Prontuario per chi è rimasto stupito dalla decisione della Corte Suprema Usa. E per ricordare che anche in Italia, il tentativo di rimettere in discussione il diritto all’autodeterminazione torna ciclicamente

È sacrosanto evocare Margaret Atwood e “Il racconto dell’ancella” per sfogare costernazione e rabbia dopo la decisione della Corte suprema degli Stati Uniti sull’aborto. Peccato, però, che quel romanzo sia stato scritto nel 1985, e, certo, reso famoso dalla serie televisiva che ne è stata tratta nel 2017 sotto la presidenza Trump. Dunque, occorre avere memoria, e avere ben chiaro che negli Stati Uniti l’attacco ai diritti delle donne (e non solo) è cominciato esattamente in quel tempo, con la presidenza di Ronald Reagan, che proprio nel 1985 bloccò i finanziamenti del governo federale alle organizzazioni non governative internazionali che praticano l’interruzione di gravidanza all’estero o informano sulla medesima. La norma, detta Mexico City Policy, venne eliminata da Bill Clinton nel 1993, reintrodotta da George W. Bush nel 2001, eliminata ancora da Barack Obama nel 2009 e infine nuovamente introdotta da Donald Trump in uno dei suoi primi ordini esecutivi.

 

L’altalena di provvedimenti dovrebbe dimostrare che c’è da decenni una larghissima parte di politici ed elettori che si rifiuta di ammettere la libera scelta delle donne. E che spesso passa alle vie di fatto: negli anni Novanta i no-choice bloccavano fisicamente l’accesso alle cliniche, cari smemorati: in soli sei mesi, nel 1993, due medici abortisti sono stati uccisi, e un terzo, che indossava il giubbotto antiproiettile, venne colpito alle braccia «per impedirgli di continuare nella sua opera di morte». Il parroco di Mobile, Alabama, dirà nella sua predica: «Se si devono ammazzare 100 medici per salvare un milione di bambini, benissimo, il prezzo non è troppo alto».

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Erano gli anni di Bill Clinton, che venivano dopo il lungo governo di Reagan prima e di Bush senior poi. Quegli spari venivano dalla paura: paura di una vera legge sull’aborto, paura che il mondo sarebbe andato diversamente. Paura, teniamolo a mente. Stephen King ne parlò in almeno un romanzo, “Insomnia”, dove i no-choice assaltano un centro femminista, uccidendo la gran parte delle organizzatrici e delle ospiti.

 

Il problema è che tutto questo non riguarda solo gli Stati Uniti, come moltissime donne si sono sgolate a ripetere prima della sentenza, ma un grandissimo numero di Paesi, anche europei. E riguarda noi. Sì, è vero, la legge 194 è ancora in piedi. Formalmente. L’indagine Mai Dati! condotta da Chiara Lalli e Sonia Montegiove, e pubblicata dall’Associazione Luca Coscioni, ci dice che in 11 regioni italiane c’è almeno un ospedale con il 100 per cento di obiettori. 31 in tutto, per essere precisi, e ce ne sono 50 con percentuale superiore al 90 per cento e oltre 80 con tasso di obiezione superiore all’80 per cento. Le cose sono peggiorate durante e dopo il Covid-19. E in molti casi, i dati, appunto, non sono pervenuti. Per non parlare delle regioni, come Umbria e Marche, che di fatto impediscono il ricorso all’aborto farmacologico.

 

Un piccolo sforzo di memoria, dunque, è necessario per chi si stupisce dei numeri, e per quanto è avvenuto negli Stati Uniti, e a Malta, dove una turista americana ha rischiato la morte perché anche in caso di perdita di liquido amniotico, se il cuore del feto batte, non si può intervenire, e per chi è rimasto stupefatto per lo Strajk Kobiet, lo sciopero delle donne polacche del 2020 e 2021 contro la sentenza della Corte Costituzionale che ha reso illegali quasi tutti i casi di aborto.

 

Passo indietro. 1988. È Giuliano Amato a intraprendere quel «parliamone» che diventerà frequentissimo. Durante un dibattito sulla legge 194 organizzato al club Turati di Milano, Amato critica la sentenza della Corte Costituzionale che consente alla donna di abortire anche senza il consenso del coniuge. In realtà, contesta tutta la legge, sostenendo che la donna dovrebbe decidere da sola solo se la gravidanza mette in pericolo la sua salute. In parole ancor più povere, Amato non accetta l’idea stessa di autodeterminazione.

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1992. Amato è presidente del Consiglio. Viene intervistato dall’emittente cattolica Telepace. Sostiene che la vita «è un valore enorme. Se mettiamo in discussione questo, se non limitiamo a casi essenzialissimi le ipotesi in cui un essere umano può mettere in discussione la vita di un altro essere umano, allora viene meno proprio il fondamento della convivenza prima ancora che il fondamento della solidarietà».

 

Dunque, la vita va protetta «una volta che si è formata». In quello stesso anno, in commissione Giustizia viene approvato un emendamento di Carlo Casini (leader del Movimento per la vita) che estende la «protezione dell’ infanzia alla fase prenatale». Salto di secolo e di millennio. Negli anni Zero inizia la battaglia di Giuliano Ferrara, culminata nella presentazione della lista elettorale “Aborto? No grazie”, e peraltro mai terminata. In mezzo, tanti episodi che forniscono il clima.

 

Nel settembre 2011 a San Giovanni in Fiore (Cosenza) il parroco Don Emilio Salatino decide di suonare le campane a morto ogni volta che in città viene praticato un aborto. Due mesi prima, il presidente della Regione Piemonte Cota aveva proposto un protocollo, bocciato dal Tar e riproposto sotto altra forma «per il miglioramento del percorso assistenziale per la donna che richiede l’interruzione volontaria di gravidanza». Il miglioramento prevedeva l’inserimento nei consultori di associazioni no-choice. Sempre all’inizio degli anni Dieci, le ginecologhe di alcuni consultori torinesi si rifiutano di affiggere un manifesto del Centro aiuto alla vita, con un feto e la scritta: «Mamma, ti voglio bene». Stesso mese, stessa città. Tre volontari dell’Associazione Ora et Labora in Difesa della Vita si muniscono di una croce che al posto dei chiodi ha feti di plastica e diffondono volantini dove il feto parla in prima persona alla madre che lo uccide. Fermano le donne, tutte le donne. Sfileranno a Roma, in un giorno di maggio 2012 (lo stesso della festa della mamma), con quelle stesse croci, ricordando alle donne che abortiscono, le assassine, che le loro anime bruceranno all’inferno.

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E dunque, care e cari smemorati, il problema c’è sempre stato. Per paura. Forse per il timore occidentale della crescita zero. Di certo per la mancata accettazione di quanto le donne siano cambiate, siano determinate e più forti di prima. Paura, certo: non è per questo che si uccidono le mogli e le fidanzate che abbandonano? Quando lo si sottolinea, scatta lo scherno verso le femministe con le ascelle pelose, in tutti gli ambienti. Anche letterari, sì, certo.

 

Infine, un altro appello alla memoria. Quelle famose femministe non si sono mai distratte, in Italia e altrove. Ci sono sempre state anche se non sono sempre state narrate. Dal 1971 hanno rivendicato il diritto di scegliere se essere madri o non esserlo. Femministe di prima, seconda, terza, quarta ondata, settantenni e ventenni, con pratiche che si aggiornano e resistono, anche se nessuno se ne accorge (tranne le donne, evidentemente). Se si vuole citare Atwood, è bene ricordare che la scrittrice ha sempre sostenuto di non aver mai scritto nulla che non sia già accaduto. E che è pronto ad accadere ancora.