Fabbriche in crisi

Da Magneti Marelli a Gkn: la finanza si mangia il meglio dell'industria italiana

di Gloria Riva   2 novembre 2023

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La nascita di Stellantis ha spostato il baricentro dell'automotive in Francia, lasciando l'Italia e la sua manifattura in balia di fondi d'investimento e speculazioni. E il governo sta a guardare

Quando l’industria incontra la finanza, spesso la prima soccombe. È successo per la Gkn di Campi Bisenzio ora al centro di una speculazione immobiliare. E sta succedendo alla Magneti Marelli di Crevalcore che, a sua volta, è stata una costola dell’ex gruppo Fca, specializzata nella produzione di collettori e pressofusori, due componenti del controllo del motore a combustione. In questo secondo caso la nuova casa madre nipponica, subentrata a Fca nel 2019, ha deciso di sacrificare lo stabilimento sull’altare del nuovo motore elettrico. La grande perdente è l’attività industriale e, con essa, il lavoro: ai 185 dipendenti rimasti in Gkn (erano più del doppio prima che il fondo d'investimento Melrose decidesse di chiudere, senza mai aver fatto un’ora di cassa integrazione) si sommano i 229 lavoratori della Marelli di Crevalcore, appesi a una trattativa sindacale, che coinvolge la Regione Emilia-Romagna e il ministero del Made in Italy, per cercare un nuovo imprenditore: cinque i potenziali acquirenti.

 

Per capire cosa non abbia funzionato alla Magneti Marelli, ma anche allo stabilimento di Campi Bisenzio, è necessario tornare ai tempi in cui la strategia industriale degli Agnelli era produrre automobili in Italia e, per farlo, si basava su un sistema verticalizzato, ovvero controllando sia le fabbriche di assemblaggio sia quelle della componentistica. E infatti, a titolo di esempio, l’ex Gkn produceva gli assi e i semiassi per tutte le auto Fca – dall’Alfa Romeo alla Maserati, dalla Jeep alla Panda, fino ai ai veicoli commerciali Ducato – destinati a tutti gli stabilimenti di assemblaggio del gruppo: Melfi, Cassino, Pomigliano, Mirafiori. Tutte produzioni che il fondo d’investimento inglese Melrose ha deciso di delocalizzare altrove, all’insegna di una mera logica di razionalizzazione, che nulla ha a che vedere con la transizione ecologica, visto che il semiasse è un componente indispensabile per l’auto elettrica, e senza che il governo o il cliente finale (Stellantis) battessero ciglio sulla desertificazione industriale in atto. Diverso il caso della Magneti Marelli, divisione ex Fiat che si occupa della produzione di accessori, dall’impianto luci all’elettronica, dalle plastiche ad alcuni dettagli del motore a scoppio, come i corpi farfallati, che sono un particolare del motore realizzato proprio a Crevalcore.

 

In un’ottica di disinvestimento dal settore automotive, l’allora Fca ha deciso di disarticolare quel tessuto interconnesso, cedendo tutti gli impianti non direttamente connessi all’assemblaggio: un pezzo al fondo Melrose, l’altro ai nipponici di Calsonic Kansei guidati da David Slump che, a sua volta, è controllata dal fondo d’investimento Kkr. Successivamente l’italiana Fca della famiglia Agnelli si è unita in matrimonio alla francese Psa, con un convitato di pietra, ovvero lo Stato francese, attuale detentore di una quota rilevante della neonata Stellantis e, quindi, con voce in capitolo nelle scelte strategiche del gruppo. La francesizzazione del colosso dell’automotive non è stata immediatamente compresa dall’Italia: nel 2022, cioè un anno dopo la fusione di Fca con Psa, il Copasir, grazie all’attenta analisi dei servizi segreti, ha scoperto che il baricentro di Stellantis stava al di là delle Alpi e questa dinamica era rischiosa per gli interessi strategici italiani. Meglio tardi che mai. È la stessa Magneti Marelli Group ad affermare che Crevalcore è in crisi non tanto per la transizione energetica, quanto perché il proprio cliente finale, ovvero Stellantis, produce poco in Italia e molto di più in Francia, dove c’è un altro fornitore che si chiama Forvia: in numeri, le auto prodotte in Italia sono 400 mila, mentre in Francia se ne fanno oltre un milione. Considerando anche l’immissione nel mercato europeo di auto cinesi, elettriche e a buon mercato, il rischio è che la dismissione di Crevalcore sia solo l’inizio: «La comunicazione della chiusura (poi ritirata) di Crevalcore ci ha preso alla sprovvista. Da tempo chiedevamo all’azienda un piano di investimenti per lo stabilimento bolognese, come quello realizzato su Bari e Caivano», dice Ferdinando Uliano della Fim Cisl.

