I dati dell'ultimo barometro dell'odio di Amnesty mostrano come sempre più persone non credano nell'utilità delle proteste, mentre anche i Tg si concentrano su danni e disservizi e sempre meno sulle ragioni dei manifestanti. E online crescono i discorsi d'odio: movimenti e attivisti i più colpiti dall'hate speech

«Ecoteppisti», «ragazzini», «terroristi». Quanti modi per banalizzare la disobbedienza civile. E la questione non è solo di distorsione semantica, ma anche della pericolosa trasformazione che un discorso, pubblico e privato che sia, può subire attraverso la narrazione che ne viene fatta. 

 

Al governo le piazze non piacciono. Lo ha messo in chiaro con il “decreto Rave party”, convertito in legge a fine dicembre 2022. Un primo tentativo di criminalizzare un certo tipo di raduni. Dal gennaio di quest’anno, a quelle già esistenti, si aggiungono pene per punire l’attivismo pacifico che prende come obiettivo beni culturali o paesaggistici. E nel frattempo, l’uso della forza da parte delle forze dell’ordine è diventato il filo rosso di un’escalation repressiva, che ha caratterizzato gli ultimi mesi. Prima a Napoli, poi a Firenze, Bologna, Roma. Insomma, ovunque si esprima dissenso. 

Ma le motivazioni di chi scende in piazza non sembrano interessare i più. E sono sempre meno rappresentate dai media mainstream. Come riporta uno studio di Amnesty International in collaborazione con Ipsos, in 333 servizi andati in onda in prima serata nei Tg, e analizzati nel rapporto, la maggior parte delle volte il focus viene spostato «sui danni alle cose – anche se solo temporanei – o sui disagi per le persone, oppure sull’ordine e la sicurezza pubblica, senza approfondire i temi oggetto di rivendicazione». Nel 68 per cento delle notizie analizzate non emerge alcuna valutazione editoriale, né positiva né negativa. E se ci sono, quasi in un servizio su tre, le considerazioni sono negative «e quasi sempre sui servizi sull’attivismo climatico». 

 

Ma la lotta, oggi più che mai, non si fa solo scendendo per le strade della città. «Ogni tanto si sente dire che il vero attivismo è quello che si fa in piazza, che online è troppo facile. Alle persone che dicono che online è troppo facile - racconta Irene, attivista digitale per la giustizia di genere - vorrei far pagare le fatture della mia terapeuta o di quando prendevo gli psicofarmaci. Così poi facciamo una chiacchierata su quanto sia facile l'attivismo online. Perché ovviamente più pubblico hai, più è facile che ti arrivi odio. È proprio una questione statistica». Una questione statistica dimostrata anche dai dati raccolti da Amnesty e Ipsos. In Italia, dal 2019 ad oggi, il tasso di discorsi offensivi, discriminatori o che incitano all’odio è passato dal 10 per cento al 15 per cento. Su cinque post di Facebook selezionati tra quelli che hanno generato più incitamento all’odio e alla discriminazione, quattro sono del vicepresidente del Consiglio Matteo Salvini

 

 

Su 21.970 contenuti analizzati su Facebook, il 55 per cento è neutrale o positivo, il 28 negativo non problematico e il 15.4 per cento rientra nella casistica dei commenti problematici, ovvero offensivi e/o discriminatori. Di questi, il 3.4 per cento costituisce hate speech, quindi espressioni d'intolleranza rivolte contro minoranze e che mirano a incitare odio, pregiudizio e paura nei confronti di un gruppo o di un individuo. Se nei profili dei personaggi politici c'è un'incidenza media più alta di commenti problematici, in quelli del mondo dell'attivismo abbondano parole d'odio. Ma non sono gli unici a essere bersagliati. Immigrazione, diritti delle donne e diritti Lgbtqia+ infatti sono i temi più attaccati online. Anche il diritto alla protesta viene fortemente osteggiato: quattro contenuti su dieci sono problematici

 

Un lessico familiare anche a chi riveste ruoli istituzionali. «È necessario introdurre misure e sanzioni economiche - ha commentato il segretario del Siulp Felice Romano - unitamente a white e black list, per evitare che coloro che hanno scelto per professione di disturbare o organizzare manifestazioni di piazza al solo scopo di dare sfoggio alla propria violenza, possa continuare a farlo infischiandosene delle ragioni spesso nobili da cui scaturiscono tali manifestazioni». Mentre Matteo Salvini minaccia «conseguenze per chi ha bloccato i treni a Bologna» e auspica «l’identificazione di tutti i partecipanti» alla manifestazione in difesa del popolo palestinese. Nel frattempo però la Questura della città ha già annunciato che nonostante «la grave condotta, penalmente rilevante, non ha sortito danni a persone e cose». Mentre sono stati identificate già venti persone, di codici identificativi sulle uniformi delle forze dell’ordine però non se ne vuole parlare

 

E l’opinione pubblica offline cosa ne pensa? Il 59 per cento delle persone intervistate ha partecipato almeno una volta nella vita a una manifestazione di protesta. Una persona su cinque inoltre non è convinta del fatto che nel nostro paese chiunque debba avere diritto a manifestare. La maggior parte però (il 72 per cento) riconosce l’importanza di alcune proteste, perché capaci di portare cambiamenti importanti. Per quasi la metà dei rispondenti alcune persone parteciperebbero alle manifestazioni perché si tratta di una moda, un atteggiamento e un passatempo. Rispetto all’accettabilità delle varie forme di protesta le meno apprezzate sono il blocco stradale e l’occupazione. La repressione però non è solo dall’alto. Anche per il 77 per cento degli intervistati le azioni di protesta che colpiscono simboli di interesse pubblico - pur non arrecando danni permanenti - andrebbero represse. «La protesta - racconta Pasquale, attivista della task force Hate speech di Amnesty - viene considerata come atto violento: c'è la percezione diffusa che protestare sia l'occasione per fare confusione, per danneggiare cose o persone. Non viene percepita come uno strumento che è utile per il cambiamento e quindi per il miglioramento».