"La maggiore attenzione che oggi viene dedicata al tema è merito della gente comune e dei giornalisti, non certo di politici e istituzioni. Ma i veri regni dell'offshore non sono le isole con le palme". Parla Nicholas Shaxson, autore del libro "Isole del tesoro" che indaga sui danni causati dai paradisi fiscali

"I peggiori evasori fiscali? Americani e inglesi"

londra
«Sapevo che stava uscendo qualcosa ma non immaginavo che sarebbe stato così grande». A riflettere dal suo ufficio di Berlino sull’effetto dei Panama Papers è Nicholas Shaxson, ex giornalista, autore del celebre libro “Isole del tesoro”(in Italia edito da Feltrinelli) sui danni causati dai paradisi fiscali e oggi ricercatore per “Tax Justice Network”, l’organizzazione internazionale specializzata nell’analisi e nella denuncia dell’evasione ?fiscale internazionale.

«Non sapevamo molto sullo studio Mossack Fonseca ?ma siamo sempre stati infastiditi da una Panama riottosa verso ?la trasparenza fiscale, una tendenza che si è intensificata negli ultimi due anni». Fino a 5 anni fa di paradisi fiscali ed evasione ?se ne occupavano solo gli accademici e gli esperti: la cosa ?non interessava certo alla gente comune. Adesso invece ?è argomento di discussione nei pub e nei ristoranti.

Nicholas Shaxson, perché questa attenzione diffusa?
«È un cambiamento partito dalla gente comune, dai giornalisti, ?non certo dai vertici della politica o delle istituzioni internazionali. Una cosa fantastica! A determinare il cambio di passo sono stati due fattori. Innanzitutto lo sgretolamento del pentagramma politico: i cittadini non si fidano più di leader pronti a salvare le banche ?e i propri interessi ma non quelli del loro popolo. E poi ha contribuito la crisi economica. In ogni caso il minimo comune denominatore è la rabbia: i paradisi fiscali sono la perfetta metafora degli abusi delle élite».

Nicholas Shaxson
Non è facile decifrarne meccanismi e pratiche...

«Infatti fino a qualche anno fa non eravamo in grado di capire ?e analizzare il funzionamento di questi paradisi fiscali. Adesso ci sono organizzazioni specializzate, come il “Tax Justice Network,” determinate a scoprire inganni internazionali. I paradisi fiscali non sono solo un fenomeno criminale ma negli ultimi trentanni sono diventati il vero motore di quella globalizzazione della finanza iniziata negli anni Ottanta. La maggior parte della gente crede ?che si tratti soprattutto di una storia di tasse ma quello fiscale è solo un aspetto. La parte più interessante è capire chi si nasconde in quei paradisi e perché. La Russia ad esempio pare stia cercando di costruire una riserva finanziaria al di fuori della propria economia al riparo da occhi indiscreti. Questi luoghi sono dei veri e propri paradisi della legge: sono il modo in cui le élite si sottraggono ?alle legislazioni che in tanti casi hanno contribuito a varare. ?Le parole chiave sono due: scappare e altrove».

Chi sono i maggiori evasori?
«Storicamente quando le banche e le assicurazioni di Wall Street hanno dovuto eludere cambi di legislazione più restrittiva sono fuggite in Gran Bretagna. E difatti oggi i più grandi paradisi fiscali non sono quelli tradizionali dei Caraibi, le isole con le palme, ma sono proprio la Gran Bretagna e gli Stati Uniti. La Gran Bretagna gestisce uno dei più grandi network di paradisi fiscali al mondo. Si tratta di territori in parte indipendenti, in parte controllati e aiutati dalla Gran Bretagna: Anguilla, Bermuda, le Isole Vergini britanniche, le isole Cayman, Guernsey, Montserrat, le Isole Turks e Caicos, oltre a quelle nella Manica e l’isola di Mann. La legislazione di questi paradisi fiscali è approvata a Londra. In questi posti non avviene nemmeno ?la maggior parte del lavoro burocratico e cartaceo che è spedito ?a Londra, in parte legale in parte no: ?è molto difficile differenziare».

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E gli Stati Uniti?

«Sono un paradiso fiscale su due livelli. ?Il primo è quello statale: Delaware, Nevada e Wyoming permettono ad esempio di incorporare una società in modo tale che non sia riconducibile al vero proprietario. ?Il secondo livello invece ha a che fare con ?il piano federale. Gli Usa hanno siglato gli accordi Ocse sullo standard globale per lo scambio automatico di informazioni tributarie (CRS) che entrerà concretamente in azione ?il prossimo anno. Si tratta di uno strumento volto a contrastare l’evasione e l’elusione fiscale da parte delle multinazionali, frutto dei progressi di questi anni. Però non stanno cooperando. Hanno instaurato un sistema, il cosiddetto Fatca (Foreign Account Tax Compliance Act), che è ottimo quando si tratta di recuperare le informazioni sui soldi delle aziende e dei cittadini americani residenti all’estero ma manca la reciprocità. Non condividono le informazioni degli stranieri che investono negli Usa. Hanno praticamente sventrato le banche svizzere ma poi rimangono chiusi loro: quanta ipocrisia da parte di Wall Street e della Florida Bankers Association! L’Europa fino ad oggi è stata debole e non ha saputo imporre una maggiore pressione. Ma dovrebbe fare esattamente come fanno gli Usa: ogni pagamento di provenienza statunitense ad un’istituzione straniera che non rispetta gli accordi Fatca è soggetto ad una tassazione automatica del 30 per cento. Questo è ovviamente ?un enorme incentivo per le banche straniere a fornire agli Usa ?le informazioni di cui hanno bisogno. Noi dovremmo solo copiare».

Si riuscirà prima o poi a cancellare ?la realtà dei paradisi fiscali?
«È impossibile risolvere del tutto il problema. Troppo grandi sono gli interessi di pochi attori influenti, come dimostrano ?i casi dell’Inghilterra e degli Usa. E poi tecnicamente ci sarà sempre qualche scappatoia. Tra l’altro una buona parte dell’economia quotidiana passa per ?i paradisi fiscali come ha spiegato bene il mio collega James Henry in un articolo su “Foreign Affairs”. Panama dopotutto è solo uno degli oltre 90 paradisi fiscali (erano solo una dozzina negli anni Settanta). Tutti insieme detengono almeno 24mila dei 36mila miliardi di dollari di ricchezza segreta appartenente allo 0,1 per cento dei più ricchi del mondo. Adesso Panama sarà meno in voga ma ci sono già Dubai, le isole Mauritius e le Bahamas pronte a sostituirla. A dir la verità ai tempi di Al Capone le Bahamas erano la cassaforte dei ricconi americani. Poi quando sono diventate indipendenti per pregiudizio non si fidarono a lasciare i soldi in mano a una persona di colore e li spostarono alle Cayman».
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Però sta almeno diventando più difficile far sparire denaro...
«Non sarà mai impossibile ma sarà sempre più difficile. E chi vorrà continuare a eludere leggi e fisco dovrà essere pronto ad assumere rischi sempre più alti. Una cosa è mettere i soldi a Panama un’altra a Dubai o in qualche Emirato arabo che da un giorno all’altro può decidere di non restituirli. In più c’è tanta gente spaventata da tutte queste indiscrezioni. Si tratta di un grande cambiamento, anche dal punto di vista psicologico. Nuove rivelazioni arriveranno. Siamo solo all’inizio».

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