Le piattaforme che “distribuiscono” lavoro si muovono in un panorama quasi senza regole. E i lavoratori, autonomi sulla carta, sono in realtà dipendenti privi di diritti. Ecco le cifre delle principali app usate dai rider e non solo

Sessantuno minuti di lavoro per due euro e ottanta centesimi. Francesco fa il rider e sfreccia fra le strade di Milano. Lo schermo del cellulare s’illumina, c’è una consegna da fare per Glovo. Arriva al ristorante, ma i piatti non sono ancora pronti. Si siede. Aspetta. «I primi cinque minuti di attesa non sono retribuiti. Poi scatta un rimborso di 0,05 centesimi al minuto», spiega Francesco. Nel frattempo altri clienti entrano ed escono per ritirare la cena. Francesco, invece, continua ad aspettare: «Sono rimasto lì per un’ora e un minuto. Ero arrabbiato. Finché non avessi consegnato quell’ordine, non avrei ricevuto nuove consegne, quindi zero soldi», dice Francesco, che continua: «È sempre così. Tutte le sere c’è da aspettare fra i trenta e i quaranta minuti sulla soglia dei ristoranti». Sarebbe giusto pagare Francesco per quest’attesa? «Certamente. Il tempo o lo sforzo di un lavoratore impiegato al di fuori degli orari prestabiliti per il tempo di consegna si chiama lavoro non retribuito», dice Valeria Pulignano, docente di Sociologia del Lavoro all’Università di Lovanio, in Belgio, che ha realizzato l’indagine scientifica “Working for Nothing in the Platform Economy”, ovvero “Lavorare per nulla nell’economia delle piattaforme”.

 

Basandosi su centinaia di interviste a freelance e rider e dopo due anni di ricerca, la docente ha concluso che «la precarietà delle persone alle dipendenze di una piattaforma deriva per lo più dal fatto che troppo lavoro viene offerto gratuitamente. Non si raggiunge neppure i minimi salariali e ne risente la dignità delle persone». Pulignano da tempo studia il platform work e fa anche parte di un team di esperti che, per conto della Commissione Europea, sta elaborando una nuova direttiva per migliorare le condizioni occupazionali dei lavoratori digitali. Del resto, come racconta un recente dossier dell’Inapp, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, sono sempre di più le persone che sbarcano il lunario grazie alle piattaforme. E non sono lavoretti, perché in Italia il 72 per cento dei 570.521 platform worker considera quell’attività la sua principale fonte di reddito. Il 35 per cento dei platform worker è occupato solo via web e svolge quindi un’attività poco visibile tra consulenze, traduzioni, progettazione di qualsiasi tipo (dal design alla grafica), programmazione informatica, realizzazione di spazi web e così via.

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Una minoranza che non arriva al dieci per cento sfrutta le piattaforme per trovare un’occupazione di assistenza alla persona, dalle babysitter alle colf, fino alle badanti. Mentre i rider veri e propri sono il 36 per cento: «I rider sono sfruttati, certamente. Ma essendo molto visibili - perché è impossibile non notarli sfrecciare per le strade delle città - è stato fatto molto per il loro diritto alla salute, alla sicurezza, al salario adeguato», spiega Tania Scacchetti, segretaria confederale della Cgil, che continua: «Al contrario è difficile aiutare chi lavora solo sul web, perché non riusciamo a raggiungerli, a conoscerne le condizioni di sfruttamento e precariato. Sappiamo che sono sottopagati e privi di qualsiasi diritto, restano incollati a un pc e ben lontani dal raggiungere qualsiasi garanzia reddituale. Post covid queste forme di lavoro stanno diventando sempre più diffuse e per questo sarà obiettivo del sindacato trovare la strada per tutelare queste persone», promette Scacchetti.

