I rapporti tra Palazzo Koch e l'esecutivo continuano a essere difficili. Ma non si tratta di una novità nella storia dell'Istituto. Anzi

Tra il governo di Lega e M5S e Bankitalia è solo una pace armata

La sede della Banca d'Italia
Deve essere arduo, al tempo del governo gialloverde, lavorare tra i marmi di Palazzo Koch, a Roma, da 125 anni sede della Banca d’Italia. Nel rinnovo del Direttorio ci sarà dunque la “discontinuità” pretesa da Salvini & Di Maio, e quel passo indietro è forse spia di un negoziato non dichiarato, il prezzo pagato per cercare di tutelare la dignità dell’istituto colpito da una sfacciata campagna di delegittimazione.

Si dirà: non è una novità. Del resto, come immaginare una vita separata per uomini chiamati a fare da sentinelle del debito pubblico, campo di battaglia prediletto dal potere politico? Ancora misteriose, per esempio, sono le improvvise dimissioni di Guido Carli nel 1975, mai motivate. Ma giusto un anno prima il governatore aveva negoziato un prestito con il Fmi a condizioni che il ministro del Bilancio Giolitti aveva giudicato inaccettabili. E gli aveva chiesto di riaprire la trattativa. Per Ugo La Malfa, titolare del Tesoro, suonò come atto di sfiducia nei confronti della Banca e suoi, e si dimise. L’onda lunga di quello scontro certamente pesò su Carli. E poi: lasciando, il governatore designò a succedergli Ferdinando Ventriglia, ex direttore generale del Tesoro, poi patron del Banco di Napoli, legato a Emilio Colombo e alla Dc. Fu ancora La Malfa a opporsi e a imporre un nome interno, Paolo Baffi. Il quale a sua volta, pochi anni dopo, sarà vittima di una clamorosa inchiesta giudiziaria in cui il “New York Times” vide un atto paragonabile a quelli delle Br. Terrorismo.

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Il capo di imputazione riguardava i crediti bancari concessi a Nino Rovelli e sui quali Baffi e il direttore generale Mario Sarcinelli non avrebbero vigilato (al solito!), ma trovava alimento in un contesto politico ostile agli uomini di via Nazionale. Ai quali non si perdonava di essersi opposti al salvataggio del sistema Sindona; di aver ficcato il naso nell’Ambrosiano di Calvi e di aver sciolto il consiglio di amministrazione dell’Italcasse: tre potentati finanziari legati alla Dc e allo Ior. Pochi mesi dopo, il governatore si dimetteva per evitare che la Banca finisse nel tritacarne. Due anni dopo sarà assolto, come Sarcinelli che aveva addirittura subìto il carcere.

Giorni bui. Ma la Banca si è dovuta sempre difendere dalle ingerenze. E dal costante tentativo di condizionarne le nomine. Nel 1993, per esempio, il presidente Scalfaro pescò l’outsider Antonio Fazio per chiudere lo scontro tra Ciampi, che indicava come suo successore Tommaso Padoa-Schioppa, e Andreotti che voleva Lamberto Dini. E nel 2011 fu l’indicazione di Ignazio Visco a risolvere il braccio di ferro tra Draghi, che dopo di lui aveva scelto il numero due Fabrizio Saccomanni e Tremonti che tifava per il direttore generale del Tesoro Vittorio Grilli.

Se per Baffi era stato un inferno, per Fazio fu un lungo Vietnam. A Tremonti, super ministro dell’Economia di Berlusconi, l’uomo non piaceva affatto: la scusa per colpirlo fu il crac della Parmalat, allegramente finanziata senza che via Nazionale intervenisse (ancora!); lo strumento fu invece la drastica riforma del 2005 che strappò alla Banca parte della vigilanza e cancellò il mandato a vita del governatore. Era come licenziare Fazio. Che infatti si dimise. Tremonti ne approfittò per modificare anche i criteri di nomina, e solo per dissidi nel governo si escluse un ruolo del Parlamento: il premier avanza la proposta dopo aver consultato il Consiglio superiore della Banca d’Italia e i ministri, ma è il presidente della Repubblica che firma il decreto di nomina. Il mandato di sei anni, poi, rinnovabile una volta sola, trasforma la scadenza in un giudizio di merito e in qualche modo consegna il governatore al potere politico: un calvario cui è stato sottoposto lo stesso Visco.

Da allora tutto è cambiato. Ma nella stagione gialloverde, ecco la novità, sotto tiro non c’è più solo il governatore, ma l’intero vertice, e l’impalcatura stessa dell’istituto. Preannunciata dalle idee balzane di vendere l’oro dei forzieri e di nazionalizzare la Banca, entrambe tecnicamente irrealizzabili, ora si fa esplicita l’intenzione – confermata dallo stesso Conte – di avocare al governo la nomina del Direttorio che un meccanismo complesso cerca di preservare da interferenze indebite: le designazioni spettano al Consiglio superiore della Banca su proposta del governatore; ma a promulgare il decreto, predisposto dal premier d’intesa con il ministro dell’Economia e sentito il consiglio dei ministri, è il Capo dello Stato.

Adesso, con l’uscita di Rossi e la mediazione di Mattarella, tra governo e Banca è stata siglata l’ennesima pace armata. Ma certo non finirà qui e la voglia di allungare le mani su Palazzo Koch resterà prepotente. Intanto il debito corre, soffiano venti di tempesta e si avvicina la scadenza delicata della manovra finanziaria. Ma che ci volete fare, mentre la crisi avanza, invece di erigere fortificazioni le si bombarda.

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