Start-up, ecco come rinasce l'Italia
E come il governo potrebbe aiutarle
Da Draghi a Renzi, tutti invocano la crescita. Ma fuori dal Palazzo ci sono migliaia di imprenditori che stanno già provando a far ripartire l'economia italiana. Creando start-up innovative, dal Veneto alla Calabria. Una sfida per loro, una speranza per il Paese. La videomappa
Nicolas è un po’ come l’Harvey Keitel di “Pulp Fiction”. Quello che, nel celebre film di Quentin Tarantino, si presentava così: «Sono Mister Wolf, risolvo problemi». Nicolas Gamba, 27 anni, laureato in ingegneria al Politecnico di Torino, è uno dei circa 400 addetti di Ennova, la start-up italiana nata nel 2010, che si è specializzata nell’aiutare gli utenti di smartphone, tablet e computer in difficoltà. Ma, soprattutto, che è in cima alla classifica più “cool” che ci sia: tra le aziende sorte negli ultimissimi anni (che adesso si chiamano start-up, appunto), è quella che ha creato più occupazione partendo da zero.
La crescita, dei fatturati e dei posti di lavoro, oggi è un mantra, più che un sostantivo. Non c’è uomo politico, manager o imprenditore che non la invochi. Per far ripartire l’economia ci sono solo due strade: sviluppare le attività esistenti o crearne di nuove. La seconda è decisamente la via più sfidante e ha un forte impatto simbolico. Il premier Matteo Renzi lo ha gridato, al Forum di Davos: «L’Italia sia il Paese dell’innovazione, non un museo». Senza crescita, del resto, sarà improbo tenere a bada il maxi debito pubblico di oltre duemila miliardi di euro.
Sempre a Davos, il governatore della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha ribadito che bisogna attrarre capitale e creare posti di lavoro, con «riforme strutturali che promuovano la competitività e smantellino la burocrazia». Sia Renzi sia Draghi, in sostanza, chiedono che a chi intraprende sia data una mano, perché sarà fondamentale l’apporto delle nuove imprese per venir fuori dalla stagnazione e da una tendenza che, dal 2001 a oggi, ha prodotto in Italia la chiusura di 120 mila fabbriche e la perdita, solo nell’industria, di 1,1 milioni di posti di lavoro. Per le start-up sono previste agevolazioni fiscali e normative. E il 20 gennaio il governo ha messo sul tappeto il cosiddetto “investment compact”, il provvedimento che estende quei vantaggi a tutte le piccole e medie imprese.
Intanto, anche tra le aziende sorte da poco, il Jobs Act comincia a farsi sentire. Lo adotterà l’azienda dei Mister Wolf, l’Ennova, per stabilizzare la posizione di diversi ragazzi attualmente ingaggiati a tempo determinato. Oltre che a parlare al telefono, gli esperti della società torinese nell’apparecchio del cliente ci “entrano” direttamente: l’utente dà l’okay e aspetta che l’esperto risolva i problemi. «Il servizio è offerto dalle aziende di telefonia ed energia che hanno accordi con noi ma presto proporremo il nostro “prodotto” direttamente al cliente finale attraverso la grande distribuzione», raccontano i fondatori, Fiorenzo Codognotto e Michele Scarici. Intorno a loro smanettano senza posa sui computer i ragazzi che, nella sede all’interno dell’incubatore I3P, studiano il funzionamento di decine di apparecchi e mettono a punto il software per consentire agli operatori di “curare” gli apparati con efficacia. Sono più di trenta, i giovani ingegneri impegnati. E oltre 350 persone sgobbano nei centri assistenza di Milano, Roma e Cagliari. «L’anno scorso abbiamo fatturato 13 milioni di euro, quest’anno arriveremo a 20», raccontano i due fondatori, che puntano a fornire i loro servizi anche all’estero, lavorando però dall’Italia con personale multilingue.
