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Joe Biden si ritira dalla corsa alla Casa Bianca e appoggia Kamala Harris: "Battiamo Trump"

di Simone Alliva   22 luglio 2024

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Philadelphia, il presidente USA Joe Biden in campagna elettorale. Nella foto con la vicepresidente Kamala Harris

Gli Houthi minacciano Tel Aviv. In Ucraina, l'esercito russo prende altri 2 villaggi. La lite Forza Italia-Lega logora il Governo. Giornalista aggredito da Casapound. Oggi l'incontro tra Meloni e il neopresidente del Consiglio Europeo Costa. I fatti da conoscere

Biden si ritira e appoggia Harris: "Battiamo Trump"
Joe Biden si ritira dalla corsa alla Casa Bianca, appoggiando la vicepresidente Kamala Harris come sua sostituta per "battere Donald Trump". Dopo settimane di passione e di pressing da parte del partito, il leader americano ha annunciato in una lettera postata a sorpresa su X il suo passo indietro, dopo aver assicurato fino a qualche ora prima che non avrebbe mollato. "È stato il più grande onore della mia vita servire come presidente. E anche se era mia intenzione cercare la rielezione, credo che sia nel miglior interesse del mio partito e del Paese ritirami e concentrarmi solamente sui compiti da presidente per il resto del mandato", ha scritto Biden nella missiva indirizzata agli americani, ai quali parlerà la prossima settimana per spiegare le motivazioni del suo ritiro.

Il pressing sul presidente è iniziato dopo la sua disastrosa performance al dibattito tv con Donald Trump del 27 giugno. Da allora è stato un crescendo di richieste. Dall'ex speaker della Camera Nancy Pelosi all'ex presidente Barack Obama, passando per i leader del Congresso Chuck Schumer e Hakeem Jeffries. Una pressione divenuta insostenibile con il passare dei giorni. Il Covid che lo ha poi costretto all'isolamento negli ultimi giorni, strappandolo alla campagna elettorale, è stato il colpo definitivo, mostrando un presidente fragile e debole e rafforzando l'idea che le sue chance di vincere in novembre fossero ormai ridotte al lumicino.

Durante l'isolamento a Rehoboth Beach, nella sua casa al mare del Delaware, Biden ha riflettuto nella sua solitudine. E solo domenica mattina ha comunicato al suo staff la sofferta decisione di ritirarsi: fino a sabato infatti il presidente aveva pubblicamente annunciato di essere determinato a continuare a correre, o quantomeno ad attendere la visita a Washington del premier israeliano Benyamin Netanyahu. I due leader dovrebbero incontrarsi martedì alla Casa Bianca, mentre mercoledì Netanyahu è atteso intervenire in Congresso. Schumer ha lodato il passo indietro del presidente, definendolo un "grande patriota". L'ex capo dello staff di Biden Ron Klain invece ha puntato il dito contro i "donatori che hanno spinto fuori dalla corsa l'unico candidato che ha mai battuto Trump". Mentre l'ex presidente e ormai anche ex rivale verso novembre non ha perso un minuto per attaccare Biden e l'establishment che l'ha avuta vinta e lo ha spinto a lasciare. "Il disonesto Joe Biden non era idoneo a candidarsi alla presidenza, e certamente non è idoneo a servire - e non lo è mai stato! Ha raggiunto la posizione di presidente solo grazie a bugie, notizie false e senza lasciare il suo seminterrato. Tutti coloro che lo circondavano, compreso il suo medico e i media, sapevano che non era in grado di essere presidente, e non lo era", ha tuonato Trump sul suo social Truth. Lo speaker repubblicano della Camera, Mike Johnson, ha chiesto invece a gran voce le dimissioni immediate di Biden dalla presidenza perché "se non è in grado di correre, allora non è in grado neanche di servire da presidente".