 

Nel frattempo l’assenza di regole è un affare d’oro. Jeff Bezos, infatti, ha creato Amazon Mechanical Turk, un sito web per offrire lavori di vario genere, poco pagati, da svolgere esclusivamente online, senza mai uscire da casa. La paga varia dai tre ai 10 euro l’ora, a seconda della complessità dei compiti. L’esplosione del platform work sta velocemente riportando il lavoro verso forme di becero cottimo: Inapp dice che il 75 per cento dei lavoratori delle piattaforme non ha neppure un contratto scritto e in oltre un caso su dieci le piattaforme nascondo fenomeni di caporalato digitale, perché i lavoratori non gestiscono direttamente il proprio account digitale, che invece viene amministrato da terzi, che incassano parte del loro guadagno. Che poi è l’accusa mossa dal Tribunale di Milano al delivery Just Eat lo scorso anno, prima che la piattaforma, su indicazione della procura, procedesse all’assunzione del personale.

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Per porre un freno a queste forme di sfruttamento la Commissione Europea ha deciso di avviare un’iniziativa legislativa e, fra le maggiori innovazioni, propone l’inversione dell’onere della prova: cioè saranno le aziende a dover dimostrare che i rider e i freelance non sono dipendenti. Tutto da scrivere, invece, il capitolo riguardante l’ipersfruttamento: «La direttiva non affronta direttamente la questione dell’orario di lavoro che può essere un’importante fonte di attività non retribuita. Quando ci sono sistemi di pagamento basati sui giga, ad esempio, il problema del lavoro non retribuito può spesso essere esacerbato rispetto alle piattaforme che applicano guadagni orari. Inoltre, e questo è particolarmente vero nelle piattaforme di consegna di cibo, i lavoratori possono essere assunti come dipendenti dalla piattaforma o tramite agenzie interinali. In entrambi i casi, la nostra evidenza empirica mostra che orari e turni non possono ancora essere garantiti perché i lavoratori non sanno quanto e quando lavoreranno», spiega Pulignano.

 

In tutti i lavori su piattaforma esiste una quantità elevata di lavoro non retribuito. Partiamo dal delivery food. Glovo e Deliveroo pagano i corrieri a cottimo, mentre il tempo trascorso su strada o ad attendere fuori da un ristorante, non viene remunerato. È il caso di Francesco e di molti altri come lui. Invece Marwan, un rider italiano di Deliveroo, racconta che è possibile prenotare dei turni: «I fattorini che, secondo l’algoritmo, sono più performanti, hanno la precedenza. Chi è nuovo deve passare parecchie ore incollato allo smartphone, continuando a ricaricare la pagina dell’applicazione, e sperare di ottenere un turno», racconta il rider. Oltre alla quantità di tempo trascorsa davanti all’applicazione, lavorare su turni fa letteralmente a pugni con la pretesa dei delivery food di offrire collaborazioni libere e autonome.

 

Quando qualcosa va storto, il rider contatta la chat virtuale di assistenza: «L’ampia evidenza empirica dice che ci vogliono parecchie ore per ottenere una reazione dai risponditori automatici, che corrisponde a molte ore di lavoro non retribuito», scrive Pulignano nel dossier. «Con Glovo ho dovuto ricorrere all’assistenza più volte. Il caso non si è mai risolto in meno di mezz’ora», dice una rider. «Ogni malfunzionamento significa perdere tempo, perdere ordini, e fino alla chiusura di quel caso non è possibile attivare altre consegne», dice un altro lavoratore. I tempi di consegna possono essere rallentati da errori negli indirizzi di consegna dei clienti. Non va meglio quando i rider sono assunti con un pagamento orario. In Belgio la piattaforma Takeaway bilancia l’extra costo dei contratti aumentando a dismisura i ritmi di e riducendo al minimo i tempi morti: «Non c’è sosta. Quando sto per recapitare un pasto, arriva subito l’ordine successivo», scrive un rider belga.