La compagnia di Torino è un po’ il simbolo della rinascita possibile, sotto la bandiera dell’innovazione. «Le start-up innovative possono essere determinanti per la ripresa economica dell’Italia e il motivo è soprattutto uno: il settore dell’innovazione crea occupazione giovanile, vero tallone d’Achille dell’Italia di oggi», sottolinea Francesco Sacco, docente di Strategia aziendale in Bocconi.
NASCITA DI UN ECOSISTEMA
«Un’azienda meccanica classica», spiega Sacco, «va già bene se mantiene i lavoratori attuali. Sono le imprese innovative che possono dare lavoro ai ragazzi, perché soltanto loro sono adatti a lavorare in certi ambiti. Negli ultimi tre anni, lo dimostrano i numeri, il fenomeno delle start-up è decollato in Italia, e questo perché è aumentata la sensibilità dei governi verso il tema. Si sta creando l’ecosistema giusto, ma siamo ancora indietro rispetto a Paesi all’avanguardia come Israele, Usa o Gran Bretagna. Per permettere uno sviluppo massiccio ci vorrebbero più incentivi e, soprattutto, meno burocrazia. E bisognerebbe fare tutto questo al triplo della velocità attuale». Secondo il registro delle imprese delle Camere di commercio, le imprese nuove e innovative a oggi sono 3.208. E il loro numero, sostiene la Scuola di management del Politecnico di Milano, è più che raddoppiato nell’ultimo anno.
“L’Espresso” è andato a trovarne alcune, tra quelle che stanno mostrando di potercela fare. Sono quasi tutte tecnologicamente avanzate ma molte di esse si occupano di cose, diciamo così, “vecchie”: però con un approccio innovativo, quasi sempre reso possibile dall’impiego spinto delle nuove tecnologie. La milanese Cortilia, per esempio, apparentemente non fa nulla d’eccezionale: recapita frutta, verdura e altri alimenti a casa, per ora in alcune province (Milano, Varese, Como, Monza) ma presto - dice - in tante altre. Il suo pezzo forte però è l’informatica applicata alla logistica. È grazie al software sviluppato dal fondatore Marco Porcaro, infatti, che possono essere organizzate con precisione le consegne. I flussi di traffico e gli spostamenti dei furgoncini sono monitorati con attenzione maniacale, per fare meno chilometri. Partita nel 2012, Cortilia ha 50 mila clienti (molti dei quali reiterano regolarmente gli acquisti) e nel 2014 ha recapitato migliaia di box alimentari per un controvalore di 2 milioni di euro complessivi, avvalendosi di quasi 40 produttori di alimenti, dall’ortofrutta alla carne, dalla pasta al vino. «Molti di loro mi hanno detto che, per star dietro ai nostri ordini, hanno dovuto assumere: a spanne, la ricaduta del nostro arrivo sull’indotto può aver creato una sessantina di posti di lavoro», racconta Porcaro, che ha ingaggiato finora una decina di persone e conta di prenderne tante altre una volta che si moltiplicheranno i centri di smistamento.
Occhio però ai facili entusiasmi. Perché quella delle nuove imprese è una sfida ad alto rischio. Spiega Andrea Rangone, responsabile degli Osservatori Digital Innovation del Politecnico di Milano: «La morte della start-up è la cosa più naturale che ci sia. Se ne partono cento, ne saltano ottanta. Ciò avviene in particolare nei settori ad alta crescita. È anche normale che poche sopravvivano in buona salute tra quel 20 per cento che non chiude rapidamente i battenti. Eppure, fino a tre anni fa chi si sognava di parlare di start-up? Si è raccontato per anni che era molto più “cool” fare il consulente nella McKinsey. Invece oggi ci sono imprese innovative con fatturati interessanti. Nonostante una certa povertà di fondi, non si può dire manchino soldi disponibili, soprattutto nelle fasi iniziali: ci sono 200 milioni nell’hi-tech subito pronti da investire: possiamo guardare al futuro con ragionevole ottimismo».
