«Basta ipocrisie: bisogna riformare il sistema finanziario in maniera radicale»
Per affrontare il global warming ci vuole un cambiamento che parta dalla Bce e arrivi al commercio dei prodotti agricoli. Parla l'economista Ann Pettifor
Ann Pettifor, 72 anni, è una tra i più stimati economisti del Regno Unito, autrice di numerosi libri, l’ultimo dei quali - uscito pochi mesi fa - si intitola “The Case for the Green New Deal”, tema su cui Pettifor scrive da oltre dieci anni. Esperta di sviluppo sostenibile e di finanza internazionale, simpatizzante laburista e attivista dei diritti umani in Africa, nel 2006 ha predetto il crac finanziario (con il suo libro “La imminente crisi mondiale del debito”) e nel 2018 ha vinto il premio Hannah Arendt per il pensiero politico. L’Espresso l’ha intervistata sull’emergenza climatica e le possibilità di cambiare, a livello europeo e globale.
Da Alexandria Ocasio-Cortez a Ursula von der Leyen, dai verdi europei a Yanis Varoufakis: tutti ora propongono un Green New Deal. Qual è l’origine di questa idea? «Nel 2007 venne convocato un incontro di ambientalisti ed economisti per discutere del rapporto tra la crisi finanziaria e quella climatica. Fu a quel punto che decidemmo di stendere un piano per affrontare queste minacce gemelle e preparammo un rapporto intitolato Green New Deal. Venne raccolto dalle Nazioni Unite e Obama ne ha parlato durante la sua campagna elettorale, ma non è mai veramente decollato. Fino all’anno scorso.».
Cosa è cambiato? «Un gruppo di americani è venuto a Londra per incontrare il team di Jeremy Corbyn e hanno bussato alla mia porta. Hanno detto di avere una candidata che si apprestava a competere nelle primarie di New York, senza alcuna possibilità di vincere. Volevano delle proposte per permetterle di fare una campagna innovativa. Abbiamo proposto una nuova versione del Green New Deal. E Alexandria Ocasio Cortez è stata eletta al Congresso degli Stati Uniti. Da quel momento tutti ne parlano, anche se ognuno ha la propria idea su cosa significhi.».
E qual è la sua interpretazione? Lei ha spesso sostenuto che affrontare la crisi climatica non significa tanto cambiare i comportamenti, quanto rivedere in maniera strutturale il sistema finanziario. «Sì, non possiamo affrontare la crisi del nostro ecosistema senza riformare il sistema economico e il sistema finanziario. Una linea diretta collega il credito emesso dalle banche, che aprono il rubinetto della liquidità senza preoccuparsi dell’utilizzo che viene fatto di quel denaro, e la spinta verso un sistema basato sull’iper-consumo e sull’iper-produzione e quindi sulle emissioni di gas serra.».
Di che tipo di cambiamento stiamo parlando? Abbiamo una nuova presidente della Banca centrale europea, Christine Lagarde: quale dovrebbe essere il ruolo di questa istituzione? «La Bce incarna il problema del sistema finanziario e monetario. La banca è fuori dalla portata di qualsiasi governo e del Parlamento europeo. La ragione per cui abbiamo rivolte populiste in tutta Europa, e la ragione per cui sia il centro-sinistra che il centro-destra sono in crisi, è perché hanno perseguito l’idea che la banca centrale non debba avere nulla a che fare con il Parlamento, né debba essere responsabile di fronte alla cittadinanza. Il primo compito della Bce è quindi quello di mettersi al servizio delle economie europee.».
Suppongo che questo si ricolleghi all’idea di mettere a disposizione liquidità per i significativi investimenti necessari per un rilancio verde delle economie europee. Da dove arriverebbero le risorse per il Green New Deal? «Lo Stato può facilmente attingere al credito, ad esempio emettendo obbligazioni e facendo acquistare tali obbligazioni dalla banca centrale per mantenere bassi i tassi di interesse. Il ruolo del governo è quello di mobilitare risorse dal sistema finanziario o dai risparmi inutilizzati per poi utilizzare tali risparmi come investimenti per il futuro».
Conosce l’obiezione classica: i paesi europei hanno già un debito elevato e questo provocherà una crisi di fiducia nei mercati. «Il motivo per cui i paesi europei sono fortemente indebitati è perché abbiamo avuto una crisi finanziaria globale che ha distrutto l’economia, ha causato una disoccupazione massiccia, soprattutto nell’Europa meridionale, distruggendo reddito e rendendo molto difficile per il settore privato investire e produrre nuova ricchezza. Se si vuole ridurre il debito, bisognare creare piena occupazione. Perché quando le persone sono occupate iniziano a pagare le tasse e questo equilibra i conti. Il settore privato non lo farà, sono troppo spaventati».
Nel caso dell’Italia suggerisce quindi un aumento una tantum del debito per promuovere investimenti verdi produttivi, anche a costo di violare le regole europee? «Sì. Il governo italiano dovrebbe investire e soprattutto dovrebbe investire per proteggere l’Italia dalla minaccia della crisi climatica. Avremo sempre più inondazioni e siccità, c’è tanto lavoro da fare e la gente deve essere mobilitata per farlo. Ma il governo italiano è immobile, dice che non può fare nulla, non può permettersi alcuna spesa, e gli italiani quindi dovranno semplicemente annegare e morire. È una follia».