I riflettori ora sono tutti puntati su Harris, la vicepresidente mai tanto amata dal suo partito e dagli elettori e che ora è la candidata in pole, se le varie anime del partito democratico non le faranno la guerra. Uno dei primi e maggiori nodi da sciogliere è chi sarà il suo vice. Alcuni donatori dem hanno già iniziato a finanziare un processo di valutazione dei possibili numeri due. Nella lista dei papabili ci sarebbero i governatori della Pennsylvania Josh Shapiro e del Kentucky Andy Beshear. L'interesse però è anche sui governatori della North Carolina Roy Cooper e del Michigan Gretchen Whitmer, ma anche sul senatore dell'Arizona Mark Kelly. Molti fra i democratici sognano un ticket tutto al femminile con Harris e Whitmer, altri invece temono che sia troppo rischioso perché l'America non potrebbe essere pronta a un presidente e un vicepresidente donna. Da stasera per l'America inizia un'altra campagna elettorale.

 

In Medio Oriente un nuovo fronte in fiamme: gli Houthi minacciano Tel Aviv
Lo scontro con gli Houthi, alleati dell'Iran, si infiamma e l'esercito israeliano è convinto che questo diventerà sempre più centrale nella guerra multi fronti innescata dall'attacco di Hamas del 7 ottobre scorso. Il leader dei miliziani yemeniti Abdul Malik al Houthi, citato da Mayadeen news, ha minacciato che "il nemico israeliano non è più al sicuro in quella che viene chiamata Tel Aviv". "Gli Houthi dello Yemen continueranno ad attaccare Israele, non ci saranno linee rosse nella risposta a Israele", ha aggiunto ad Al Jazeera Mohammed Abdulsalam, portavoce del gruppo.

Nella prima reazione al raid dell'Idf sul porto yemenita di Hodeidah - che ha fatto 6 morti e circa 80 feriti - la tv Al Masirah degli Houthi ha riferito che sono stati lanciati missili balistici verso il porto di Eilat, estrema punta sud di Israele sul Mar Rosso. E che - ha aggiunto l'emittente - un'operazione navale, aerea e missilistica, ha colpito la nave americana Pumba sempre nel Mar Rosso. Israele ha quindi fatto sapere di aver intercettato un missile terra-terra diretto verso il territorio israeliano lanciato dallo Yemen. Secondo il portavoce militare, il missile non ha raggiunto il territorio israeliano e le sirene di allarme sono risuonate nella zona nell'eventualità che potessero ricadere frammenti causati dall'intercettazione.

Proprio per evitare che si possa ripetere quanto avvenuto, nella notte tra giovedì e venerdì, quando, senza che le sirene suonassero, un drone esplosivo - dopo aver percorso dallo Yemen circa 2.600 chilometri sul Mar Rosso e sul Mediterraneo - è caduto a Tel Aviv tra due edifici non lontani dalla sede locale dell'ambasciata Usa facendo una vittima. L'Idf e, in particolare, l'aviazione israeliana, stanno dunque prendendo in seria considerazione il dossier Houthi. E si sta preparando alla possibilità di dover attaccare altri obiettivi in Yemen. Per far fronte alle nuove minacce da Sanaa - dopo gli oltre 200 tra missili e droni lanciati contro Israele - l'aviazione è all'opera per allargare la difesa aerea del Paese, in particolare nella zona di Eilat e nel sud.