PROF E IMPRENDITORE
Come fa Emanuele Montomoli, la cui lampadina s’è accesa nel 2009. Docente di Medicina preventiva all’università di Siena, riceveva parecchie richieste da parte di aziende interessate a testare l’efficacia di vaccini. «Erano troppe per il nostro gruppo di ricercatori», racconta, «e così dovevamo appaltarle ad aziende esterne». Insieme alle biologhe Chiara Gentile e Simona Piccirella, il prof toscano decide allora di crearla lui, una società testa-vaccini, battezzata Vismederi. Grazie agli ordini dall’estero, il mini-laboratorio ha visto salire il fatturato fino ai quasi 3 milioni del 2013. Diventando una vera impresa, con ben 25 dipendenti. La sede è sulle colline di Siena, tra pini e cipressi secolari, all’interno di un edificio a due piani gestito da Toscana Life Sciences, incubatore di start-up, il cui direttore, Andrea Paolini, dice: «La nostra struttura ha permesso la nascita di 16 aziende, offrendo vantaggi concreti: per i primi cinque anni affittano gli uffici e usano i laboratori a prezzi inferiori rispetto al mercato». Risparmi determinanti per Vismederi che, avvalendosi della nuova legge sul lavoro, ultimamente ha fatto qualche nuova assunzione: «Dal primo gennaio», spiega Chiara Gentile, biologa che ora si cimenta con la contabilità, «abbiamo assunto a tempo indeterminato quatto persone che prima erano precarie. Svolta possibile grazie al Jobs Act, che per ogni nuovo assunto a tempo pieno ci fa risparmiare 8 mila euro di contributi Inps all’anno, per tre anni».
Due terzi delle start-up innovative italiane hanno sede al Centro-Nord. Significa, di contro, che oltre mille sono nate dal Lazio in giù. In meridione ci sarebbe bisogno come il pane di imprese nuove e adatte alle professionalità degli under 30, visto che la disoccupazione giovanile è arrivata al 43,4 per cento, contro il 29,5 cento a livello nazionale. E il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Graziano Del Rio, al “Sole 24 Ore”, il 9 gennaio, ha dichiarato: «Da molte regioni del centro-nord ci arrivano già segnali importanti che il Pil è ripartito, al Sud invece è ancora tutto fermo».
Eppure interesse per le buone idee, anche nel Meridione, ce n’è parecchio. Antonio Prigiobbo è un designer di Napoli che ha creato una manifestazione itinerante, chiamata con ironia Nastartup: ogni mese imprenditori e investitori si ritrovano all’ora dell’aperitivo per ascoltare i creatori di un manipolo di start-up, che raccontano che cosa vogliono fare e, la volta successiva, spiegano i passi avanti compiuti. Così la diffidenza viene superata e i quattrini saltano fuori: in meno di un anno i finanziamenti privati stimolati in questo modo sono stati più di dieci. Restando al Sud, colpisce la capacità di sviluppare attività innovative in contesti che non sono propriamente business-friendly. Per scovare un caso emblematico eccoci a Simbarìo, 800 anime abbarbicate sulle Serre calabresi. Zona di boschi, taglialegna ed emigranti. Tra loro, una cinquantina d’anni fa, c’era pure Giuseppe Tassone, che prima di tornare in patria ha vissuto in Canada, Stati Uniti e Germania.
