L’università

Studenti suicidi schiacciati dal peso della performance: «Ma eccellere non è prendere 30 agli esami»

di Chiara Sgreccia   14 febbraio 2023

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Sono preoccupati per il futuro, terrorizzati dal mondo del lavoro e incassano solo delusioni. Nei loro messaggi d’addio si definiscono “falliti”. Ma a partire dalle loro tragedie va ripensato il modello universitario: «Cominciamo a premiare le differenze».

A vent’anni non si dovrebbe credere di aver fallito. Non in modo così drastico da farla finita. Eppure succede. «Fallimento, università e politica», ha scritto nel suo messaggio d’addio un ventiduenne studente di Economia all’università di Palermo. Si è tolto la vita a una settimana dalla sessione d’esame, lo scorso 15 gennaio. In pochi ne avevano parlato. Almeno fino a quando la tragedia della studentessa di 19 anni, che la mattina del primo febbraio è stata trovata morta nel bagno dell’università Iulm che frequentava, a Milano, non ha riaperto il dibattito sul malessere degli studenti. Anche lei, prima di fermarla, aveva definito la sua vita «un fallimento».

 

Il caso
Studentessa di 19 anni si suicida nella sua università: «La mia vita è un fallimento»
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«Non si può morire di università. Contro un merito che ci uccide», ha scritto l’Unione degli universitari di Palermo sullo striscione vicino al dipartimento di Economia. «Rompiamo il silenzio», hanno gridato quelli del collettivo Cambiare Rotta di Milano. Per ricordare «che quanto è successo non è un caso isolato». 

 

Nel 2022 sono stati almeno tre i suicidi tra gli universitari. A pesare nella loro scelta anche la percezione di inadeguatezza nelle tappe che scandiscono il percorso di studi. Altri due in un solo mese nel 2023. Sintomo che sempre più studenti si sentono schiacciati dal mito dell’eccellenza, dalle difficoltà d’accesso al mondo del lavoro, dal peso di trovare un ruolo in una società che gli lascia poco spazio.

 

«All’interno dell’università ci sono le stesse logiche di competizione che regolamentano il mondo del lavoro -spiega Giorgia Salvati, studentessa di filosofia di 21 anni che fa parte di Cambiare Rotta - Tra noi studenti c’è una “guerra” nella speranza di poterci costruire un futuro dignitoso. Essere fuoricorso, ad esempio, è motivo di vergogna perfino con i compagni. Anche perché non significa solo dover pagare altre tasse che sempre meno persone possono permettersi, ma sentirsi esclusi da opportunità di impiego. Chi si laurea in anticipo o con il massimo dei voti fatica a trovare lavoro, figurarsi chi arriva in ritardo con gli esami».

 

La denuncia
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Come spiega Laura Parolin, presidente dell’Ordine degli psicologi della Lombardia, «tra le ragioni per cui gli studenti soffrono c’è il peso dell’eccellenza: come se essere eccellenti, o eccezionali, fosse l’unico segnale possibile di successo. Questo tipo di educazione lascia fuori non solo ciò che non funziona ma anche tutto quello che è medio, normale. Generando la sensazione, in chi non raggiunge il massimo, di aver fallito. E, come conseguenza, l’incapacità di tollerare l’insuccesso. Che invece costituisce un valore nel processo di crescita personale, perché permette di ripensare, ripartire, ricostruire».

 

Per Parolin, «il 30 all’esame, la laurea in tempo sono parametri rigidi. Guidano una generazione poco abituata a scoprirsi, a pensare ai propri talenti, a premiare le differenze».

Il caso
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Il successo, insomma, come unico standard, uguale per tutti. Anche per Laura Nota, presidente della Sio, la Società italiana orientamento, «chi si occupa di indirizzare le scelte dei ragazzi non dovrebbe indicare la direzione, ovvero una professione o una scuola, ma partecipare alla costruzione del loro futuro. Per questo serve fornirgli strumenti per comprendere criticamente la realtà e trasformarla».