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Attualità
ottobre, 2023

Cortese e Saguto, l'uno-due della Cassazione che manda al tappeto il senso comune

La Suprema Corte ha rinviato a nuovi processi la zarina dei beni confiscati condannata a 8 anni e il superpoliziotto assolto per il caso Shalabayeva. Minando ancora di più la credibilità del sistema giudiziario

Con un formidabile uno-due, la Cassazione ha rinviato ad altrettanti nuovi processi il verdetto sulla giudice Silvana Saguto, zarina dei beni confiscati, condannata in appello per corruzione e tentata concussione e per Renato Cortese, il superpoliziotto, assolto in secondo grado dall’incredibile accusa di sequestro di persona di Alma Shalabayeva e della figlia Alua, che gli era costata la poltrona da questore di Palermo.

 

Le due vicende non hanno punti in comune se non la tragica parabola giudiziaria che nello stanco protrarsi di vicende, un tempo clamorose, allontana l’idea di una certezza del diritto che corrisponda a una opinione diffusa. Si sa che il giudizio non deve essere in alcun modo popolare, ma quando sembra fare a pugni con la logica e una sensibilità prevalente, occorrerà un surplus di dottrina per spiegare come si è potuti arrivare a questo punto.

 

Nel caso di Saguto, si trattava, in soldoni, di risparmiare all’ormai ex magistrata l’onta di una lunga carcerazione, dopo la radiazione dall’ordine di giudiziario. Così, tra prescrizioni e colpi di scure definitivi nel merito, sembra proprio che all’appello bis si andrà quantomeno a dimezzare, se non a ridurre a un terzo, la condanna a 8 anni e 10 mesi che l’avrebbe lasciata in cella a lungo. Per adesso, l’esecuzione della pena nella parte confermata, decisa dai giudici di Caltanissetta, la conduce in cella dalla clinica in cui era ricoverata. Secondo i magistrati di Caltanissetta dovrà attendere da detenuta la rideterminazione della pena che al momento, nonostante la “grazia” parziale della Cassazione, eccede i quattro anni. La battaglia legale sul punto è appena cominciata.

 

Ma, al di là del destino dell’ennesima star dell’antimafia spettacolo - precipitata dagli altari di confische milionarie che avevano fatto della sezione misure di prevenzione di Palermo la prima industria della città alla polvere di sacchi della spesa e soldi dirottati a casa della magistrata - resta un danno, incalcolabile, fatto al sistema della lotta ai patrimoni mafiosi. Perché alcuni di quelli che hanno perso tutto nei procedimenti avviati e conclusi da Saguto sono vere vittime di un sistema che si è fatto sbrigativo e sommario per calcolo e interesse.

 

In nome di questi, altri che non hanno alcun titolo per dirsi innocenti, però, invocano revisioni non solo dei propri processi ma dell’intero impianto della legge che li ha resi possibili. E si tratta della legge che porta il nome postumo di Pio La Torre, il segretario regionale del Pci ucciso nel 1982, che periodicamente i governi di destra di turno, questo compreso, tentano di riformare. Ecco, la vicenda Saguto - incarichi a gogo a una ristretta cerchia di amministratori giudiziari amici, o necessari per conseguire altri scopi, privilegi e prebende, soldi a ripianare i conti di una cerchia familiare irresponsabilmente dispendiosa - dà fiato alle trombe dei revisionisti mascherati da garantisti.

 

Tutt’altra storia quella di Renato Cortese, il cacciatore di latitanti che stanò dopo otto anni di caccia Bernardo Provenzano, ammanettandolo a conclusione della più longeva fuga nella storia di Cosa nostra. Considerato uno dei più brillanti investigatori italiani, votato a una carriera che lo avrebbe portato ai vertici della polizia, resta imbrigliato, ostaggio, di una vicenda surreale. Per i giudici di appello che lo hanno assolto, si tratta di un «romanzo senza prove». Per quelli di primo grado che gli hanno affibbiato addosso l’etichetta di rapitore, di «alto tradimento».

