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Lavoratori della cultura, la metà non arriva a fine mese: «Guadagno meno di 6 euro l’ora»

di Chiara Sgreccia   26 gennaio 2023

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La denuncia di un ex dipendente del Chiostro del Bramante mette in luce un problema che affligge il settore da anni: paghe da fame, Partite Iva che mascherano il lavoro dipendente, contratti occasionali

Cinque euro e ottanta. È la paga oraria di Marco, ex-lavoratore del Chiostro del Bramante, a Roma. Inquadrato da contratto come guardasala anche se per la maggior parte del tempo spiegava ai visitatori le opere in esposizione. Nel contratto di collaborazione occasionale che ha firmato c’è scritto che le ore da lavorare ogni mese avrebbero dovuto essere sedici. «Invece erano in media 120», racconta mostrando l’excel con l’orario svolto, in base al quale riceveva uno stipendio di circa 700 euro.

La società Dart, che all’interno del Chiostro gestisce l’organizzazione di mostre e eventi di calibro elevato, come “Crazy, la follia dell’arte contemporanea” che ha ottenuto un grandissimo successo, non ha risposto alla richiesta de L’Espresso di esplicitare le condizioni dei lavoratori.

Marco è un nome di fantasia. È laureato in Beni culturali, triennale e magistrale e vorrebbe lavorare come guida turistica, «ma siamo tutti sulla stessa barca» confessa. «Accettiamo le uniche condizioni che ci vengono offerte perché posti di lavoro nel settore non ci sono». A Roma non si faceva un concorso per lavorare nei musei e nelle biblioteche della città da otto anni. Per quello indetto da Zétema, società in house di Roma Capitale, sono arrivate fin ora - ma c’è tempo fino al 31 gennaio - quasi 12 mila domande per l’assunzione di 77 persone a tempo indeterminato.

«Tu sei fortunato», gli dicono spesso i suoi ex colleghi d’università. «“Perché, almeno, lavori in un museo". Anche se quello che guadagno non mi permette di mantenermi. Anche se non ho avuto un weekend libero per mesi. Anche se ho lavorato a Natale, alla viglia, l’ultimo dell’anno, il primo. Per 7 euro l’ora». Perché così vale il tempo dei lavoratori nei festivi, non solo secondo Dart.

La situazione, infatti, è la stessa per tanti lavoratori della cultura anche nel resto d’Italia. A Trieste gli addetti alla sicurezza dei Musei Civici sono in sciopero da sabato 21 gennaio perché guadagnano 5 euro lordi l’ora e l’azienda respinge la richiesta di aumento fatta anche a fronte dei compiti che svolgono i lavoratori, come la gestione della biglietteria, la responsabilità di cassa, l’assistenza dei visitatori e la spiegazione delle opere esposte.

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A Firenze, i lavoratori esternalizzati dei Musei Civici, in particolare della cooperativa Rear e dell’associazione Mus.e, avevano mandato una lettera al Sindaco per rispondere alla richiesta di restare aperti anche il giorno di Natale. Hanno scritto: «Nel caso dei servizi di accoglienza e sorveglianza, i più fortunati tra noi guadagnano poco più di 7 euro all’ora, altri anche a meno, con contratti a chiamata o part-time, spesso imposti, che raramente superano le 30 ore settimanali».

«La precarizzazione del lavoro culturale è conseguenza della legge Ronchey, perché ha portato alla deresponsabilizzazione della pubblica amministrazione e a un sistema contrattuale che funziona solo abbassando il costo del lavoro», spiega Rosanna Carrieri, attivista dell’associazione Mi Riconosci che periodicamente pubblica indagini sulla condizione di chi è occupato nel settore dei beni culturali. L’ultima è appena uscita, il 14 gennaio, proprio in occasione dei trent’anni della legge che ha stabilito di esternalizzare i servizi di musei e biblioteche e sancito la possibilità di utilizzare volontari a integrazione del personale.

Come si evince dall’indagine di Mi Riconosci, il 75 percento dei professionisti della cultura in Italia lavora nel privato. La maggior parte usa la Partita Iva per mascherare il lavoro dipendente. Mentre la tipologia di contratto più diffusa è quella dei multiservizi che permette, molto spesso di dare ai lavoratori retribuzioni poco dignitose. Infatti, la metà degli intervistati dichiara di guadagnare meno di 10 mila euro l’anno. Il 54 percento dice di non ricevere compensi sufficienti per vivere. Come conferma anche l’indagine di Almalaurea che fa focus sulla professione di guida turistica, la paga mensile media netta è di 982 euro. Il tasso di occupazione post-laurea triennale è del 33 percento.

Secondo la professoressa di Archeologia classica dell’Università Roma Tre, Giuliana Calcani, la situazione dei lavoratori nel settore dei beni culturali di oggi è catastrofica a causa di un vizio d’origine: «In Italia pensiamo alla cultura come se fosse un’attività solo per il tempo libero, avulsa dalla vita reale della società e da non contaminare con le dinamiche economiche. A cui accedono i più colti e i più facoltosi. Questo fa sì che spesso chi studia beni culturali lo faccia mosso da una forte una spinta ideale che, però, purtroppo porta anche a accettare condizioni di lavoro sottopagato. Questo, per riflesso, rinforza il luogo comune secondo cui è un “privilegio” occuparsi di beni culturali. Non è così: archeologi, guide, storici dell’arte sono professionisti che devono essere adeguatamente retribuiti per il lavoro che svolgono. Come l’idraulico o il medico».

Per Calcani serve un cambio di mentalità per migliorare le condizioni del settore, a partire dalla formazione. «Quello che definiamo patrimonio culturale è un insieme di opere create da artisti e per committenti, il cui scopo è sempre stato di essere conosciuti e apprezzati da un numero più ampio possibile di persone. L’università deve formare professionisti della cultura che rispondano alle necessità reali della società. L’essere umano trova giovamento dalla frequentazione delle opere d’arte, questo è un valore sociale».

Il punto, quindi, è far entrare in un circuito di normalità la necessità di avere la nostra dose di cultura. Rendere accessibile il costo del biglietto per accedere ai musei potrebbe essere un passo.