Il fondatore dell’Espresso è scomparso a 98 anni. L’ossessione per i pezzi d’autore e la cronaca, l’odio per le allusioni in un articolo, l’ambizione di creare con i suoi giornali un’opinione pubblica come forza politica di controllo e di tendenza

Detestava il condizionale. Faticava a tollerare il congiuntivo. Quei tempi non gli si addicevano. Se ne trovano vaghe tracce nei suoi scritti e li sconsigliava ai redattori. L’inviato di Repubblica a Varsavia, durante una delle grandi crisi polacche degli anni Ottanta, era traumatizzato dal ripetuto invito del direttore a riscrivere la corrispondenza appena mandata. Per tre volte una nota asciutta accennava a una mancanza di incisività. L’inviato, un bravo collega, non riusciva a interpretare quel rimprovero. Era sconcertato dal caparbio rifiuto del suo articolo. Infine si rese conto che l’insistente uso del condizionale dava un tono allusivo alla sua cronaca. I «se», i «ma» erano troppi. Deresponsabilizzavano lui, l’autore, e con lui risultava sfuggente Repubblica. A Eugenio Scalfari non piaceva quel vizio italiano.

 

Voleva pezzi “d’autore”. Repubblica doveva essere un quotidiano d’opinione, e quindi i contenuti politici di un articolo dovevano essere chiari, ma contavano soprattutto l’approccio alla realtà e il linguaggio preferibilmente asciutto, senza troppi fronzoli e colore. Era per uno stile diretto, narrativo; a chi lo usava concedeva la sua indulgenza; anche se a volte ne abusava. Esecrava le allusioni e amava la cronaca anche in politica, in cultura, perfino in economia. Era una scelta in parte ereditata da Arrigo Benedetti, con il quale aveva lavorato a lungo all’Espresso, e al quale veniva riconosciuto il merito di avere tentato di allontanare il giornalismo dalle dissertazioni comprensibili soltanto ai pochi in grado di interpretarne il senso nascosto nella nebbia dell’ambiguità.

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Allo stile di Longanesi era succeduto il missirolismo. Durante il fascismo, il primo dava agli scritti di autori abili o furbi un leggero sapore di dissenso, di fronda, che sfuggiva alla censura. Nella giovane democrazia era considerata alta acrobazia giornalistica l’abilità con cui Mario Missiroli, direttore del Corriere della Sera, stilava editoriali dotti, sibillini per i comuni mortali e sempre velatamente ossequiosi verso il Palazzo. La nascita del Giorno di Gaetano Baldacci e poi l’avvento di Piero Ottone alla direzione del Corriere hanno imposto una svolta ai grandi quotidiani italiani. La critica ha assunto toni più aperti. Con Repubblica, Eugenio ha dato energia all’ambiziosa missione (già viva nel Mondo di Pannunzio e ancor più nell’Espresso di Benedetti e suo) di creare un’opinione pubblica come forza politica di controllo e di tendenza.

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I cronisti della mia generazione, che avevano vissuto le precedenti aperture al Giorno e al Corriere, avvertirono la scossa. Non ci lasciò indifferenti la ribadita esigenza del fondatore di Repubblica di voler «pezzi d’autore». L’affermazione non suonava tanto come un invito alla qualità, ovvio in un giornalismo in cui la forma ha prevalso a lungo sulla sostanza, in cui la buona scrittura ha mascherato la dipendenza a tanti poteri, quanto alla volontà di avere redattori di carattere, con una personalità politica e culturale.

 

Per tradizione e convenienza, nei grandi quotidiani non di partito, l’irriverenza nei confronti del potere era consentita a pochi eletti, la cui autorità personale smorzava la responsabilità del giornale. Ed era spesso attutita dall’ironia, dall’uso della battuta che divertiva, ma soltanto di rado feriva. Il diritto a un’irriverenza praticata individualmente, riconosciuto agli «autori» di Repubblica, dette alla redazione formata da Scalfari un’impronta invidiata o irritante per chi non aveva quel diritto. Ed erano in molti. L’irriverenza, verso gli avversari ed anche, a volte, verso gli amici politici, aveva il valore di un puntuale, ripetuto atto di indipendenza. Era sempre là, in sospeso. Come la lama di una ghigliottina, di cui all’inizio, agli esordi di Repubblica, molti redattori potevano disporre. Anche perché non si tagliavano teste, ma si spalancavano scandali e menzogne.

