I titoli pubblici italiani vengono venduti dai fondi più importanti. E a farne le spese sono i cittadini perché, con il rialzo dello spread, sale anche il costo dei mutui e dei prestiti bancari
Il debito pubblico italiano? «Ci pensa Donald». Sì, proprio lui,
Donald Trump, presidente degli Stati Uniti d’America. Nella sarabanda di dichiarazioni, dicerie, numeri sparati a caso, profezie di aspiranti Cassandre che da settimane gira vorticosamente sui media a proposito dei guai finanziari nostrani, la presunta offerta della Casa Bianca al nostro presidente del Consiglio Giuseppe Conte, segnala l’estrema preoccupazione, quasi un clima da ultima spiaggia, che turba la tarda estate dei palazzi del potere.
Spread, basta la parola per evocare l’incubo di una catastrofe prossima ventura, con i conti pubblici piegati dalla zavorra sempre più pesante dei rendimenti da pagare sui titoli di Stato.
Nel tentativo di esorcizzare lo spettro del crac,
il governo gialloverde grida al complotto degli speculatori che attaccano l’Italia. Un tema caro, quest’ultimo, al vicepremier Luigi Di Maio, ma anche al felpato Giancarlo Giorgetti, che sotto Ferragosto ha paventato l’assalto dei mercati alla fortezza (si fa per dire) Italia. D’altra parte, parallele a questa narrazione corrono altre storielle, questa volta in chiave positiva, che ipotizzano possibili vie d’uscita o cavalieri bianchi pronti a dare una mano a Roma. Il ministro degli Affari europei, Paolo Savona, già a luglio, nel corso di un’audizione parlamentare, aveva vagheggiato un possibile intervento della Russia di Vladimir Putin. Nei giorni scorsi, invece, nel gran mare delle voci di mercato è infine affiorata l’ipotesi che sarebbe Trump in persona a stendere una rete di sicurezza sotto i conti pubblici italiani. Come? Comprando Btp nel nome dell’amicizia con il premier Conte, fresco di visita, a fine luglio, alla Casa Bianca («my friend Ciussepi», disse il presidente Usa in quell’occasione).
La notizia del pronto soccorso a stelle e strisce, attribuita a non meglio precisate fonti romane ma priva di conferme ufficiali, è stata accolta con
scetticismo nel mondo finanziario, dove tutti gli operatori sanno bene che Washington non interviene direttamente sul mercato tramite, per esempio, un proprio fondo sovrano, di cui peraltro non dispone. Così come sembra quantomeno improbabile che, se i Btp venissero considerati troppo rischiosi, il governo Usa possa riuscire a convincere una grande banca statunitense a comprare titoli italiani in quantità tale da risollevarne le quotazioni. D’altra parte, ironia della sorte, proprio il rialzo dei tassi americani, insieme a quello del dollaro, di recente ha contribuito ad aggravare i problemi di Roma, perché una parte degli investitori in fuga dai titoli italiani ha portato acqua al mulino dei bond statunitensi, che rispetto ai nostri Btp offrono rendimenti simili con rischi molto inferiori, visto che una ipotetica bancarotta degli Stati Uniti non viene neppure presa in considerazione dagli analisti.
A conti fatti, le indiscrezioni su presunti cavalieri bianchi pronti a correre in aiuto del governo tricolore finiscono per ottenere un risultato opposto a quello sperato da chi le fabbrica e le diffonde.
L’accumularsi delle voci infatti aumenta l’incertezza sulle prossime mosse della maggioranza tra Cinque stelle e Lega. E questi dubbi finiscono per gonfiare la bolla di sfiducia che circonda i nostri titoli di Stato. Gli investitori non attaccano per partito preso oppure perché c’è un grande burattinaio che li manovra, come sembra credere Di Maio quando dice, parole del 13 agosto scorso, che «qualcuno vuole usare i mercati contro di noi». Banalmente, gli operatori finanziari non riescono a farsi un’idea precisa della direzione di marcia del nuovo esecutivo di Roma. E così, disorientati da una girandola di dichiarazioni, che in parte si contraddicono tra loro, i gestori dei grandi fondi internazionali alleggeriscono le posizioni sui Btp oppure, nella migliore delle ipotesi, restano alla finestra.
