L'esercito dei nuovi poveri: ecco l'Italia che non riparte
Commercianti, artigiani, partite Iva, professionisti: il virus ha azzerato il futuro di milioni di lavoratori, che rischiano di restare senza reddito ancora a lungo. Mentre i sussidi promessi dal governo tardano ad arrivare
Nell’Italia che riparte, l’Italia che prova a lasciarsi alle spalle l’incubo dell’epidemia, c’è un esercito in cerca di futuro. È l’esercito dei nuovi poveri a cui il virus ha rubato reddito e prospettive di vita. Non c’è ripresa, per loro. Non c’è ritorno alla normalità, mentre si allenta la morsa della quarantena e le strade delle nostre città si ripopolano. Milioni di famiglie restano aggrappate alla zattera della cassa integrazione. I piccoli studi professionali, le partite Iva, i giovani che campano a contrattini: tutti vedono l’orizzonte della precarietà proiettato ancora più lontano. E poi artigiani e commercianti. Per loro, ricavi in calo e spese supplementari, costretti come sono a riorganizzare l’attività secondo le linee guida dettate da un’emergenza sanitaria destinata a durare ancora lungo.
Nulla sarà più come prima, recita un facile slogan di questi giorni. Parole che in concreto, calate nella realtà di un Paese travolto dalla pandemia, rimandano ai numeri di un’emergenza sociale senza precedenti. A fine aprile l’Inps aveva già ricevuto circa quattro milioni di domande per la cassa integrazione, mentre altri due milioni di richieste riguardano l’assegno ordinario d’integrazione al reddito. Il bonus di 600 euro varato dal governo è stato chiesto finora da circa 4,4 milioni di lavoratori autonomi, a cui vanno aggiunti 500 mila professionisti, per esempio architetti, avvocati, ingegneri, che hanno bussato alle rispettive casse previdenziali private per ottenere lo stesso contributo.
I conti sono presto fatti. Secondo l’Istat, prima della pandemia erano circa 23,5 milioni gli italiani con un posto di lavoro, anche saltuario. Ebbene, a due mesi di distanza dall’inizio dell’epidemia, la quota degli occupati si è quasi dimezzata. Circa 11,2 milioni di lavoratori sono stati costretti a far ricorso a un sussidio pubblico. Se consideriamo anche i beneficiari del reddito di cittadinanza, che sono circa 2,3 milioni (tenendo conto di anziani, disabili e minori), si arriva a un totale di 13,5 milioni. Un numero impressionante, segnale evidente di un allarme sociale che certo non scomparirà insieme al virus.
L’esplosione delle spese per far fonte all’emergenza non può che incidere sul bilancio dello Stato, che a fine anno dovrà fare i conti, nella migliore delle ipotesi, con un debito pubblico pari a 2.522 miliardi, una volta e mezzo il Prodotto interno lordo. Solo la garanzia del sostegno dell’Unione Europea convincerà anche nei prossimi mesi gli investitori internazionali a sottoscrivere i nostri Btp. Non possiamo farne a meno. Le misure varate tra marzo e aprile costano almeno 155 miliardi e i prossimi mesi restano un’incognita totale, visto che nessuno è in grado di prevedere se e quando i farmaci oppure un vaccino riusciranno finalmente a debellare il contagio. L’epidemia ha investito un Paese che viaggiava sull’orlo della recessione, con il Pil che nell’ultimo trimestre del 2019 era già diminuito dello 0,3 per cento. Poca cosa rispetto al crollo atteso per i prossimi mesi. Secondo le previsioni del governo, nel 2020 l’economia italiana dovrebbe restringersi dell’8 per cento. In altre parole, quest’anno andranno in fumo circa 140 miliardi di redditi.
Per colpa del virus, gli ultimi resteranno sempre più indietro e chi prima dell’epidemia poteva contare su un reddito, anche saltuario, adesso è costretto a ricominciare da capo. Nei prossimi mesi «oltre 50 mila imprese sono destinate a chiudere e 350 mila persone perderanno il posto», questo in estrema sintesi è il futuro nero che attende bar e ristoranti secondo le previsioni della Fipe, la Federazione dei pubblici esercizi. Tra un mese si riparte, certo, ma «come si può pensare di mettere i divisori di plexigas tra i tavoli? È improponibile», riflette Daniele Gartner, uno chef che dopo alcuni anni a Londra e a Parigi è tornato in Italia, a Roma. Il ristorante dove lavora, una delle più antiche pescherie della città, ha chiuso a marzo, come tutti gli altri, e Daniele adesso è in cassa integrazione. «Ma non ho ancora ricevuto nulla», spiega: «Per fortuna la proprietaria dell’appartamento dove vivo è una persona straordinaria e non mi sta facendo pagare l’affitto. Altrimenti non saprei come fare. Non ho risparmi, vivo del mio lavoro».