 

Adolfo Urso

 

Resta da capire quale sia la strategia industriale dei giapponesi di Calsonic Kansei che, a partire dal 2019, ha assunto il nome Magneti Marelli. Il bilancio della Magneti Marelli Europe spa – che comprende 11 impianti italiani con 7.200 dipendenti, sedi in Francia, Germania, Spagna, Romania, Regno Unito, Serbia, Argentina, Cina, India – dice che il ’22 è stato chiuso con una perdita di 465,5 milioni, l’anno precedente era a meno 567 milioni. Il patrimonio netto continua a essere in territorio positivo per 167 milioni. «Finora la proprietà non aveva toccato la forza lavoro diretta, mentre aveva puntato sugli indiretti, cioè gli impiegati, in un’ottica di razionalizzazione», commenta Uliano.

 

Al tavolo di trattativa della Marelli di Crevalcore, l’azienda ha lamentato l’elevato costo dell’energia, nonostante l’azienda abbia ricevuto 4,3 milioni di contributi pubblici, di cui 2,6 milioni per abbattere i costi energetici, il resto per la formazione dei dipendenti e sostegno della ricerca e sviluppo. Metà di ciò che viene prodotto dalla Magneti Marelli Europe proviene dalle fabbriche italiane (46 per cento, per un valore complessivo di 383 milioni di euro di beni), il 31 per cento è realizzato all’interno dei confini dell’Ue, il 16 per cento proviene dal Nord e dal Centro America, solo il 4,6 per cento è made in Asia. A stupire è la ricchezza della capogruppo, che chiude il ’22 a 404.390.000 yen, ovvero 2,5 miliardi di euro di utili. È possibile che le altre aziende del gruppo siano nettamente più performanti del ramo europeo, ma è anche probabile che ci sia una ragione contabile. Molto del fatturato di Marelli Europe è intercompany, con un’elevata quota del materiale prodotto nelle aziende italiane e venduto a società del gruppo. La marginalità garantita dal ramo commerciale resta in capo alla capogruppo, anziché alle fabbriche italiane che, quindi, arrancano dal punto di vista contabile. Eccola, la finanza che batte l’industria. «È una strategia economicamente, fiscalmente e finanziariamente vantaggiosa per le multinazionali che, tuttavia, rende sempre più difficile comprendere la ricchezza generata in ciascuno stabilimento produttivo», commenta Samuele Lodi della Fiom Cgil.

 

Vincenzo Colla

 

Tornando alla Marelli di Crevalcore, la proprietà afferma che lo stabilimento bolognese genera una perdita annua di sei milioni. Tuttavia, Lodi fa notare che la fabbrica è strategica per la lavorazione dell’alluminio, fondamentale per l’auto del futuro: «La decisione della proprietà è spostare a Bari la lavorazione plastica ed esternalizzare la produzione di alluminio. È un errore strategico: l’alluminio, che pesa meno dell’acciaio, assumerà sempre maggiore importanza per l’auto elettrica, per esempio per i basamenti di inverter e batteria, in un’ottica di riduzione del peso dell’auto». Parole condivise dall’assessore regionale allo Sviluppo industriale, Vincenzo Colla. Proprio Colla ha (inutilmente) cercato di spingere il governo a fare pressioni sul fondo americano Kkr, che non solo ha comprato la Magneti Marelli dalla famiglia Agnelli nel 2019, ma oggi sta trattando con lo Stato italiano e, in particolare, con il ministero dell’Economia, per la cessione dell’infrastruttura Tim e i cavi sottomarini di Sparkle: una partita tutt’altro che semplice. Il ministero preferisce però tenere le partite separate. Sperando che la cessione di Crevalcore vada a buon fine.