La convinzione dei vertici militari israeliani è che gli Houthi continueranno ad avere un ruolo attivo nella guerra, oramai passata da Hamas a Gaza agli Hezbollah libanesi, alle milizie pro Hamas di Iraq e Siria. La decisione di colpire il porto di Hodeida, da una parte, è dovuta - è stato spiegato da fonti militari - al fatto che gli Houthi avevano appena ricevuto armi fresche dall'Iran e, dall'altra perché quello scalo è una fonte di finanziamento economico per il gruppo terroristico. L'Idf ha diffuso un video sull'attacco a Hodeida di sabato che mostra i missili lanciati dagli aerei da guerra israeliani colpire 4 grandi gru per container nel porto utilizzate per scaricare le spedizioni. Insieme al video, l'Idf ha anche diffuso foto dei jet da guerra riforniti di carburante durante l'operazione e il rientro di alcuni aerei dopo l'attacco. Sulla situazione di estrema tensione nella regione è intervenuto il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres che si è detto "profondamente preoccupato per le notizie di attacchi aerei dentro e intorno al porto di Hodeida. E ha esortato tutti a dar prova della massima moderazione. Lo stesso ha fatto l'Arabia Saudita il cui ministero degli Esteri ha invitato alla "massima moderazione". Il raid - ha sostenuto Riad - "aggrava l'attuale tensione nella regione e ferma gli sforzi in corso per porre fine alla guerra di Gaza". Nel frattempo proseguono i tentativi per spegnere l'incendio principale a Gaza che con le sue scintille ha dato fuoco alla regione. Il premier Benyamin Netanyahu, alla vigilia del suo viaggio negli Usa - dove è previsto per martedì un incontro con il presidente Joe Biden, appena ritiratosi dalla corsa elettorale, e mercoledì l'intervento al Congresso - ha deciso il ritorno di una delegazione al tavolo dei negoziati tenuti dai mediatori di Usa, Egitto e Qatar per un nuovo cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi. 

 

Mosca prende altri 2 villaggi, tensione nel cielo Artico
Andriivka cade di nuovo. Un campo di battaglia a sé stante quello del villaggio nell'est dell'Ucraina dove ciclicamente viene issata l'una o l'altra bandiera dei fronti contrapposti. Un destino emblematico della situazione sul fronte ucraino dove il conflitto è un quotidiano botta e risposta. Così mentre da un lato Volodymyr Zelensky annuncia che nella notte i suoi "difensori del cielo" sono stati capaci di contrastare la pioggia di droni lanciata dall'esercito russo con "quasi 40 Shahed in una sola notte", dall'altro Mosca rivendica di aver preso il controllo di altri due villaggi ucraini in prima linea: Andriivka nella regione orientale di Lugansk e Pishchane nella regione nord-orientale di Kharkiv. E intanto sale la tensione nei cieli dell'Artico dove Mosca fa sapere di aver fatto alzare in volo Mig russi per contrastare l'avvicinarsi di due bombardieri strategici statunitensi B-52H al confine della Federazione.

Nel suo briefing quotidiano il ministero russo della Difesa ha reso noto che le sue unità hanno "liberato" i due insediamenti in Ucraina e hanno "occupato linee e posizioni più favorevoli". Ancora una volta Andriivka è caduta, dopo che le forze ucraine l'avevano riconquistata quasi un anno fa strappandola agli occupanti russi. A metà dello scorso settembre, infatti, Zelensky ne aveva celebrato la liberazione come "un risultato significativo e molto necessario per l'Ucraina", senza prevederne il destino altalenante. Da allora sono stati incessanti gli appelli di Zelensky agli alleati affinché forniscano armi e presto, appelli ai quali si aggiunge quello di poter ampliare "il raggio d'azione" per poter colpire i bombardieri nemici anche oltre il suo territorio.

"Quando l'aviazione russa lancia ogni giorno più di cento bombe guidate contro le nostre città e i nostri villaggi, contro le nostre posizioni in prima linea, abbiamo bisogno di una protezione affidabile contro di esse", si legge nel messaggio su Telegram in cui plaude all'abbattimento dei droni nella notte. "Questo è possibile se distruggiamo i vettori delle bombe: gli aerei militari russi. Un nostro sufficiente raggio d'azione dovrebbe essere una giusta risposta al terrore russo. E chiunque ci sostenga in questo senso, sostiene la difesa contro il terrore", conclude Zelensky. Intanto lungo il confine artico l'esercito di Vladimir Putin ha inviato degli aerei per respingere due bombardieri Usa che stavano per violare lo spazio aereo russo, ha reso noto il ministero della Difesa di Mosca: "Due caccia Mig-29 e Mig-31hanno impedito a due bombardieri B-52N dell'aeronautica americana di violare il confine di Stato. Quando gli aerei da guerra russi si sono avvicinati, i bombardieri Usa hanno corretto la loro rotta, allontanandosi dal confine russo". Quindi il ministero russo ha sottolineato: "Gli aerei da combattimento russi hanno effettuato il loro volo nel rigoroso rispetto delle norme internazionali sull'uso dello spazio aereo su acque neutre e con le dovute precauzioni di sicurezza prese".