In effetti, non è facile decidere che fare con l’Italia quando esponenti di uno stesso governo dicono l’uno l’opposto dell’altro. C’è il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, che predica prudenza con la Commissione Ue per ottenere maggiore flessibilità sui conti e quindi aumentare la spesa pubblica, a cominciare dagli investimenti in infrastrutture, finanziata in deficit. Il vice premier Di Maio arriva invece a minacciare la sospensione dei contributi italiani al bilancio dell’Unione Europea come ritorsione per il disinteresse dei Paesi partner sul tema dei migranti. Oppure, sempre Di Maio, si dice pronto a violare il limite del 3 per cento nel rapporto deficit Pil pur di finanziare il reddito di cittadinanza.
Un gran numero di analisti incomincia a pensare che nella maggioranza di governo
si stia rafforzando la posizione di chi vuole sfidare l’Europa contando sul fatto che quest’ultima non possa permettersi un crac dell’Italia. Una catastrofe che innescherebbe una crisi di dimensioni ben maggiori rispetto al tracollo della Grecia. Di conseguenza, secondo questa linea di pensiero, Bruxelles sarebbe disposta a fare importanti concessioni pur di evitare il peggio. Se questa fosse davvero la scommessa del governo, tra Roma e l’Europa si aprirebbe una lunga partita a poker. In altre parole,
nei prossimi mesi l’incertezza non potrebbe che crescere e alla fine, a pagare il conto, sarebbero i cittadini. Tensione sui mercati significa infatti spread in rialzo o quantomeno senza significative variazioni rispetto al livello, già elevato, raggiunto a partire da luglio.
Questo significa che i rendimenti dei titoli di Stato non si sgonfierebbero e con loro l’intera architettura dei tassi d’interesse. I mutui, quindi, costerebbero di più, così come i prestiti alle imprese e ai privati cittadini. Anche banche e assicurazioni sarebbero penalizzate. E i maggiori costi del debito pubblico andrebbero a penalizzare altri voci del bilancio statale, come il welfare o gli investimenti in infrastrutture.
Per misurare, in concreto, gli effetti dello scenario appena descritto non serve la sfera di cristallo. Basta pensare a quanto sta già accadendo da tre mesi a questa parte, più o meno da quando a Roma si è insediato il governo Conte.
In maggio e giugno l’incertezza sulla linea politica del nuovo esecutivo ha convinto un gran numero di investitori a vendere i loro titoli. In totale, confermano le statistiche più recenti, i bond targati Italia di proprietà di operatori internazionali sono diminuiti di 72 miliardi nell’arco di 60 giorni. Alcuni analisti segnalano che la situazione è un po’ migliorata a luglio e citano il saldo del Target 2, il sistema di pagamenti interbancario all’interno dell’Unione Europea. In effetti, a luglio il passivo italiano è calato a 471 miliardi contro il record di 480 miliardi registrato a giugno. Magra consolazione: nel 2017 questo indice viaggiava intorno a 400 miliardi e nell’anno precedente era ancora inferiore.
Se gli stranieri vendono, le quotazioni dei nostri titoli di Stato non possono che diminuire, mentre i loro rendimenti si muovono in senso contrario provocando l’impennata dello spread, cioè la differenza tra il tasso offerto dai Btp a 10 anni e quello, di molto inferiore, garantito dai bund tedeschi di uguale durata. In sostanza, questo significa che per convincere un investitore a sottoscrivere i bond italiani, il governo di Roma è costretto a promettere un rendimento che di mese in mese diventa più oneroso per le casse pubbliche.
