Il 2 giugno sarà nominato il successore di "Supermario" e la corsa alla nomina è già partita da tempo. Ecco chi sono i papabili e come è cambiata la Banca centrale Europea

Bce, i dieci candidati che puntano alla poltrona di Mario Draghi

Mario Draghi
Una poltrona per dieci. O anche di più. È affollato il gruppo dei pretendenti alla presidenza della Banca centrale europea, una delle due nomine che scottano del 2019. L’altra è la Commissione di Bruxelles, ma il vertice dell’Eurotower di Francoforte è sicuramente molto più cruciale e decisivo. E non sarà facile succedere a Mario Draghi, “Supermario” come è stato chiamato, o «l’uomo che ha salvato l’euro» come è scritto su una targa che il Parlamento europeo gli ha consegnato fra applausi, selfie e lacrime di commozione a metà marzo per la tappa inaugurale del suo giro di saluti (“farewell tour” l’ha chiamato lui stesso), che sta compiendo in tutte le sedi istituzionali.

Il gruppo dei pretendenti procede compatto verso il traguardo. L’arrivo è previsto per il 2 giugno, quando il Consiglio dei capi di Stato europei nominerà il successore, che poi si insedierà il 1° novembre, un giorno dopo la scadenza degli otto anni di mandato di “Supermario”.

Tutti si preparano alla volata finale, ma favoriti al momento non ce ne sono. C’era un uomo solo in fuga ma è stato ripreso, è rimasto in corsa, le sue chance non sono ancora azzerate ma per lui sarà dura: si chiama Jens Weidmann, è il presidente della Bundesbank, la banca centrale tedesca, come dire l’azionista di maggioranza.

La Germania, il Paese che oltre a essere il più potente detta la linea delle politiche economiche comunitarie, reclama a vive voce il vertice della Bce, e già per tre volte ha dovuto ingoiare una sconfitta: all’esordio della Bce nel 1998 quando è stato eletto l’olandese Wim Duisenberg, nel 2003 quando prevalse il governatore della Banque de France, Jean-Claude Trichet, e nel 2011 all’arrivo di “Supermario”.
La sede della Bce

Proprio l’insediamento di Draghi, il presidente che più ha lasciato il segno, è stato il più rocambolesco. Tutto era pronto, nell’estate 2011, perché Axel Weber, allora capo della Bundesbank, assumesse la presidenza.

Senonché la crisi della Grecia si aggravò creando una spaccatura fra la Germania e gli altri Paesi sulla severità delle misure da imporre. Il sostenitore della linea dura era Weber, che a un certo punto dei negoziati, vistosi isolato, ebbe un violento scatto d’ira. Uscì sbattendo la porta non solo dal consiglio europeo ma perfino dalla Bundesbank e quindi dal sistema Bce. Tutto accadde in poche ore. Serviva un sostituto pronto e qualificato e Draghi, romano, classe 1947, laurea alla Sapienza e PhD al Mit di Boston (tutor i premi Nobel Franco Modigliani e Robert Solow), aveva le carte in regola.

Governatore della Banca d’Italia in carica, una lunga esperienza precedente quale direttore generale del Tesoro, si era fatto apprezzare negli ambienti internazionali quale presidente del Financial stability forum, creato nel 2008 dal G20 per cercare rimedi alla crisi finanziaria. Weidmann rischia un destino simile a quello di Weber: è per definizione il “superfalco”, l’uomo dell’opposizione permanente alle misure monetarie di Draghi, al quantitative easing, ai tassi a zero, ai finanziamenti straordinari alle banche. In tutte le occasioni, nessuna esclusa, in questi otto anni nel consiglio direttivo della Bce (composto da tutti i governatori) ha votato contro le misure proposte dal presidente, fino a restare spesso l’unica voce di opposizione. Finché perfino Angela Merkel, che ha stabilito un’ottima chimica con Draghi e difende a spada tratta l’indipendenza della banca centrale, gli ha ritirato il suo appoggio. Anche perché la Germania punta all’altra supercarica, la presidenza della Commissione.