 

FdI agli alleati: "Avanti col programma, basta bandierine"
Il duello tra Antonio Tajani e Matteo Salvini impensierisce il partito di Giorgia Meloni, che ora guarda con attenzione alle prossime mosse in Aula. Lo scontro tra gli alleati sul posizionamento europeo, nel quartier generale di FdI viene guardato per lo più con distacco, annoverato come l'onda lunga della campagna elettorale, come il dover spiegare ai propri elettori il rispettivo posizionamento. Ma il clima arroventato in maggioranza ha fatto subito accendere i riflettori su quanto accadrà in Parlamento, dove - a fronte dei numerosissimi decreti ancora da convertire - è necessario che i numeri restino solidi e le fibrillazioni non rallentino l'iter dei provvedimenti. Le scintille tra Salvini e Tajani? Meloni ufficialmente non parla, ma lo fanno i suoi. A spiegare apertamente la posizione che assumerà il partito è il vicecapogruppo di FdI al Senato (spesso il primo approdo dei principali provvedimenti del governo): "Registriamo una certa fibrillazione determinata dalla campagna elettorale per le europee, con qualche straccio che è volato per la scelta della presidente della commissione. Noi faremo il possibile affinché ci sia la piena disponibilità da parte degli alleati a realizzare il programma elettorale per cui siamo stati eletti nei tempi previsti. Abbiamo un calendario d'Aula fittissimo e delle riforme da portare avanti. Se dovessimo riscontrare una direzione diversa da questa, porremo una questione politica all'interno della coalizione". Solo una minaccia o una previsione concreta? Tutto dipenderà dall'andamento dei lavori. Per ora il vice presidente del gruppo si limita ad esortare tutti a "mettere da parte le bandierine" di partito "nell'interesse degli italiani". Se "i numeri resteranno solidi non registreremo alcun problema", gli fa eco - a microfoni spenti - un alto dirigente del partito. La preoccupazione è giustificata da un dato oggettivo: nelle Aule parlamentari il rischio inciampo è dietro l'angolo, spesso nascosto tra semplici odg o emendamenti. Sono una cinquantina, ad esempio, quelli presentati dagli azzurri al codice della strada di Salvini. Non è un mistero che il leader della Lega vorrebbe vedere uno dei suoi cavalli di battaglia approvati entro luglio, ma le dichiarazioni del capogruppo in Senato di FI Maurizio Gasparri fanno prevedere tempi più lunghi. "Ormai ci siamo rassegnati a un monocameralismo di fatto per i decreti perché c'è il discorso dell'urgenza - afferma - Ma almeno sui disegni di legge gli emendamenti chiediamo che vengano discussi ed esaminati. Abbiamo messo a punto una cinquantina" di proposte di modifica per il codice della strada "e siamo pronti anche a ridurne sensibilmente la portata. Però su questo disegno di legge, così come su altri, vogliamo poter parlare e dire la nostra".

Possibili distinguo potrebbero spuntare su diversi altri provvedimenti: dal dl carceri al ddl Sicurezza. FI ha già messo a verbale la sua contrarietà al carcere per le madri con figli piccoli, la Lega per ora mantiene in piedi - tra le altre cose - la discussa proposta per la castrazione chimica. Ancora da chiarire, infine, se la norma per il Salva Milano, uscita dal dl Casa per disaccordi in maggioranza, entrerà nel decreto Infrastrutture. E poi c'è il tema della guerra in Ucraina e delle armi. Il ministro della Difesa Guido Crosetto tira una linea netta in un'intervista con La Stampa: "non ho tempo - dice - di discutere con gente che si posiziona a seconda dei like che vuole prendere sui social. Di qualsiasi partito siano - del mio, dei Cinquestelle, della Lega o di altri - guardo certe persone con distacco e disprezzo".

