Migranti
Sono passati 10 anni dalle stragi di Lampedusa. E ha vinto l’indifferenza
Il 3 ottobre 2013 morirono 368 migranti al largo dell’Isola. Altri 268 una settimana dopo. Sull’onda della reazione emotiva prese avvio l’operazione Mare Nostrum. Poi è stata sospesa e oggi proteggere i confini è diventato più importante della salvaguardia della vita umana. Cronaca di un fallimento politico, umano e culturale che va avanti da un decennio
L’acqua si alza, il motore si spegne, le persone a bordo sono strette. Troppe per lo spazio a disposizione. Molti sono minori, alcuni sono feriti. Non servono a niente le sei telefonate che un medico siriano fa, dall’imbarcazione, al centro di coordinamento del soccorso marittimo italiano-Imrcc descrivendo nel dettaglio la situazione.
Nonostante la presenza di diverse navi militari italiane nelle vicinanze, in particolare della nave Libra a 20miglia di distanza, le autorità si rifiutano di coordinare il soccorso. Ma non solo: omettono di fornire informazioni complete alle autorità maltesi, responsabili per l’area Sar (search and rescue) in cui si trovava il barcone. E ordinano alle proprie navi di allontanarsi visto che l’imbarcazione in pericolo si trovava fuori dalla zona di competenza italiana.
Così, venerdì 11 ottobre 2013, alle 17.05 il peschereccio partito dalla costa di Zaura in Libia si è capovolto. Ed è affondato a 60 miglia a Sud di Lampedusa. 268 siriani sono morti, tra questi una sessantina di bambini. 212 i superstiti. «La strage sarebbe la drammatica conseguenza di un'operazione di contrasto all'emigrazione verso l'Europa da parte di una motovedetta della polizia o della guardia costiera libica. Alcuni sopravvissuti riferiscono infatti che poco dopo la partenza il barcone è stato intercettato da una motovedetta dalla quale sono state sparate raffiche di mitra. Prima in aria, poi ad altezza d'uomo, tanto che alcuni passeggeri sarebbero stati uccisi. Quindi i militari hanno mirato allo scafo. Le pallottole hanno forato le fiancate di legno e da quel momento, raccontano sempre i superstiti, il vecchio peschereccio ha cominciato a imbarcare acqua», scriveva Fabrizio Gatti su L’Espresso il 14 ottobre del 2013.
Per “la strage dei bambini” - così è tristemente nota - il comitato Onu per i diritti umani nel 2021 ha condannato l’Italia. Per non aver protetto il diritto alla vita di ogni persona, anche se il naufragio è avvenuto in acque internazionali e nella zona Sar di un altro Stato. A dicembre 2022 anche il tribunale di Roma si è pronunciato: ha dichiarato la prescrizione dei reati. Ma ha al contempo accertato le responsabilità di Leopoldo Manna, comandante responsabile della sala operativa della Guardia Costiera, e Luca Licciardi, capo della sala operativa della squadra navale della Marina Militare, imputati per i reati di rifiuto di atti di ufficio e omicidio colposo.
«Queste pronunce appaiono fondamentali per contrastare la narrazione e soprattutto le pratiche dei governi italiani, e in particolare di quello attuale, che vanno in effetti nella direzione sanzionata: quella di evitare ad ogni costo l’intervento delle amministrazioni italiane, mettendo a rischio la vita di chi si trova in pericolo nel Mediterraneo, grazie ad una interpretazione formalistica delle norme sulla distribuzione di compiti e responsabilità in materia di soccorso in acque internazionali, attraverso un utilizzo strumentale delle regioni Sar e la sovversione dei principi del diritto internazionale del mare e dei diritti umani», spiegano gli avvocati di Asgi- associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione.
Il naufragio del peschereccio pieno di siriani che scappavano dalla guerra, del 11 ottobre 2013, è avvenuto mentre ancora nelle acque di Lampedusa si cercavano i corpi di un altro naufragio, avvenuto la settimana prima, il 3 ottobre 2013, quando un peschereccio, salpato dal porto libico di Misurata, si è rovesciato a circa mezzo miglio dalla costa. A bordo c’erano almeno 500 migranti, per la maggior parte di origine eritrea, 368 sono morti: una delle più gravi catastrofi nel Mediterraneo dall’inizio del XXI secolo.