Programmare la prossima stagione, fare i conti con un futuro di cui si riescono a vedere solo incognite e problemi, è diventato un esercizio doloroso anche per gli imprenditori di successo, proprietari o gestori di locali con una lunga storia alle spalle. «Da giugno in poi, nel migliore dei casi, lavoreremo con incassi ridotti del 70-80 per cento», prevede Aldo Cursano, che possiede due ristoranti e un caffè storico a Firenze, città d’arte che la prossima estate dovrà fare i conti anche con l’azzeramento del turismo internazionale.
«Non so proprio quando e come riusciremo a riprenderci», dice l’imprenditore toscano. Alle sue dipendenze lavoravano una quarantina di persone, «ma nessuno ha ancora ricevuto un euro di cassa integrazione», lamenta Cursano. L’azzeramento dei ricavi causato dal lockdown rischia di spegnere per sempre le insegne di migliaia di locali, costretti a prolungare la chiusura almeno fino all’inizio di giugno. Tre mesi senza incassi diventano il trampolino verso il crack. C’è la moratoria sui debiti, quella varata dal governo con il decreto Cura Italia, ma per migliaia di piccoli esercenti il paracadute dello Stato rischia di rivelarsi un aiuto tardivo e insufficiente, così come i prestiti fino a 25 mila euro con garanzia pubblica. Sono oltre 1,3 milioni le domande per lo stop agli interessi sui prestiti ricevute nell’ultimo mese dal sistema bancario. La burocrazia, però, ha finora rallentato molto le pratiche per la concessione dei finanziamenti. Per gli imprenditori già esposti verso gli istituti di credito si è così rivelato quasi impossibile accedere ai fidi.
«Il governo propone prestiti fino a 25 mila euro, che però sono nuovi debiti e prima o poi andranno rimborsati», protesta Tiziana Chiorboli, parrucchiera di Rovigo. I coiffeur in Italia sono 130 mila con oltre 250 mila dipendenti e nei primi due mesi di chiusura forzata hanno già dovuto rinunciare a più di un miliardo di ricavi. A giugno riapriranno, con nuove spese in vista per adeguare i saloni alle nuove norme sul distanziamento, ma «di questo passo rischia la chiusura soprattutto chi in passato ha investito di più nel rispetto della legge dice Chiorboli - mentre gli abusivi se la cavano».
Da inizio giugno, comunque, per i parrucchieri il lavoro non mancherà di certo.
Ben diverse sono le prospettive per gli stagionali che ogni estate trovano un impiego sulle spiagge, nei bar, nei ristoranti e nei negozi delle località balneari, in montagna e nelle città d’arte. Nei prossimi mesi, il turismo rischia di chiudere causa virus, azzerando i redditi di oltre un milione e mezzo di lavoratori. Marco Porta è uno di loro. L’inverno scorso, come ogni anno, ha trovato un impiego sulle piste da sci e a partire da maggio aveva in programma di trasferirsi in Liguria come bagnino. «Sono senza reddito da marzo - racconta Marco - con la fine improvvisa e anticipata della stagione sciistica». A fine maggio sarebbe dovuto cominciare il nuovo lavoro al mare. Ma il titolare dello stabilimento balneare non sa ancora quando aprirà e neppure di quanto personale avrà bisogno.
«Il poco denaro che avevo accantonato lo sto usando per pagare l’affitto di casa e ho chiesto un aiuto al comune per fare la spesa», dice Marco. La sua storia è molto simile a quella di Mary, che ogni estate ormai da dieci anni viene chiamata come animatrice in un hotel sul mare di San Benedetto del Tronto. Per lei, 50 euro al giorno da giugno a settembre. Non è granché, ma suo marito, dipendente di un’azienda del territorio, assicurava il resto. Zumba, aerobica, fitness. «Col tempo sono diventata un punto di riferimento per gli ospiti», racconta. «Nonostante la mia età, 52 anni, lo faccio con l’entusiasmo di una ragazzina». Poi, il Covid. «Mio marito è in cassa integrazione da marzo», spiega Mary: «Io ho fatto richiesta del sostegno per i lavoratori del turismo e dello spettacolo, ma non ho ancora visto nulla».