 

Prove di disgelo a Roma: l'incontro oggi tra Meloni e il nuovo presidente del Consiglio europeo Costa
Una missione non scontata con un obiettivo, innanzitutto: creare le condizioni per un primo disgelo tra Roma e Bruxelles. Il presidente del Consiglio europeo in pectore, Antonio Costa arriva oggi in Italia all'indomani della conferma di Ursula von der Leyen alla testa della Commissione e, soprattutto, del "no" dei meloniani. Un voto contrario che, lo scorso giugno, l'Italia ha certificato anche sullo stesso Costa, scelto favorevolmente, invece, da tutti gli altri Paesi membri. Ma avere contro uno Stato importante come l'Italia sin dall'inizio del mandato non conviene a nessuno. Da qui, partirà innanzitutto la visita dell'ex premier portoghese nella capitale. Costa è noto per il suo atteggiamento inclusivo e per essere un politico dalle posizioni ferme ma sempre all'insegna del dialogo. La missione in Italia - prima tappa di un tour europeo che prevede l'ex premier lusitano - è quindi un segno ulteriore del modus operandi che Costa potrebbe avere quando, dal prossimo dicembre, dirigerà il Consiglio europeo. I temi sul tavolo dell'incontro con Meloni saranno diversi ma su un punto l'ex premier è stato già chiaro nei giorni scorsi: nonostante il voto contrario, da parte sua c'è tutta la volontà di collaborare con Roma. Certo, la posizione dell'Italia non può che aver seminato delusione nei vertici di Bruxelles. Basti pensare che perfino la Budapest di Viktor Orban, nel suo complesso, si è collocata su un piano meno estremo, visto che l'Ungheria ha votato a favore di Costa e si è astenuta sull'Alto Rappresentante Ue per la Politica Estera Kaja Kallas. E poi c'è da tener conto dell'origine politica: Costa è uno dei più importanti leader del socialismo europeo e su diversi dossier, da premier, ha avuto posizioni radicalmente diverse rispetto all'Italia. Ad unire il presidente del Consiglio europeo e Meloni ci sarà invece il sostegno all'Ucraina. Ma sul tavolo ci saranno anche il tema della competitività e dell'industria europea della difesa, due dossier che finiranno al centro dei summit Ue del prossimo autunno. Per Meloni l'incontro sarà un'occasione per allontanare il rischio isolamento di un governo che, di fatto, ha votato contro alle tre massime cariche comunitarie. Nelle prossime settimane la premier tornerà a parlare anche con von der Leyen, in vista dell'indicazione dei due profili - un uomo e una donna - per il ruolo di commissario. Meloni è convinta che il voto di Fdi non abbia tagliato le gambe al negoziato per una delega di peso. E' davvero difficile, tuttavia, che l'Italia abbia una vice presidenza esecutiva. Il commissario al Bilancio e al Pnrr resta forse l'obiettivo massimo a cui può aspirare il governo, senza disdegnare il portafoglio della Coesione o della Sburocratizzazione come alternative. Meloni "non si è trovata d'accordo sul programma, ma ha ampio margine per trattare sui ruoli in commissione e ha noi, nel Ppe, che rappresentiamo la seconda forza del governo", ha spiegato Antonio Tajani. Il ministro degli Esteri, tuttavia, ha davanti a sé una strada in salita: nei Popolari c'è chi, dopo il voto all'Eurocamera, vorrebbe spingere ai margini Meloni nel segno di una maggioranza a trazione europeista e impermeabile alle influenze dei partiti sovranisti.