Quindici giorni dopo il naufragio di Lampedusa, sette da quello dell’11 ottobre, anche come reazione alle tragedie che portarono alla morte di oltre 600 persone in una settimana, con lo scopo di «fronteggiare lo stato di emergenza umanitaria in corso nello Stretto di Sicilia», è iniziata l’operazione Mare Nostrum per la salvaguardia della vita in mare e per assicurare alla giustizia i trafficanti di esseri umani. Un'operazione che ha salvato la vita a oltre 160 mila migranti provenienti dall’Africa, grazie alle navi della Marina militare autorizzate a intervenire a ridosso delle coste libiche.
Con Mare nostrum, la “porta d’Europa”, Lampedusa, aveva smesso di essere l’approdo principale dei migranti che venivano, invece, salvati in mare. Ma alla fine del 2014 l’operazione venne sospesa e sostituta con l’europea Triton che ha ristretto lo spazio di soccorso e puntato sulla protezione dei confini. Nel 2015, a settembre, l’immagine di Alan Kurdi, il bambino siriano ritrovato senza vita sulla spiaggia di Bodrum in Turchia, ha riaperto gli occhi e il cuore dell’Europa sulla crisi dei migranti e portato alcuni Stati, come la Germania, a sospendere il regolamento di Dublino per farsi direttamente carico delle richieste d'asilo dei profughi siriani arrivati lungo i confini Ue. La strategia di contrasto all’immigrazione illegale, però, volta più a favorire la sicurezza delle frontiere che delle persone, ha continuato a caratterizzare anche le operazioni in mare successive a Triton, come Themis, Sophia e Irini e definisce le politiche europee ed italiane ancora oggi: nuove forze di pattugliamento, supporto ai centri di detenzione, protezione in loco dei rifugiati, rimpatri, a cui si aggiungono i finanziamenti e i patti stretti con i paesi africani che accettano di cooperare per gestione dei migranti. In modo che non arrivino fino ai confini europei.
Secondo The big wall, un’inchiesta di ActionAid del 2021 sulla spesa per il contrasto all’immigrazione irregolare, dal 2015 l’Italia ha speso oltre un miliardo di euro di fondi propri o comunitari per fermare gli sbarchi nel Mediterraneo. Ma solo una piccolissima parte di questi, poco più di 7 milioni, è stata dedicata al supporto della migrazione legale, una modalità quasi impossibile per accedere all’Europa.
Così, a dieci anni dai naufragi a largo di Lampedusa, visto che non esiste una missione attiva, italiana o europea, di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale, e l’operato delle Ong è lento e complesso a causa dall’assegnazione di porti ogni volta diversi e lontani, in mare si continua a morire: almeno 28mila i migranti morti o dispersi dal 2014 nel Mediterraneo, secondo l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni. E Lampedusa è tornata a essere la meta degli arrivi di tante imbarcazioni che partono soprattutto da Libia e Tunisia.
«In un’epoca in cui l’indifferenza e la disinformazione possono rapidamente diluire l’impatto emotivo di una tragedia servono richiami potenti alla nostra responsabilità collettiva. Affinché la memoria non sia solo un atto di ricordo, ma anche uno strumento per l’azione e il cambiamento», spiega Giulia Tornari, presidente dell'associazione culturale Zona, a proposito della mostra “La memoria degli oggetti. Lampedusa, 3 ottobre 2013. Dieci anni dopo”. Costruita attraverso le immagini del fotografo italomarocchino Karim El Maktafi e allestita al Memoriale della Shoah di Milano: «Oggi quella scritta indifferenza voluta all’ingresso del Memoriale da Liliana Segre deve spingerci a una riflessione profonda sul nostro presente, su come vogliamo vivere l’essere comunità umana, sull’indifferenza che dobbiamo noi per primi superare - ricorda Marco Vigevani, presidente Comitato Eventi della Fondazione Memoriale - Abbiamo una responsabilità: chiedere, informarci, sensibilizzare, stimolare momenti di riflessione».