Con uno zoccolo minimo di cash da distribuire senza condizioni la crisi sarebbe stata meno dura per molti. L’idea eretica dell'economista e filosofo Philippe Van Parijs

Philippe Van Parijs
Il reddito di base incondizionato «rende le nostre economie e le nostre società più resilienti in tempo di crisi». Ne è convinto Philippe Van Parijs, filosofo ed economista, docente all’università di Lovanio e fondatore del Basic Income Earth Network, la rete mondiale che si batte per l’introduzione del reddito di base incondizionato e universale. Da quasi 40 anni Van Parijs sostiene l’idea del “basic income”, un reddito da corrispondere a tutti, ricchi e poveri, senza contropartite lavorative. L’Espresso lo ha intervistato adesso che - dalla Spagna agli Stati Uniti, dal Regno Unito all’Italia - non si contano le proposte legislative che prevedono nuove forme di redditi e sussidi per contrastare gli effetti sociali della pandemia.

Reddito di emergenza, reddito minimo di sussistenza, emergency universal basic income, estensione del reddito di cittadinanza, reddito da quarantena etc. Sono tante le misure proposte o già introdotte che rimandano al reddito di base: cosa hanno in comune? Quanto c’è di buono? Quali i loro limiti?
«Sono misure positive, anche se provvisorie e più o meno ambiziose a seconda dei contesti. In comune hanno il fatto di fornire una protezione sociale, economica, a quanti non sono protetti dai sistemi esistenti. Il loro limite sono le condizioni: le procedure burocratiche per ottenere i sussidi, il fatto che serva un’informazione capillare, che non raggiunge tutti. Negli Stati Uniti, per esempio, coloro per i quali è più importante ricevere i sussidi in denaro li otterranno dopo diverse settimane. Molti pur avendone diritto non li riceveranno».

C’è chi associa il reddito d’emergenza a misure come l’Helicopter Money e il Quantitative Easing for the People. Di cosa si tratta?
«Quantitative Easing significa creare moneta, aumentare la circolazione del denaro per decisione di una banca centrale, così da rilanciare l’economia, quando c’è bisogno di più inflazione. Il modo più ortodosso per farlo è riducendo i tassi di interesse, così da incoraggiare le banche private a fare prestiti alle imprese e alle persone. Ma c’è un altro modo, definito con due espressioni a volte intercambiabili, Quantitative Easing for the People (Qep) ed Helicopter Money: creare moneta e distribuire i soldi direttamente sui conti bancari dei cittadini. La versione più semplice per farlo è un reddito universale per tutti i residenti, di uguale entità per tutti. Ma il Quantitative Easing for the People è una misura occasionale, a cui si può ricorre soltanto una o due volte. Con l’economia in ripresa, condurrebbe a un’inflazione eccessiva. Ha un vincolo tempistico».

Il limite di queste misure è il fatto di essere vincolate nel tempo, di rispondere a una logica emergenziale?
«Sono misure limitate, sì, ma in virtù del loro obiettivo circoscritto: aiutare la gente a sopravvivere nella quarantena, prima della ripresa, e poi rilanciare l’economia. Il reddito di base incondizionato ha obiettivi, modalità e vantaggi diversi, al di là del carattere temporale (permanente anziché provvisorio). Per esempio, non si può finanziare con l’aumento del debito pubblico, con la creazione permanente di moneta. Per farlo serve una forma redistributiva, finanziata in parte dalle imposte. L’altra differenza è che i sussidi d’emergenza possono sommarsi agli altri sussidi esistenti. Il reddito di base permanente invece deve essere parzialmente sostitutivo, in particolare dei sussidi inferiori al livello del reddito di base. In ogni caso, il basic income non mira a sostituire i sistemi di assicurazione sociale esistenti, ma a integrarli, riducendone alcuni. Va considerato come uno zoccolo duro, posto sotto la distribuzione dei redditi e altre forme di protezione sociale».

La bomba sociale
L'esercito dei nuovi poveri: ecco l'Italia che non riparte
30/4/2020
Lei sostiene che l’introduzione di un reddito di base possa rendere le nostre economie e società più giuste e resilienti, anche di fronte alle crisi. Come?