Basti pensare che ancora a metà aprile il rendimento del Btp a dieci anni si aggirava intorno a 1,76 per cento, mentre il 28 agosto scorso ha toccato quota 3,20 per cento. Tra aprile e maggio la scadenza a due anni aveva addirittura un tasso negativo, cioè inferiore allo zero (meno 0,25), mentre in questi giorni si aggira sull’1,3 per cento. In agosto l’asta dei Bot a sei mesi si è chiusa con un tasso dello 0,67 per cento. In maggio lo stesso tipo di titoli era stato venduto con un interesse sotto zero, meno 0,36 per cento. Come dire che fino a tre mesi fa, sulle scadenze più brevi, lo Stato incassava un premio per farsi finanziare. Adesso invece i costi del debito pubblico sono in netto aumento. Una pessima notizia per un governo come quello italiano che l’anno prossimo, per non dichiarare fallimento, dovrà piazzare sul mercato obbligazioni per almeno 380 miliardi.
Secondo alcune stime, l’aumento degli interessi da pagare sui titoli di Stato, finirebbe per tradursi in maggiori oneri a carico del bilancio pubblico pari 5 miliardi per il 2019. Ma potrebbe andare ancora peggio, se nel futuro prossimo dovesse aumentare la sfiducia degli investitori sulle prospettive dell’Italia. I mesi di settembre e ottobre saranno decisivi, con il dibattito sulla legge di bilancio per il 2019 che entrerà nel vivo, innescando prevedibili sbandamenti e scontri più o meno palesi tra i diversi orientamenti che convivono all’interno dell’esecutivo gialloverde.
Intanto però la febbre dello spread non colpisce solo le casse pubbliche. Il contagio si è già esteso anche a banche e assicurazioni, che hanno accumulato nei loro bilanci circa 400 miliardi di titoli di Stato. Si calcola che Btp e altre obbligazioni pubbliche rappresentino circa il 10 per cento delle attività bancarie complessive, percentuale che negli ultimi mesi è andata aumentando. Di conseguenza, se il rendimento dei bond pubblici fa segnare nuovi record, con relativo calo delle quotazioni, questi grandi investitori sono esposti a un rischio maggiore, visto che in un futuro più o meno prossimo potrebbero essere costretti a farsi carico di possibili perdite. Quindi, in base alle norme contabili, banche e assicurazioni devono rafforzare il loro patrimonio.
In prospettiva, se lo spread dovesse aumentare ancora, non è quindi da escludere che
alcuni istituti siano costretti a chiedere nuovo capitale ai soci e intanto, per far fronte ai nuovi oneri, potrebbero diminuire l’erogazione di prestiti oppure farli pagare più cari ai clienti. Va poi ricordato che anche le banche, al pari di tutte le aziende, si finanziano sul mercato collocando proprie obbligazioni. I rendimenti di queste ultime sono influenzati dall’andamento degli interessi sui titoli di stato. Se aumentano i tassi dei Btp anche quelli dei bond bancari salgono.
Un esempio concreto. Il 23 agosto Banca Intesa ha piazzato un miliardo di propri titoli con scadenza 2023 che rendono il 2,15 per cento l’anno. Visto il contesto di estrema tensione sui mercati, l’operazione è stata salutata come un successo dagli analisti. Per convincere gli investitori, però, la banca guidata dall’amministratore delegato Carlo Messina non ha potuto fare a meno di alzare l’asticella del rendimento ben al di sopra di quanto fatto nei collocamenti dei mesi scorsi. La differenza rispetto a un tasso di riferimento come il mid-swap è salita dai 77 centesimi di un’emissione di marzo ai 188 registrati in quest’ultima operazione.
In altre parole, i costi a cui Intesa deve far fronte per raccogliere fondi sul mercato sono nettamente aumentati nell’arco di soli cinque mesi. La banca milanese è considerata una delle più solide su piazza. È probabile, allora, che il problema si presenterà in forma ancora più accentuata per altri istituti di credito dotati di minor appeal tra gli investitori e quindi costretti a offrire tassi più attraenti sui propri titoli.
Il denaro, quindi, sta diventando sempre più caro. E in prospettiva, a farne le spese sarà l’intero sistema produttivo, perché le banche scaricheranno sui debitori l’aumento dei propri costi di finanziamento. Così, mentre il governo fa promesse proiettate in un futuro indefinito, la tassa dello spread resta a carico dei cittadini. Una tassa da pagare subito. Qui e ora.