 

Stop ai bimbi in carcere. Anche FI pronta a discutere norma
Martedì prossimo entrerà nel vivo l'esame del decreto carceri in Commissione Giustizia del Senato e qualcosa nel testo potrebbe cambiare. Forza Italia, che ha già presentato al provvedimento 9 emendamenti e un ordine del giorno, fa sapere, attraverso il suo capogruppo Maurizio Gasparri, di essere pronta a discutere della norma che dice no alla permanenza in carcere di bambini al di sotto dei 3 anni. Una proposta di modifica che è stata ora ripresentata al decreto dai senatori Pd, ma che ha alle spalle una lunga storia. Nella scorsa legislatura, infatti, l'allora parlamentare Dem, Paolo Siani, pediatra e fratello del giornalista ucciso dalla camorra, aveva messo a punto un testo che prevedeva la possibilità per le madri detenute con figli piccoli di scontare la propria pena in case famiglia. Il provvedimento riuscì ad essere approvato solo in un ramo del Parlamento. Poi cadde la legislatura.

Con la nuova, il Pd lo ha ripresentato, a prima firma Debora Serracchiani, responsabile giustizia Dem, ma poi è stato costretto a ritirarlo per via degli emendamenti "decisamente peggiorativi" che erano stati presentati dal centrodestra. Come quello che in caso di recidiva alle madri toglieva automaticamente la potestà genitoriale. Ora, i senatori democratici ci riprovano e tra le 79 proposte di modifica depositate ci sono anche quelle per evitare che i piccoli finiscano dietro le sbarre. E la misura, che potrebbe trovare l'apertura non solo di FI ma anche della Lega - sono note infatti le posizioni della presidente della Commissione e responsabile giustizia del partito Giulia Bongiorno contro la permanenza dei bambini in cella - torna in queste ore d'attualità per via del caso del piccolo Giacomo (nome fittizio). Un bambino di circa 2 anni, di cui ha parlato 'La Repubblica' che, vivendo a Rebibbia con la madre è capace di dire solo: 'Apri e chiudi'.

I parlamentari Dem Walter Verini e Cecilia Guerra sono andati a vedere e parlano di una situazione carceraria "fuori controllo". Ma qualcosa potrebbe cambiare anche su un altro fronte: quello dei detenuti tossicodipendenti. Gasparri su questo ha presentato un ordine del giorno che potrebbe incontrare più di un gradimento visto che riuscirebbe in qualche modo a ridurre il sovraffollamento che sta mandando in tilt il sistema carcerario: secondo i dati di Antigone, ci sarebbero 61.480 detenuti a fronte di 51.234 posti. Per non parlare dei 54 suicidi dall'inizio dell'anno. Se i condannati per reati legati al consumo di droghe venissero ospitati "in comunità terapeutiche anziché in carcere - spiega il senatore di FI - non solo si ridurrebbe l'affollamento, ma si risparmierebbe visto che un giorno in carcere costa tra i 120-150 euro, mentre quello in Comunità tra i 60-80". Il fatto, si ribadisce in ambienti della maggioranza, è che da parte del Governo, in particolare del ministro della Giustizia Carlo Nordio, non sarebbe stata ancora sciolta la riserva sui 9 emendamenti di FI. A cominciare da quello che prevede la semilibertà se la pena da scontare non supera i 4 anni. Sulle modifiche da apportare al dl, infatti, sarebbe in corso "una trattativa serrata, una mediazione" che ancora "non ha dato alcun esito". Ma "l'importante - commenta Verini - è che si trovi un accordo sui figli delle detenute. Non esiste in nessun altro Paese d'Europa che bimbi entro i 3 anni siano costretti a stare in carcere o lontani dalle madri". La soluzione, aggiunge, "c'è ed è quella di far scontare loro la pena in case famiglia o in istituti a custodia attenuata". Una soluzione sulla quale parte della maggioranza potrebbe ora convergere.