CALABRIA DA EXPORT
«Quando sono rientrato ho messo su una piccola fabbrica per produrre malte», racconta orgoglioso dietro un paio di baffetti bianchi. Voleva esportare il suo materiale nel settentrione, ma i grandi trasportatori erano organizzati per fare il giro contrario, da nord a sud. Per risolvere il problema è nata Personal Factory: un’idea dei figli, Francesco e Luigi, uno laureato in ingegneria e l’altro in economia. Invece di vendere i sacchi di malta - si sono detti - creiamo una macchina capace di produrla e vendiamola. Il prototipo ha attirato i fondi di venture capital, che hanno investito quasi 3 milioni di euro nella start up calabrese. «La malta», spiega Francesco, «è composta al 98 per cento da sabbia e cemento, che si trovano ovunque». Personal Factory vende la sua apparecchiatura e i componenti chimici per fare la malta, che rappresentano quel 2 per cento mancante. E il cliente finale si procura sul suo territorio sabbia e cemento. Una cinquantina di impianti sono stati già piazzati in giro per il mondo, gli ultimi in Congo e Albania. Il fatturato è salito di anno in anno, arrivando nel 2014 a 1,6 milioni, e pure i dipendenti sono cresciuti: 24 in totale, quasi tutti ingegneri e tecnici specializzati. «Facendosi la malta in casa, il cliente risparmia la metà. Certo, c’è l’investimento iniziale, ma la nostra macchina si ripaga nel giro di qualche mese appena», assicura Francesco. La ditta calabrese vuol rosicchiare quote di mercato a giganti del settore come Mapei, Kerakoll e Saint Gobain. E intende farlo mantenendo la produzione a Simbarìo perché - sostengono i titolari - lo svantaggio non è tanto stare in un paesino della Calabria ma in Italia: «Con la ‘ndrangheta non abbiamo mai avuto problemi», dicono, «noi siamo trasparenti e molto visibili, fattori che scoraggiano la criminalità organizzata. Piuttosto, il problema è la burocrazia. Per trasferire della merce da un capannone all’altro ci è stata chiesta la certificazione antimafia. La Prefettura ci ha messo un anno e mezzo a darcela».
Il giro d’Italia in Veneto incontra una start-up che nasce da una che non ce l’aveva fatta. Davide Lolli, un passato da consulente, ha deciso di diventare imprenditore puntando sui sacchetti di carta compostabili per la raccolta differenziata dell’organico e della carta stessa. L’azienda è la Sumus e tra gli azionisti, oltre a Lolli, ci sono la cartiera Galliera (che fornisce la carta riciclata all’ultimo stadio di vita) e la Lineapack della famiglia Chinello (che produce e gestisce pacchetti e buste di ogni tipo). Campagna padovana, comune di Carmignano di Brenta. È da qui che Sumus vuole convincere l’Italia a usare il suo sacchetto: «Perché è l’unico in carta riciclata brevettato e certificato per la raccolta del materiale organico e della carta, totalmente made in Italy e assolutamente rispettoso dell’ambiente», s’infervora Lolli che, girando tra i macchinari che sfornano 500 sacchetti al minuto, sottolinea come i suoi si «biodegradano e si compostano molto più rapidamente di quelli in bioplastica, che hanno quasi il 50 per cento del mercato italiano». Costituita nella primavera 2013 sulle ceneri della fallimentare start-up iniziale, Sumus ha raddoppiato il fatturato nel primo anno di attività. Nel 2015 mira a triplicarlo, superando i 3 milioni. I dipendenti diretti sono sei, che diventano una ventina calcolando l’indotto e gli uomini della Lineapack che si dedicano quasi esclusivamente a Sumus. «Incrementeremo l’organico anche quest’anno e andremo a vendere in Francia, Austria e Svizzera», assicura Lolli.
M’ILLUMINO DI LED
Poche decine di chilometri in direzione nord-ovest e compare l’ex Manifattura Tabacchi di Rovereto, trasformata in incubatore. È qui che ha sede la Muteki dei cugini Bonazza: dopo due anni di studi hanno lanciato una serie di sistemi d’illuminazione a led per esterni dalle enormi potenzialità. «Non solo per il design, che abbiamo voluto molto raffinato, ma anche per merito di una lente speciale, di cui si è brevettata pure la fase produttiva, che regala una grande luminosità e consente ingenti risparmi», dice Rolando Bonazza. Attualmente la produzione dei sistemi avviene in tre diversi impianti esterni, ma l’idea è concentrare le lavorazioni a Rovereto, dove al momento operano cinque addetti, che potrebbero raddoppiare presto. Nel 2014 la Muteki ha fatturato 2 milioni e quest’anno punta a fare il botto: «Se conquistiamo un paio di appalti per i quali siamo allo sprint finale, i ricavi potebbero schizzare a 20 milioni», dice Bonazza. L’azienda trentina ha già installato una quarantina di fonti di illuminazione a Città del Messico, ha conquistato una commessa per far luce sulle strade di Punta Arenas, in Patagonia, e metterà le sue lampade nelle stazioni di servizio italiane di Api e Total-Erg.