Opinione
Tra il governo di Lega e M5S e Bankitalia è solo una pace armata
4/4/2019
La nomina del capo dell’Eurotower è un rompicapo che attanaglia tutte le cancellerie. Solo l’Italia si tiene fuori dai giochi, un po’ per la freddezza fra Roma e l’Europa e perché è italiano il presidente uscente, ma soprattutto perché nella seconda torre di Francoforte, quella delle vigilanza, si è insediato dall’inizio di gennaio Andrea Enria, provato economista di scuola Bankitalia. Non è realistico pensare a un vertice tutto tricolore. E allora?

Una spanna di vantaggio, stando a un sondaggio di Bloomberg di metà marzo, se l’è procurata il finlandese Erkki Likanen, 68 anni, una lunghissima esperienza istituzionale (fu eletto deputato a Helsinki quando aveva 21 anni), già governatore della Banca centrale e una fama di “colomba” malgrado il suo Paese sia stato (prima di finire in recessione) fra i sostenitori più pugnaci dell’austerity. Insomma rappresenta una linea di continuità rispetto a Draghi.

L’opposto dell’altro nome che la Finlandia ha messo in campo: Olli Rehn, che da commissario agli Affari monetari di Bruxelles negli anni difficili della crisi del debito, fra il 2009 e il 2014, ha sostenuto senza esitazioni l’urgenza della disciplina fiscale. Tanto che forse ora sarebbe, dicono a Francoforte, troppo divisivo. Meglio allora tornare sulla continuità?
Francois Villeroy

Un altro uomo che la garantirebbe sarebbe François Villeroy de Galhau, attuale governatore della Banca di Francia, 60 anni, di nobili origini alsaziane (parla solo tedesco nelle riunioni internazionali) nonché erede della dinastia degli industriali della sofisticata ceramica Villeroy & Boch. Troppo “perfetto”? Più che altro il suo problema è di essere francese, e a così breve distanza da Trichet in molti pensano che sia il caso di una ulteriore rotazione delle cariche. Una considerazione che potrebbe finire col penalizzare anche Benoît Cœuré, membro del board, il raffinato economista che è stato insieme con Draghi (ma guai a chiamarlo delfino) l’architetto del quantitative easing.

La pregiudiziale anti-francese, peraltro tutta da verificare, potrebbe abbattersi anche sul candidato di maggior lusso che Parigi ha messo in campo: Christine Lagarde, già ministro delle Finanze e ora al vertice (prossima alla scadenza) del Fondo monetario internazionale. La quale mette sul tavolo tutto il suo prestigio, la sua esperienza e anche, ricorda qualcuno, una certa alternanza di genere al vertice. C’è già chi aveva immaginato, compulsando il manuale Cencelli globale, una staffetta, e vedeva Draghi all’Fmi. Prima di accorgersi che nelle rigide regole dell’istituzione di Washington c’è scritto che il managing director non deve avere più di settant’anni, e Draghi è del ’47.
christine lagarde

Il plotone dei dieci al comando vede anche la presenza di Klaas Knot, olandese cinquantenne molto stimato ma anch’egli considerato troppo “falco”, e di Ardo Hansson, 60 anni, estone laureato ad Harvard, moderatamente rigido nelle politiche monetarie, che però ha opposto (per ora) la più imprevedibile delle eccezioni: non vuole trasferirsi da Tallinn, dove è governatore della banca centrale, a Francoforte.

