
Da qui inizia infatti il percorso che porta sulle nostre coste buona parte del petrolio che consumiamo. E da qui, tra qualche anno, partirà anche la nuova via del gas. A fine aprile il governo di Matteo Renzi ha infatti approvato la costruzione del Tap, il Trans Adriatic Pipeline. Un progetto fondamentale, ripete da anni l’Unione europea, in cui Roma ha un ruolo cruciale. Perché il gasdotto in questione, che approderà in Puglia, dovrebbe rendere il Vecchio Continente meno dipendente dalle forniture russe. E legarlo al regime di Ilham Aliyev, non proprio un esempio di democrazia.
Di fronte al terminal di Sangachal le misure di sicurezza sono imponenti. La polizia è piazzata in ogni angolo, pure nel villaggio sterrato sviluppatosi a ridosso del complesso industriale, dove un gruppo di ragazzini gioca a pallone nel cortile di una vecchia moschea. Per toccare la ricchezza prodotta dallo stabilimento più importante dell’Azerbaigian bisogna lasciarsi alle spalle l’odore acre del gas bruciato dalle torri di raffinazione e dirigersi verso la capitale.
La periferia è disseminata di palazzoni in stile sovietico, eredità dei settant’anni di comunismo sperimentati da questa giovane nazione a maggioranza musulmana sciita, dove si parla una lingua di derivazione turca. Poi si arriva in centro e tutto cambia. Edifici di epoca staliniana trasformati in eleganti condomini, grattacieli in vetro-cemento, megastrutture firmate da archistar di fama mondiale. In giro s’incontra pure qualche colorito oligarca figlio del boom economico degli ultimi anni. Gente come Haji Ibrahim Nehramli, che dice di voler investire 100 miliardi di dollari per costruire «una nuova Venezia sul Caspio».

DA DOVE ARRIVA LA RICCHEZZA
La causa di tutto questo sfarzo si chiama energia e conta su due pilastri. Il primo è il petrolio, che già l’Italia importa in abbondanza. L’anno scorso, nel silenzio generale, l’Azerbaigian è diventato il nostro primo fornitore al mondo di oro nero. Superando la Russia di Vladimir Putin e rimpiazzando la Libia che, prima dell’omicidio di Muhammar Gheddafi, soddisfaceva un quarto del nostro fabbisogno. Il secondo pilastro è il gas. L’Italia è dipendente dalle forniture russe, che ci danno quasi la metà del metano che importiamo.
Non solo. La stessa Unione europea è legata a Mosca, fornitrice di un terzo dell’oro azzurro che le serve. Ecco allora spiegata la visita del ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, atterrata a Baku lo scorso 15 aprile. Una missione organizzata per rassicurare il governo di Aliyev sul progetto Tap, il gasdotto da cui dipende buona parte del futuro di questo piccolo Paese stretto fra giganti quali Russia, Turchia e Iran.
Dotato di una capacità massima di trasporto pari a 20 miliardi di metri cubi, più o meno l’equivalente di quanto importiamo oggi da Mosca, il tubo punta a collegare le coste del Salento con la Turchia. Per poi unirsi a un altro gasdotto, il Tanap, progetto già approvato in via definitiva, che unirà la Turchia al Mar Caspio. Insomma, un serpentone d’acciaio che permetterà all’Azerbaigian, dopo il petrolio, di diventare anche un fornitore di gas cruciale per l’intera Unione europea.

“QUESTO È IL PAESE DEGLI INGLESI”
Per il Tap «siamo nella fase finale dell’approvazione definitiva», ha dichiarato la Guidi a beneficio dei cronisti azeri a metà aprile. Promessa mantenuta. Esattamente due settimane dopo, il consiglio dei ministri italiano ha dato l’ok definitivo al progetto. Il governatore della Puglia, Nichi Vendola, contrario all’approdo del gasdotto a Melendugno, una località balneare in provincia di Lecce spaventata dalla possibile perdita di turisti, si è infuriato. «Troveremo il modo di reagire legalmente», ha promesso. Ma le nuove norme approvate dal governo (legge Sblocca Italia) non sembrano lasciare spazi di manovra a chi si batte contro l’opera.
Dunque, se il piano di Renzi andrà a segno, nel 2019 inizieremo a ricevere il gas processato nel terminal di Sangachal. Una mossa che cambierà in modo rilevante gli equilibri energetici degli ultimi decenni, non solo per il governo di Roma. La maggior parte del metano che arriverà in Salento, infatti, finirà nel Nord Europa: così prevede la strategia energetica nazionale disegnata nel 2013 dal governo di Mario Monti.
Al di là della diatriba sui reali benefici che porterà il Tap, resta il fatto che l’Azerbaigian è destinato ad aumentare la propria importanza per l’Italia, diventando il partner energetico numero uno. Scenario che sta già modificando la mappa del nostro commercio internazionale. Per quanto ancora limitato, l’export verso Baku è triplicato negli ultimi quattro anni.

