i suoi romanzi, ma in verità perché in disaccordo con la linea assunta dal giornale allo scoppiare della Guerra dei Sei Giorni, Scalfari scrive: “Noi il nostro campo l’abbiamo scelto da molto tempo e una volta per tutte: siamo contro tutte le dittature di qualsiasi colore, sovietiche, greche, spagnole o nasseriane che siano; siamo contro la violenza e l’incitamento alla violenza da qualunque parte provenga… Siamo, dovunque, con le colombe e contro i falchi, anche se è vero che talvolta, per sopravvivere, le colombe debbono mettere becco e artigli. Per difendersi. Mai per aggredire”.

 

La dichiarata partigianeria di Scalfari, la sua scarsa fede in una obiettività dell’informazione troppo spesso solo formale – formidabili gli scontri in materia con Indro Montanelli, l’altro grande protagonista del secolo di carta – varrà prima all’“Espresso” e poi soprattutto alla “Repubblica”, fin dal suo debutto nel gennaio 1976, l’acida definizione di giornale-partito. Che in realtà non dispiaceva più che tanto al Fondatore che piuttosto la leggeva come il riconoscimento della missione politica e civile che i suoi giornali s’erano dati, quella di rendere l’Italia più moderna e democratica. Da una parte combattendo contro il verminaio del malaffare, della corruzione, della cattiva amministrazione, dell’omertà, dell’egoismo corporativo e di lobby che ha inquinato così tante volte la vita politica e civile; dall’altra, presuntuosamente spingendo per modernizzare e cambiare la sinistra italiana, a cominciare dal Pci, perché assomigliasse sempre più a quella dei grandi paesi democratici europei.

 

I “missionari” s’accingono dunque all’impresa più grande, la nascita di “Repubblica”, avendo ben chiaro in testa quel mandato. La redazione stessa viene costruita pescando in un campo largo (da “Paese Sera” al “Giorno” all’“Unità”); la pagina dei commenti è una tribuna aperta a opinionisti anche difformi (per i suoi interventi Alberto Ronchey pretenderà la testatina “Diverso parere”); la scansione delle pagine segue la miscela già sperimentata: politica, cultura, economia. Tutto sotto il controllo personale e diretto di Scalfari. Mitica la quotidiana riunione di redazione, detta “la messa cantata”, le telefonate con i potenti del momento mandate in viva voce via interfono perché tutti i giornalisti ascoltassero, cogliessero i toni da adottare in circostanze simili, seguissero l’esempio, comprendessero chi teneva la barra del timone. Una volta, come raccontano Antonio Gnoli e Francesco Merlo in “Grand Hotel Scalfari – Confessioni libertine su un secolo di carta”, il libro-intervista del 2019, il direttore porta in riunione il nastro della sfuriata di Arturo Toscanini ai suoi orchestrali perché tutti si diano una regolata. Se lo poteva permettere, perché gli veniva riconosciuto un carisma di cui lui stesso era conscio e del quale si beava da sempre. Lasciamo ancora la parola a Carlo Caracciolo, l’editore e amico: «Una volta sentii dire di lui: “Porta la testa come il Santissimo”». Appunto.

Il ricordo
È morto Eugenio Scalfari, giornalista senza se e senza ma
14/7/2022

Insomma quella “certa idea dell’Italia”, citazione gobettiana orgogliosamente rivendicata e adattata alla bisogna, ha sempre scandito la lunga stagione di Scalfari e dei suoi giornali. Discendeva dai valori e dall’esperienza del Partito d’Azione ma, chiusa quella stagione lontana, essa è rimasta sempre viva nello sforzo quotidiano di migliorare e cambiare un Paese diviso, incerto, frenato dai suoi stessi limiti culturali e istituzionali. Il “secolo di carta” lungo il quale si è sviluppato il sogno di un’informazione più moderna, libera e democratica, si va chiudendo. Ma ora che Scalfari non c’è più quell’impegno resta nel dna delle sue creature. Se non altro perché il Paese non è ancora quello che i “missionari laici” sognavano.