Anche i bonus, però, sono una soluzione a tempo, provvisoria. I primi 600 euro per il mese di marzo. Qualcosa in più per aprile, ha promesso il governo. Nuovi sussidi a maggio e poi chissà. La seconda metà dell’anno resta un’incognita totale. In prospettiva c’è il cosiddetto reddito d’emergenza, che nei piani dell’esecutivo dovrebbe assicurare di che vivere ad almeno un milione di famiglie, nuovi poveri travolti dall’emergenza Covid. E poi? Per quanto tempo ancora lo Stato potrà permettersi di arginare il crollo dei redditi innescato dalla pandemia? In questi mesi segnati dall’angoscia sono questi gli interrogativi che segnano l’esistenza di piccoli imprenditori di se stessi come Massimo, pagato a partita Iva per montare palchi, luci, box, dai concerti dell’Umbria Jazz alle pareti di negozi d’alta moda a Parigi, un professionista che non si muove per meno di 200 euro al giorno. «Marzo, aprile e maggio sono i mesi in cui nel mio settore si lavora di più», racconta Massimo. «E quest’anno - spiega - avevo veramente tante richieste, da Friburgo a Milano, alla Francia». Scomparse, da un giorno all’altro. Tutto il mondo degli eventi e dello spettacolo è sfumato il 20 febbraio. Massimo è a casa adesso. Ha ricevuto i primi 600 euro del bonus. Adesso aspetta il sussidio di aprile. «Ma non posso vivere solo con questi soldi», dice.
Barbara Loss, consulente fiscale a partita Iva, racconta che da febbraio, con le aziende chiuse, non lavora praticamente più. Ho ricevuto i 600 euro, ma nessun altro aiuto. «E devo comunque far fronte ad affitto, bollette e fornitori», protesta. Una storia che va moltiplicata per migliaia di casi da un capo all’altro dalla Penisola. Tra i lavoratori autonomi, molto spesso professionisti laureati, sono i giovani a pagare un prezzo altissimo alla crisi di questi mesi. Anni di studi e di progetti spazzati via.
I dati diffusi dagli enti previdenziali privati raccontano di una crisi senza precedenti. Oltre 88 mila ingegneri ed architetti hanno fatto richiesta di un sussidio alla loro cassa pensionistica. Gli avvocati nella stessa situazione sono più di 140 mila. E la grande maggioranza di questi professionisti in difficoltà sono junior che lavorano come dipendenti, spesso con compensi irrisori o addirittura con semplici rimborsi spese. Poi ci sono i titolari di piccoli studi, che hanno visto crollare le entrate e temono di non poter più riaprire. Gian Paolo Maraini, avvocato civilista, ha uno studio legale a Genova, un mutuo sull’ufficio, le utenze da pagare, svariati collaboratori e una segretaria che per il momento sta smaltendo le ferie. «Ho aperto da poco - racconta - ma è davvero dura». A tal punto che Maraini sta pensando di accettare l’offerta di un collega, associandosi al suo studio. «Con i tribunali chiusi per l’emergenza sanitaria, il lavoro è calato di oltre il 50 per cento», spiega l’avvocato romano Roberto de Berardinis. E diventa difficile incassare anche le fatture dei mesi scorsi, perché i clienti smettono di pagare.
Molto spesso i 25 mila euro del prestito con garanzia pubblica non bastano a far fronte ai problemi di liquidità, che si aggravano di settimana in settimana. Come in un domino infinito, a milioni le piccole imprese non saldano i debiti con i fornitori, che a loro volta, con le casse vuote, non sono in grado di onorare i propri impegni. Questa spirale di perdite e debiti rischia di spingere al capolinea al fallimento le imprese più fragili, quelle meno dotate di capitali propri, già in affanno prima della pandemia. E infine c’è il guaio tutto italiano della burocrazia, che finisce per peggiorare la situazione, come spiega il commercialista Raffaele Di Capua. «Le aziende chiedono di accedere alla cassa integrazione, ma i soldi tardano ad arrivare. Tra i miei clienti, parlo di alcune decine di società, non ne ricordo uno che abbia già ricevuto una risposta dallo Stato».
Tutte le analisi di queste settimane paventano il rischio di fallimenti a catena, con un aumento delle insolvenze almeno del 20 per cento in Europa. In questo contesto a dir poco drammatico, l’Italia deve scontare una debolezza in più, visto che, come segnalano le statistiche più recenti del centro studi dell’Ocse, quasi il 60 per cento della forza lavoro è impiegata in aziende con meno di 20 dipendenti, le meno attrezzate per far fronte alla crisi. Come dire che, rispetto ad altri grandi Paesi come Francia e Germania, il nostro sistema produttivo è molto più esposto agli attacchi del virus. E il vaccino dei sussidi di Stato potrebbe alla fine rivelarsi insufficiente.