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Eugenio apprezzava la dignità con cui alcuni colleghi adottavano la freddezza ispirata agli stereotipi anglosassoni. Lui teneva a bada la passione, senza accorciare troppo la briglia. Non travolgeva la verità conosciuta dei fatti. Né si trincerava nella neutralità. La sua visione doveva trasparire. Esprimere un’opinione era naturale, come doveva esserlo il rispetto della realtà. A viso scoperto e senza rete di protezione : questa poteva essere la regola. Anche nel giornalismo, come nella vita privata, Eugenio era protagonista. Lo era sia nel ruolo di seduttore sia in quello di chi è esposto e vulnerabile alla seduzione. Voleva essere amato da chi lavorava con lui, ma sapeva amare. Poteva soffrire di istinto se uno, redattore o fattorino, lasciava il giornale. Il distacco da un collaboratore grande o piccolo lo feriva. In questo, come del resto nell’amicizia, aveva slanci sentimentali: era fedele come era irriducibile nella polemica. Per lui gli avversari rispettabili erano ben distinti da quelli che non lo erano. La straordinaria capacità di recupero rimarginava le sue ferite, ma la memoria era robusta.

 

La curiosità di giornalista non si limitava al presente ; la passione per la storia lo portava spesso a filtrare i fatti quotidiani attraverso il passato; e a studiarne le conseguenze senza paura di affrontare i rischi della verità del momento. Al giornalista affidava un ruolo difficile: quello di esercitare il diritto della società non solo a conoscere gli avvenimenti, ma anche a svelare quel c’è dietro. Il retroscena non come pettegolezzo, ma come servizio reso al lettore, cioè al cittadino che non deve essere gabbato da chi detiene il potere. Analizzava e criticava la società politica da posizioni che, nonostante il zigzagante percorso di una lunga vita italiana, possono essere riassunte facilmente in quelle di un tenace liberale di sinistra, appassionato difensore delle istituzioni.

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Il suo pubblico l’ha via via individuato nella parte riformista e repubblicana della società. I suoi lettori ideali erano sostenitori dei diritti civili, ma anche dei doveri che ne derivano. Un momento di verità e di chiarezza fu quando di fronte al terrorismo, in particolare durante il rapimento di Aldo Moro, nella sinistra extraparlamentare, tra i radicali e non pochi intellettuali prevalse lo slogan «né con lo Stato né con le Br».

 

Slogan che Eugenio rifiutò schierandosi in difesa dello Stato repubblicano, del quale denunciava al tempo stesso le manchevolezze e dal quale esigeva il rispetto dei diritti civili. Fu una scelta di campo, che equivalse a una rifondazione del giornale, nato da poco e ancora intento a precisare la propria identità. Lui stesso l’ha scritto.

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La scelta di settimanalizzare il quotidiano, ossia di offrire sempre più non la sola notizia, ma la sua genesi, i suoi effetti e il ritratto dei suoi protagonisti, colpevoli o innocenti o vittime, oggi applicata dalle grandi testate internazionali, fu la profonda riforma attuata da Eugenio. Lui la promosse da giornalista intellettuale quale era. L’espressione «intellettuale», nata dall’Illuminismo al quale si ispirava (Denis Diderot era il suo eroe), gli si addiceva in pieno. E spiega il suo giornalismo. La formazione originaria era quella di un economista. L’interesse letterario ( e filosofico) si è esteso col tempo e ha influenzato il suo giornalismo, e la sua redazione fin dalle origini. Durante i primissimi passi di Repubblica, Rosellina Balbi, responsabile delle pagine culturali, e Orazio Gavioli, responsabile di quelle degli spettacoli, furono gli interpreti indipendenti, di quella sua natura. Balbi e Gavioli spesso disubbidivano, prendevano iniziative che non condivideva. Ma lui accettava l’insubordinazione di quei due personaggi che stimava con lo spirito, appunto, di un giornalista intellettuale.