«Gli effetti di resilienza sono evidenti. Se in questo periodo ci fosse stato un reddito di base incondizionato, non sarebbero servite nuove misure per dare sicurezza economica a tutti. Le misure integrative, anche quando necessarie - per esempio per evitare la bancarotta delle imprese - sarebbero state meno urgenti, di entità più ridotta, perché ognuno avrebbe già avuto una sicurezza di base. Anche nella fase di uscita dalla recessione sarebbe più facile introdurre il Quantitative Easing: basterebbe aumentare il livello mensile del reddito di base. Con il basic income avremmo dunque una struttura molto più solida. Non solo l’economia, ma l’intera società sarebbe più resiliente allo shock. Non verrebbe meno l’urgenza, l’emergenza, ma i cittadini potrebbero contare su una base solida. Quel che manca oggi».

Le stime sui posti di lavoro distrutti dalla pandemia sono drammatiche. Qualcuno torna a invocare l’idea dello Stato come “datore di lavoro di ultima istanza”. Dietro c’è la convinzione che la piena occupazione sia un ideale giusto e realizzabile. Che cosa ne pensa?
«Distinguo due interpretazioni di piena occupazione. Secondo la prima, nella nostra società tutti devono avere un lavoro remunerato a tempo pieno, per tutta la vita. Per la seconda, tutti quelli che vogliono svolgere un lavoro remunerato devono avere la possibilità di trovare un lavoro che faccia per loro. Il primo obiettivo è ormai assurdo, a causa dell’evoluzione tecnologica e dell’emancipazione femminile. Il secondo invece è importante. Occorre riformare le istituzioni affinché favoriscano l’accesso a un lavoro che abbia senso, per tutti. Il reddito di base può contribuire, combinato a una rivoluzione del sistema d’insegnamento, quel che viene definito “life long blended learning,” un apprendimento permanente».

Finita l’emergenza, torneranno le obiezioni all’idea di un reddito di base versato a tutti. Anche John Rawls era contrario a pagare i “surfisti di Malibu” per starsene sulla spiaggia. Come replica?
«Il reddito universale non deriva dal lavoro attuale, ma è parte del surplus del lavoro passato, degli investimenti, delle innovazioni nella tecnologia e nell’organizzazione sociale. Si tratta di distribuire in modo universale una parte di questo surplus. In questo modo tutti (non solo i ricchi) avrebbero la libertà di scegliere cosa fare della propria vita. Il reddito inoltre non è garanzia di stima e rispetto. Con il reddito di base non vengono meno le sanzioni sociali e morali né l’obbligo morale di fare qualcosa per gli altri, condizione di ogni società buona. Al contrario: potendosi combinare con altri redditi di lavoro, ti dà maggiori possibilità di svolgere attività, pagate o meno, che siano utili anche agli altri».

In Europa si discute sui meccanismi di solidarietà per condividere il debito necessario a far fronte agli effetti della pandemia. Per superare gli egoismi nazionali non servirebbero strumenti automatici di solidarietà interna, come un euro-dividendo?
«Il punto è centrale: dobbiamo passare dalla solidarietà calda - l’azione spontanea non obbligatoria - alla solidarietà fredda delle istituzioni. ll nostro welfare nazionale non è altro che solidarietà istituzionalizzata, fredda. Anche a livello europeo, dunque, vanno introdotti meccanismi istituzionali automatici, come gli eurobond. Un euro-dividendo è un modo permanente per aiutare i Paesi più deboli, specie nei periodi di crisi. È costituito dalla base dei redditi di tutti gli europei, pagati da tutti secondo le proprie possibilità, con forme di tassazione e redistribuzione. Sarebbe uno stabilizzatore macroeconomico e anche un elemento di solidarietà tra i Paesi. Oltre che una fonte cruciale di legittimità e identità per l’Europa intera. In termini generali, infatti, la solidarietà va pensata insieme a tre aspetti di reciprocità: identificazione, dipendenza, fiducia. In Europa c’è una forte interdipendenza, cresciuta con il tempo, ma l’identificazione reciproca è debole, come la fiducia. In questa fase i governi nazionali devono prendere decisioni difficili. Creare identificazione e fiducia a livello europeo è complicato, ma non ci sono alternative».