 

Takeaway monitora le performance dei lavoratori, il tempo tra il ristorante e il cliente e «se fai meno di due consegne l’ora ricevi un avvertimento. Al terzo sei licenziato», racconta il rider. In Italia è Mymenu ad aver regolarizzato i rider, ma nonostante questo gli straordinari non sono retribuiti: «Capita che il turno finisca alle 20 e ricevo l’ordine alle 19.56. Significa che il più delle volte smonto non prima delle 21 e non vengo pagato per quell’extra lavoro». Prima di iniziare il turno la piattaforma chiede al lavoratore se è disponibile allo straordinario, altrimenti la piattaforma lo punisce riducendo il turno di mezz’ora. «Il tempo extra viene remunerato di minuto in minuto», dice Luigi, rider di Mymenu.

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In tutte le piattaforme bici e smartphone sono a carico del rider, così come l’attrezzatura: «Glovo trattiene 65 euro dalla prima busta paga per far pagare il costo della borsa per gli alimenti e del caricatore portatile del telefono. La società promette di rimborsare 50 euro alla fine del contratto, ma nessuno riceve indietro quel denaro perché la piattaforma dice che l’attrezzatura è troppo usurata», dice un ciclo fattorino.

 

Tra i freelance le piattaforme più sfruttate sono Upwork e Mechanical Turk di Amazon, mentre parla esclusivamente italiano AddLance. Malt invece è francese e Jellow è olandese. Quest’ultima è la meno problematica perché, a differenza delle altre, la reputazione dei freelance e l’incontro fra domanda e offerta è gestito da uno staff di persone. In tutte le altre c’è solo l’algoritmo: «La reputazione cresce lavorando il più possibile e spesso si accettano commesse a basso costo pur di restare nella top ten dei professionisti», racconta un traduttore di bozze.

 

«Sapendo che ci sono molti altri sulla piattaforma, si tende a offrire il proprio lavoro a un prezzo molto, ma molto basso», dice Nadia. «Per accrescere la possibilità di essere fra i primi in classifica si offre anche lavoro gratis», aggiunge Pietro, che continua: «Si lavora anche 70 ore a settimana per uno stipendio minimo», ovvero 600 euro al mese. Nelle piattaforme internazionali, come Upwork, «c’è sempre un freelance indiano disposto a lavorare per nulla». In Italia alle piattaforme può accedere chiunque, quindi spesso a vincere le commesse sono abusivi o persone senza esperienza, senza previdenza sociale e partita Iva, che non avendo il costo di tasse e contributi possono permettersi di lavorare a costi più bassi.

 

Molto tempo se ne va nella ricerca delle offerte: «Bisogna restare incollati all’applicazione per non farsi scappare le nuove proposte di lavoro», racconta la platform worker Jessica. «Spendiamo più tempo nel cercare le offerte che a lavorare», dice Matilda. Mentre nell’italiana AddLance c’è un problema di dumping salariale: «Ci sono delle gare virtuali per l’assegnazione dei lavori. Per vincerle molti svendono la propria professionalità e offrono prezzari da fame. Alle volte si lavora praticamente gratis», dice una freelance. Per accedere alle offerte migliori in alcuni casi è necessario acquistare una posizione premium, una sorta di costosa corsia preferenziale che consente di ottenere i lavori migliori. Ma questo significa rinunciare a una consistente fetta del fatturato. La reputazione, oltre che dalla disponibilità a lavorare h24, dipende anche dai commenti dei clienti: «Spesso richiedono correzioni e aggiunte non previste dal contratto. Sono costretto a offrirle gratis per evitare una recensione negativa», dice Laura di Upwork. I lavoratori sanno che c’è uno spazio molto stretto per la negoziazione: «Il cliente mi contatta dicendomi che c’è un grosso problema con la mia traduzione, che non andava per nulla bene. Così ho proposto di essere pagata la metà, da 1.600 a 800 euro, per evitare una recensione negativa che avrebbe compromesso il mio profilo», dice Milena.

 

Pulignano, attraverso la sua ricerca, ha per la prima volta dato voce ai lavoratori del web: «Serve più dibattito sullo stato occupazionale di queste persone, che sono sempre più numerose, ma restano frammentate nelle loro rivendicazione e stentano a ottenere diritti collettivi. Proprio il sindacato potrebbe offrire una risposta ai tanti lavoratori coinvolti».