Investire in salute, ambiente e digitale. Creare nuovi posti di lavoro. Aumentare i salari. Perché la bufera economica provocata dalla pandemia diventi un'occasione di rinnovamento. Intervista a Daniele Archibugi, economista del Cnr

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«Sussidi alle imprese subito per progetti di ricostruzione che siano utili alla comunità». Daniele Archibugi, economista e direttore dell’Istituto di ricerca sulla popolazione e le politiche socialI del Cnr, è convinto che «servano investimenti pubblici vincolati alla ripresa. Il modo migliore per combattere le disuguaglianze è creare posti di lavoro e aumentare i salari».

Di fronte alla crisi generata dal Covid-19 sembrano tutti d’accordo sul fatto che siano necessari interventi pubblici.
«Non farli significa mandare l’economia mondiale a gambe all’aria, con un aumento della disoccupazione e fallimenti d’impresa che metterebbero a repentaglio addirittura i nostri sistemi democratici. Sono necessari subito per evitare un effetto domino su produzione e consumi, ma occorre anche pianificare gli interventi per un solido sviluppo economico e sociale di lungo periodo. L’Unione Europea è più esposta a rischi degli Stati Uniti o della Cina soprattutto perché, ben prima della crisi sanitaria, nel vecchio continente c’è stato un crollo degli investimenti privati che non è stato compensato dagli investimenti pubblici: nel 2019, il livello degli investimenti aveva raggiunto solamente il 75% del livello pre-2008».

Come mai in Europa è stato così difficile uscire dalla crisi?
«In questi anni, abbiamo visto sorgere e diventare preminenti grandi imprese in settori che prima non esistevano quali Amazon, Google, Apple, Alibaba, Baidu, Huawei. Operano tutte in settori innovativi – principalmente l’economia digitale e della comunicazion - ma sono americane oppure cinesi e nessuna è europea. Le politiche dell’austerità hanno tirato il freno a mano, ma è anche mancata la capacità imprenditoriale. Spesso ci si è fermati davanti allo spettro del mercato comune, non si è compreso che imprese competitive in settori emergenti non possono essere francesi o tedesche, ma europee. Oggi, davanti a questa crisi, occorre che ci sia anche una capacità imprenditoriale per tradurre le disponibilità finanziarie in nuovi investimenti».

Quindi immettere liquidità nel sistema per garantire la ripresa economica in Europa?
«Aumentare la liquidità è assolutamente necessario immediatamente. Ma le risorse finanziarie – siano esse derivate dal Mes, dagli Eurobond o semplicemente da titoli pubblici – in un modo o nell’altro bisogna rimborsarle. È giusto che si cerchi la forma meno onerosa di indebitamento, ma riusciremo a ripagare i debiti se avviamo la ripresa, non certo sorbendo un altro decennio di austerità. Ricordiamoci che Keynes, attento osservatore del New Deal di Roosevelt, proponeva piani di investimento finanziandoli in deficit spending, ma per aumentare i posti di lavoro, non i sussidi di disoccupazione. Oggi la lezione di Keynes deve essere temperata da quella del suo coetaneo Joseph Schumpeter: occorre investire nei settori innovativi, perché sono quelli che moltiplicano le opportunità».

Lei come Mario Draghi è stato allievo di Federico Caffè. Il professore riteneva le politiche keynesiane uno strumento utile per portare alla piena occupazione e alla solidarietà sociale. Che eredità vi ha lasciato?
«Quando mi sono iscritto alla Facoltà di Economia, Draghi era un giovane assistente di Caffè che di lui diceva: “Draghi è un drago”. Molti pensavano che Caffè esagerasse. Ma quando 36 anni dopo, nel luglio 2012, ha dichiarato che la BCE avrebbe fatto “whatever it takes to preserve the euro”, aggiungendo “and believe me, it will be enough”, tutti hanno compreso che Caffè non esagerava affatto. Un uomo riservato come Draghi si è preso sulle proprie spalle, con quel “believe me”, la responsabilità di salvare l’Euro – e con esso il progetto di integrazione europeo – con una inedita politica monetaria espansiva».

Può bastare oggi?
«No, non basta. In momenti eccezionali come questi la politica monetaria e la politica fiscale sono insufficienti per far riprendere gli investimenti. Dobbiamo ritornare ad un’altra lezione fondamentale di Caffè: lo stato imprenditore. È un decennio che il denaro in Europa è disponibile a tassi d’interesse bassissimi. Eppure, sono mancati gli imprenditori che presentassero progetti coraggiosi. In una situazione del genere, l’operatore pubblico deve scendere in campo in prima persona come fece Roosevelt nel 1929 con le sue agenzie. Promuovendo interventi nei settori strategici dell’economia. Il Fondo Innovazione può essere un buono strumento, ma un solo miliardo non sarà sufficiente».