 

Il libro
L’ostaggio, il poliziotto Renato Cortese nella trappola del caso Shalabayeva
30-09-2022

 

In sintesi: nel maggio del 2013 gli uomini della squadra mobile di Roma diretta allora da Cortese, insieme con personale della Digos fanno irruzione in una villa di Casal Palocco a Roma per arrestare il latitante kazako Muktar Ablyazov, ricercato dall’Interpol con l’accusa di aver svuotato la banca del suo Paese. Ablyazov, ricco e potente, è passato da lì ma fiutando aria di manette, è riparato in Francia dove verrà arrestato qualche settimana dopo. Si definisce un dissidente costretto alla fuga, dopo essere transitato dal comodo ruolo di oligarca, arricchitosi all’ombra della fine del blocco sovietico, a ministro dell’Economia, sodale dell’allora presidente. Con il quale però è entrato in rotta per ragioni di mazzette. Nel tempo a volerlo interrogare sono le procure di mezzo mondo, Stati Uniti compresi per certi affari che portano fino a Trump.

 

Nella villa di Casal Palocco con altri parenti e i domestici ci sono la moglie e la figlia di Ablyazov, Alma Shalabayeva e la figlia Alua. La signora esibisce un passaporto falso rilasciato dalla Repubblica Centroafricana, la procura di Roma, certifica che il titolo per stare in Italia è falso, la signora non chiede asilo e non rivela mai la propria identità. La rappresentanza diplomatica kazaka chiede che venga trasferita nel suo vero Paese d’origine. L’ufficio immigrazione, dopo la convalida del trattenimento presso il Cie da parte di un giudice di pace, procede alla consegna della donna e della figlia ai kazaki.

 

Questo il fatto. Già dalla sera del rimpatrio, la narrazione diverrà la seguente: l’Italia per compiacenza verso un governo amico di Vladimir Putin, ha consentito la consegna a un regime illiberale di una donna e di una bambina che rischiano la vita. Il tempo politico è quello delle larghe intese. Al governo di Enrico Letta siede da ministro dell’Interno Angelino Alfano, enfant prodige del nuovo centro destra e delfino berlusconiano designato.

 

Parte una tempesta, dal Pd ai radicali, fino ai Cinquestelle, diretta a colpire il ministro che però fa dimettere il suo capo di gabinetto, scaricando la polizia. Mancato il bersaglio grosso, nella rete di una vicenda mai provata, la consegna illegale ai kazaki per compiacenza, restano solo i poliziotti.

 

Il più noto dei quali è Cortese. Poco importa che i suoi uomini abbiano partecipato solo all’irruzione, che il poliziotto abbia solo eseguito il blitz e la perquisizione e il resto sia il risultato della procedura prevista dalla legge sull’immigrazione. La tempesta mediatica dura tre mesi, durante i quali Ablyazov finirà in cella con un blitz delle teste di cuoio francesi, in attesa di estradizione, e la moglie, mai arrestata nel suo Paese, tornerà in Italia con il suo vero passaporto. Incassando, quel che sembra il vero fatturato di Ablyazov: dipingersi universalmente come un perseguitato, insieme con la famiglia.

 

Cortese da indagato, come gli altri colleghi coinvolti, proseguirà nel suo percorso, fino a diventare questore di Palermo quando, condannato a Perugia in primo grado a 5 anni, il doppio di quanto richiesto dall’accusa, dovrà dimettersi e restare a bagnomaria. Soltanto quest’anno, dopo l’assoluzione di appello, è arrivata la nomina a prefetto ma senza incarichi di prima linea. Adesso dovrà sottoporsi a un nuovo giudizio a Firenze. Nonostante mai, in nessun passaggio dei processi, sia solo comparsa l’ombra di una prova della volontà di rapire la Shalabayeva e la figlia e consegnarla ai kazaki. Nonostante i giudici del tribunale non abbiano mai voluto ascoltare i pm di Roma che certificarono il falso passaporto. Nonostante fosse stato proprio Cortese a indicare ad uno dei componenti del nutrito stuolo di avvocati della donna il pm a cui rivolgersi per far valere le ragioni della sua assistita ed evitare il rimpatrio.

 

Così, se la decisione della Cassazione su Saguto inevitabilmente evoca lo spettro della benevolenza, parzialmente “corretta” da Caltanissetta, su Cortese il fantasma è opposto. Perché questa, invece, è la storia di uno straordinario corto circuito per i media, per la politica e per la magistratura, complici i regolamenti dei conti consumati a distanza tra uffici giudiziari, sulla pelle degli imputati. In un caso e nell’altro, però, l’uno due della Cassazione, manda al tappeto il senso comune.  

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