C’è anche chi torna per intraprendere. Tre anni fa Filippo Satolli viveva in Brasile: faceva consulenza alle imprese italiane che volevano stabilirsi lì. Oggi è felice di essere rientrato e aver creato Instal - con sede presso l'incubatore fiorentino Nana Bianca - una piattaforma digitale dove s’incontrano editori e società intenzionate a farsi pubblicità, un mercato virtuale in cui le aziende che hanno una app pensata per far conoscere il proprio marchio possono trovare i siti-web più adatti alle loro esigenze. Il tutto è gestito da un algoritmo che analizza (e prevede) il comportamento degli utenti: quante volte l’annuncio è stato visualizzato, cliccato, e quante volte è stata installata l’applicazione. La Ferrero, le Poste, la birra Ceres e altri hanno sviluppato campagne pubblicitarie con Instal, dove già oggi sono in venti. «Lavoriamo anche con i grandi produttori di giochi come “Candy Crush”, che di app ne sfornano a iosa», spiega Satolli. Che a fine 2014 ha raggiunto il primo milione di fatturato.
TERMINAL DA SBALLO
Qurami, fondata da Roberto Macina e Manolo Abrignani, ha messo invece le proprie radici accanto ai binari della Stazione Termini di Roma, nei millecinquecento metri quadri dell’acceleratore Luiss Enlabs. È nata da un problema personale: «Perché aspettare 50 minuti in fila per consegnare la mia tesi di laurea?», si chiedeva Macina nel 2010, quando frequentava la facoltà di Ingegneria. Poco dopo crea Qurami: un’applicazione per smartphone e tablet tramite cui prenotarsi per l’accettazione all’anagrafe, all’ospedale e in quegli uffici dove si aspetta a lungo in coda. Il software permette infatti di conoscere in tempo reale il numero esatto di persone in fila, stima l’attesa e invia una notifica all’avvicinarsi del turno. L’idea è piaciuta e ha conquistato alla svelta parecchi clienti. Ospedali, Comuni, università, negozi di telefonia e catene commerciali. E anche società di telecomunicazioni in Costa Rica e Panama, oltre che Royal Mail, le poste inglesi. Alla Qurami - sei assunti e sei collaboratori - sono convinti di raddoppiare i ricavi, quest’anno, arrivando a 500 mila euro.
Sempre a Roma, in zona Trastevere ma ben nascosto alla movida capitolina, c’è l’acceleratore di Tim. Si chiama Working Capital ed è qui che ha spiccato il volo Pedius, start-up che unisce assistenza sociale e business. Fondata nel 2012, ha creato un servizio di comunicazione che consente alle persone sorde di fare normali telefonate grazie a tecnologie di riconoscimento e sintesi vocale. La trovata nel 2013 ha attirato l’attenzione di Tim Working Capital, che oltre a mettere gli uffici a disposizione dei ragazzi di Pedius - sei assunti e una stagista, per ora - è entrato nel capitale dell'impresa insieme ad altre due società, Sistema Investimenti ed Embed Capital, investendo 410 mila euro. L’impresa ha convinto alcuni call center in Francia e Spagna ed è pronta a allo sbarco negli Usa. «Avverrà a giorni», raccontano durante una partita di calcio balilla. È così che alla Pedius si rilassano per trovare concentrazione. Nella speranza che le mosse del governo aiutino anche altri loro colleghi a fare gol.