Ci sono due importanti crisi industriali che potrebbero rappresentare un’opportunità in questo senso. L’Ilva di Taranto e l’Alitalia. Entrambe sono industrie altamente inquinanti, entrambe in crisi e per entrambe si parla di nazionalizzazione. Cosa propone in questo caso? «È abbastanza chiaro che dobbiamo trasformare il sistema energetico e dei trasporti. Il settore privato non correrà il rischio di smantellare le vecchie industrie inquinanti e trasformarle in qualcosa di nuovo, riqualificando i lavoratori e facendo in modo che utilizzino le loro competenze in modo più appropriato. Il settore privato, come dice Marianna Mazzuccato, è un topo impaurito. Spetta allo stato gestire la trasformazione di quelle industrie lontano dai combustibili fossili».
La questione del futuro del lavoro è sempre sul tavolo quando si parla di trasformazione ecologica e tecnologica. Molti prevedono un futuro di bassa occupazione. Lei sembra invece sostenere che si possano creare posti di lavoro e che ce ne saranno abbastanza. «Dobbiamo sostituire le emissioni di CO2 con il lavoro. In Gran Bretagna, ad esempio, non coltiviamo fagiolini perché li importiamo dal Kenya. E così facendo usiamo le riserve idriche keniote, sfruttiamo il loro lavoro e inquiniamo il mondo trasportando gli ortaggi in aereo. Tutto questo non accadrà in futuro, gli inglesi dovranno coltivare i loro fagiolini. E questo è solo un esempio di come un’economia verde avrà una maggiore intensità di manodopera di un’economia inquinante. Sarà anche più appagante e ci restituirà una vita più ricca».
Trasformare le politiche commerciali diviene dunque una chiave del Green New Deal. «Sì, il capitale attraversa il mondo per trovare la manodopera e gli standard ambientali più bassi, in modo che possa poi spedire in tutto il pianeta la sua produzione a basso costo. Ma il problema dell’economia globalizzata è che è lì per servire l’interesse del capitale e non delle persone. Per me questa non è una situazione sostenibile, dà origine all’autoritarismo e infine al fascismo. Come sostiene Karl Polanyi, quando le persone si sentono minacciate dalle forze di mercato cercano protezione nell’uomo forte».
L’Ue è un blocco commerciale unico e uno dei maggiori mercati del pianeta, il che le conferisce potenzialmente un’enorme influenza per cambiare le regole globali. Potrebbe, ad esempio, limitare l’accesso al proprio mercato alle produzioni che rispettano norme molto severe in materia di lavoro e di ambiente, così da evitare la competizione al ribasso ed elevare le condizioni a livello mondiale. Possiamo immaginare una sorta di protezionismo solidale nella politica commerciale? «Certo che possiamo e certo che dovremmo. Sono spesso critica nei confronti dell’UE, ma la sua grande forza sta proprio qui. È un’unione di stati che insieme sono più potenti contro il sistema iper-globalizzato. Per un singolo stato chiedere che Starbucks o Amazon paghino le tasse e non portino i soldi fuori dal paese è impossibile. Ma l’Europa collettivamente potrebbe esercitare un effettivo potere su queste società globali. Una delle cose che cerco sempre di sottolineare è che il sistema economico non è un sistema nazionale: non esiste un’economia italiana, ma c’è un’unica economia, l’economia globale. Questo è il sistema internazionale che dobbiamo cambiare se vogliamo cambiare quello che sta succedendo in Italia o altrove».
L’Unione è spesso accusata di essere parte integrante di un certo approccio iperglobalista. Ma, in realtà, una maggiore integrazione politica e fiscale permetterebbe di limitare lo strapotere dei mercati. Ecco tutta la falsità della dicotomia tra globalisti e nazionalisti. «Esatto, e per questo abbiamo bisogno che la sinistra diventi maggioranza in Europa. Finché non riusciremo a raggiungere questo obiettivo, avremo i fascisti al potere».
E allora parliamo di chi dovrebbe fare tutto questo. Nel 2008 c’è stato un tentativo di regolare il sistema finanziario. E sappiamo che è fallito. Perché dovrebbe essere diverso ora? «Quando scoppiò la crisi, le forze di sinistra ed ecologiste non avevano nessuna teoria sviluppata e non capivano il sistema finanziario. Nel 2008 c’è stato un momento in cui i banchieri pensavano di finire in prigione, ma con loro sorpresa i socialdemocratici hanno detto “no, non andrete in prigione, vi proteggeremo e riavvieremo il sistema”. I banchieri non potevano crederci. È questo il fallimento della sinistra di governo. Ma ora, quando si verificherà la prossima crisi, dobbiamo essere pronti. E accadrà presto, perché il sistema è più sbilanciato oggi che nel 2007. Per questo abbiamo bisogno di un piano per l’Europa e per il mondo».
Intervista realizzata in collaborazione con il Green European Journal