Che cosa ha in mente?
«Sarebbe il caso che i sussidi dati alle imprese in crisi non siano a fondo perduto, ma contro progetti per interventi pubblici – siano esse infrastrutture oppure acquisto di beni e servizi - da avviare subito dopo la fine dell’emergenza sanitaria. Questi progetti possono essere anche destinati alla ricerca, ad introdurre innovazioni, a migliorare la produttività. Le imprese potrebbero così già iniziare prepararsi per riavviare la produzione».

In quale ambito ci sarebbe la capacità di farlo?
«Sono tre i settori chiave a cui dovrebbe puntare l’Unione Europea per la ricostruzione. Il primo è il settore sanitario. Ora è chiaro che non possiamo lasciare la salute nelle mani del settore privato. Le nazioni europee hanno un'eccellente infrastruttura sanitaria, anche se è stata finanziata in modo insufficiente in molti paesi. Ci sono le condizioni per arricchire le strutture già esistenti generando forme nuove di diagnosi e cura, basate sui progressi scientifici più avanzati in biologia, telemedicina e intelligenza artificiale. Il secondo è quello di trasformare in realtà il New Green Deal, in cui lo stimolo combinato fornito dai governi nazionali, Commissione europea e Banca europea per gli investimenti potrebbe davvero rendere in un decennio il continente il leader mondiale nella filiera ambientale. Il terzo è l'economia digitale, in cui l'Unione europea deve ancora emanciparsi dal potere inquietante delle imprese Big Tech. Finora, i paesi europei non sono nemmeno riusciti a ottenere da queste società la giusta quantità di tasse; il nostro potere politico dovrebbe fondare le nostre imprese su una gestione dei dati più inclusiva, trasparente e responsabile».

Sembra molto diverso dallo "helicopter money".
«La formula dell’helicopter money è stata inventata dal peggior nemico di Keynes, Milton Friedman. L’idea si basa sul fatto che, aumentando la capacità di spesa individuale, sia poi il mercato a far ripartire i consumi. Noi abbiamo bisogno esattamente del contrario, ossia di investimenti pubblici qualificati che diano lavoro alle imprese e che creino occupazione, e questo a sua volta innesterà il sostegno dei consumi».

Oggi la crisi può nuovamente aumentare la povertà e le disuguaglianze sociali. Questa strategia riuscirebbe a ridurle?
«A tutti coloro che non sono troppo giovani, troppo vecchi o malati, è sempre meglio dare un lavoro piuttosto che un sussidio. Perché il lavoro consente di acquisire competenze e di essere socialmente integrati. Aumentando il tasso di occupazione, specie se qualificata, si possono e si devono aumentare i salari.».

La storia economica insegna che dalle crisi, siano esse dettate da guerre, catastrofi e anche epidemia, prima o poi si esce. Ma in che direzione si vuole uscire? A quale Italia guardare dopo il coronavirus?
«Dalla crisi del 2008 l’Italia non era ancora uscita, e l’Eurozona ne era uscita solo a metà. In Italia, abbiamo assistito a ponti che cadono, treni che deragliano, scuole che vanno in malora, fiumi che esondano e – invece di dare ai disoccupati un lavoro per sistemarli – gli abbiamo dato il reddito di cittadinanza per stare a casa. Nel lungo periodo serve qualcosa di più. Ricordiamoci che Roberto Gualtieri, nel quinquennio in cui ha presieduto la Commissione economica del Parlamento europeo, è stato il paladino degli investimenti, anche pubblici. In Italia possiamo usare una parola che è diventata addirittura sconcia per la corruzione che ha generato: partecipazioni statali. Cambiamo il nome e impieghiamo il termine del New Deal, che le chiamò Agenzie».

Chi potrebbero essere i nuovi imprenditori?
«Vorrei una nuova generazione di imprenditori guidati dall'interesse pubblico ma efficienti come o addirittura più di quelli del settore privato. Da noi, l’emergenza sanitaria ha fatto rinascere una Italia civile, solidale e coraggiosa: per assicurare ai nostri figli anche una buona occupazione, bisogna che ora si trasformi in una Italia imprenditoriale».