GLI AFFARI CON IL REGIME
Vendiamo soprattutto prodotti meccanici per il settore energetico, unico traino, insieme all’immobiliare, dell’economia azera. Non a caso a fare la parte del leone qui è la Saipem, società controllata dall’Eni e specializzata nella costruzione di tubi e piattaforme per lo sfruttamento degli idrocarburi. Colpisce però un aspetto. Mentre la Saipem va alla grande, l’Eni è praticamente assente. Già, perché il Cane a sei zampe non è riuscito ad accaparrarsi i diritti di sfruttamento dei giacimenti del Paese.
I più pregiati sono segnalati dalle piattaforme piazzate in acqua. Giganti che interrompono la linea dell’orizzonte di fronte al “bulvar” di Baku, il lungomare piastrellato dove ogni sera gli abitanti di questa città da tre milioni di persone si ritrovano per bere tè e passeggiare. «This is BP’s country», è il ritornello sussurrato dai tanti occidentali trasferitisi qui negli ultimi anni seguendo il flusso dei soldi. Il riferimento va a British Petroleum, la compagnia inglese che controlla il giacimento petrolifero detto Acg, il più grande del Paese, e che ha messo le mani pure su Shah Deniz, quello da cui arriverà il gas destinato all’Italia.
Nei dodici grandi bacini di idrocarburi già scoperti in Azerbaigian sono entrate anche altre compagnie. Americane, francesi, norvegesi, tedesche, iraniane, turche, malesi, giapponesi, pure la russa Lukoil. L’Eni è rimasta fuori. E così al governo di Renzi non resta che puntare sulla fame di macchinari da parte dell’alleato azero.
Seduto nel suo ufficio in via Nizami, nel centro storico di Baku, con alle spalle la foto dell’ex presidente della repubblica Giorgio Napolitano, Luigi D’Aprea si dice fiducioso sul futuro industriale del Paese. Per il direttore locale dell’Ice - Istituto per il commercio estero - «la grande opportunità ora è il petrolchimico: il governo vuole realizzare un grande complesso per la raffinazione e la trasformazione di gas e petrolio, un progetto per cui verranno investiti 7 miliardi di dollari solo per la prima fase, e in cui le nostre aziende hanno grandi opportunità».
Si vedrà. Per ora il commercio nostrano sul Caspio si concentra sui settori più noti del made in Italy: arredamento e moda, come dimostrano le vetrine dei grandi marchi affacciati sulla strada più importante della capitale, che guarda caso si chiama Neftciler Prospekti, cioè la via “dei lavoratori del petrolio”.

PIÙ PETROLIO, PIÙ CORRUZIONE
In realtà c’è un altro comparto che sta crescendo, ma negli ambienti della diplomazia italiana se ne parla con una certa ritrosia. Si tratta degli armamenti, settore in cui l’Azerbaigian si è rafforzato parecchio negli ultimi anni. Lo dice lo stesso governo locale: la spesa militare nel 2013 è stata pari a 3,7 miliardi di dollari. Una cifra enorme, soprattutto se paragonata all’intero budget statale dello storico nemico, l’Armenia, fermo a 2,84 miliardi. I due Paesi si contendono da oltre trent’anni la regione del Nagorno Karabakh, per il cui controllo si continua a morire nel silenzio generale (una settantina le vittime registrate lo scorso anno).
Finora i grandi fornitori d’armi dell’Azerbaigian sono state altre nazioni europee, Bulgaria in primis, ma da qualche tempo anche Finmeccanica è riuscita a entrare nella partita. Il gigante pubblico degli armamenti per il momento ha venduto poco: 2,6 milioni di euro nel 2013, secondo i dati ufficiali. Al contempo, però, il Senato italiano ha iniziato ad esaminare l’accordo tra Roma e Baku sulla “cooperazione nel settore della difesa”. «Di solito questi programmi servono per spalancare le porte all’export di sistemi militari», spiega Giorgio Beretta, analista dell’Opal, un centro studi che si occupa di politiche di sicurezza.
ARRESTI E CONDANNE POLITICHE
C’è però un problema, fanno notare le organizzazioni umanitarie. L’Azerbaigian è retto da una dittatura, quella degli Aliyev: rappresentata prima da Heydar, ex dirigente dell’Urss diventato il primo presidente della repubblica caucasica, e ora da Ilham, il figlio, che da dodici anni governa la nazione tra accuse di corruzione, brogli elettorali e incarcerazioni politiche.
Una situazione che di recente è persino peggiorata, sostiene Xalid Bagirov, avvocato specializzato nella difesa dei dissidenti: «I soldi del petrolio stanno aumentando la corruzione su cui Aliyev basa il suo potere, e per proteggere questo sistema il regime sta calpestando ancora più che in passato i diritti umani, quello di espressione prima di tutto». Secondo Amnesty International, in Azerbaigian ci sono attualmente ventidue prigionieri politici tra cui leader di organizzazioni non governative, dissidenti, blogger e giornalisti. Tutta gente «condannata sulla base di accuse costruite ad arte», ha scritto l’organizzazione che si batte nel mondo per il rispetto dei diritti umani.
NEXT STOP, TURKMENISTAN
C’è di peggio, verrebbe da dire cinicamente affacciandosi sul golfo di Baku. Perché proprio sull’altra sponda del Caspio s’affaccia un regime ancora più contestato: quello del Turkmenistan, paragonato alla Corea del Nord nelle classifiche che misurano le libertà individuali, e dove la vendita di armi made in Italy ha già preso piede da tempo. A partire dal 2010, l’Italia ha venduto infatti al regime di Gurbanguly Berdymukhamedov 370 milioni di euro di armamenti: dalle pistole Beretta agli elicotteri Agusta Westland (gruppo Finmeccanica).
Anche lì, però, il business più ambito si chiama energia. La desertica nazione dell’Asia centrale è uno dei posti più ricchi al mondo di gas. E l’Eni ha già firmato dei contratti. La novità, in questo caso, è arrivata il 30 aprile per bocca di Maros Sefcovic. Il vice presidente della Commissione europea, dopo un incontro con il presidente locale, ha dichiarato che Bruxelles potrebbe iniziare ad importare gas dal Turkmenistan dal 2019. La stessa data prevista per l’avvio del Tap. Come dire che al metano azero si potrebbe aggiungere presto quello turkmeno. E allora sì, dicono gli esperti, che per i russi sarebbe un vero problema. Ma questa è un’altra storia.