Di trasferirsi non avrebbe bisogno invece Claudia Buch, numero due della Bundesbank e unica tedesca rimasta in lizza, che però probabilmente sarà vittima dell’effetto-Weidmann (un altro tedesco, Klaus Regling, capo del fondo salvastati, si è appena autoescluso dalla competizione). Infine il gruppo è chiuso da Pablo Hernandez de Cos, madrileno, il più giovane (48 anni) fra i candidati, che si è guadagnato una menzione di merito a Francoforte (e un incarico di consulenza) da quando ha scritto una tesi di dottorato sulla Bce e poi l’ha trasformata in un libro. Se la sua candidatura non passerà non sarà colpa sua: il vicepresidente della Bce nonché l’unico membro del board che resterà in carica dopo fine anno, è l’altro spagnolo Luis de Guindos, già ministro delle Finanze con Zapatero e Rajoy. E spagnolo è anche José Manuel Campa, che si sta insediando proprio in questi giorni alla presidenza dell’Eba, l’authority europea delle banche.

Nelle due torri della Bce a Francoforte, una cittadella da 3500 dipendenti, si respira un’atmosfera di attesa, mista alla consueta febbrile attività che da sempre caratterizza questi uffici (a differenza di quelli un po’ annoiati del Berlaymont a Bruxelles).

«Qui l’Europa è un progetto concreto e realizzato da difendere ogni giorno», confida Sarah Ann Holton, economista della divisione analisi monetaria. «Draghi ha sempre valorizzato il nostro lavoro di fronte ai politici, ai ministri, all’opinione pubblica», aggiunge Johannes Lindner, capo della divisione “Istituzioni europee”. «La nostra banca è un esempio vibrante di quanto di positivo si può fare in Europa, dove lo scambio di esperienze, culture, conoscenze è continuo e produttivo», conclude Caterina Mendicino della divisione ricerca sulla politica monetaria.

All’ultimo piano, negli uffici di Draghi, inevitabilmente è tempo di bilanci. Il “whatever it takes”, le tre parole magiche pronunciate da Draghi il 26 luglio 2012, faremo tutto il necessario per salvare l’euro, sembra un ricordo lontano. Però ha improntato tutta la presidenza di Draghi, che ha messo in campo un armamentario del tutto inedito: il quantitative easing (l’acquisto di titoli di Stato che ha immesso sui mercati 2600 miliardi di nuova liquidità fra il 2015 e il 2018), i tassi a zero, i prestiti superagevolati alle banche, i rendimenti negativi per i depositi presso la Bce (-0,4%) pensati appunto per indurre le banche a impegnarsi nell’economia reale, le Omt (Outright monetary transactions), cioè la promessa di acquisti illimitati ancora di titoli di Stato se scatta l’emergenza che da sola ha stoppato la speculazione sull’euro. E via proseguendo.

«Draghi lascia la Bce totalmente cambiata rispetto al suo arrivo», conferma Lorenzo Bini Smaghi, economista e banchiere, membro del board ai tempi di Trichet. «Ha incarnato l’assioma: mai sfidare una banca centrale. E ha vinto». Semmai, riflette Rainer Masera, anch’egli economista, ex ministro del Bilancio che con Draghi ha condiviso molti anni di lavoro al Tesoro e in Bankitalia, «bisogna chiedersi, ora che spirano di nuovo venti di recessione sull’Europa, se basterà confermare la sua linea di fronte a una nuova crisi, o se bisognerà inventarsi qualche nuova misura, che al momento è difficile scorgere». Solo su un punto Weidmann ha ragione, riflette Francesco Caputo Nassetti, docente di Tecnica bancaria all’Università di Ferrara: «Portando a zero i tassi ha annullato la redditività degli investimenti a reddito fisso, su cui si basano le assicurazioni o gli investitori istituzionali. Hanno beneficiato le aziende, certo, ma ora se ci sarà da predisporre nuovi stimoli per l’economia la Bce rischia di trovarsi disarmata».

Draghi conosce il problema. E mercoledì 27 marzo ha annunciato che si prepara ad affrontarlo con nuovi strumenti. Ma senza dubbio questa sarà la principale incombenza del nuovo presidente.

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