Congo, tutte le bugie dei ladri di bambini

I minori non erano adottabili. Perché non erano orfani. Ma l’associazione italiana aveva già intascato i soldi 
dalle famiglie. E ha collaborato alla messinscena 
di un rapimento da parte di inesistenti “bande armate”, Ecco il seguito della nostra inchiesta sul caso dei bambini congolesi

Aggiornamento 12 marzo 2019
«Adozioni in Congo senza rilevanza penale»: Così Milano ha archiviato l'inchiesta su Aibi

La butta sul ridere Marco Griffini, 69 anni, presidente dell’associazione Aibi di San Giuliano Milanese. «Una domanda mi assilla della #bufalaespresso e non mi fa dormire: ma poi il motorino è stato recuperato?», chiede dalla sua pagina Twitter. Scrive la domanda dopo aver letto su “l’Espresso” l’inchiesta sulle adozioni di bambini sottratti ai loro genitori in Africa e su altre presunte irregolarità che coinvolgono la sua organizzazione. È la più potente in Italia, con sponsor fin dentro il Parlamento.

Ma è un sarcasmo cinico quello del presidente-padrone, fondatore dell’ente cattolico autorizzato dallo Stato: perché il proprietario di quel motorino, Raymond Tulinabo, ex affidatario dei bimbi destinati ad Aibi nella regione orientale del Congo, è stato fatto arrestare con una falsa accusa dal partner locale dell’associazione milanese, il presidente del Tribunale dei minori di Goma, Charles Wilfrid Sumaili. E una volta in carcere, come ritorsione è stato più volte torturato.

LEGGI L'inchiesta dell'Espresso

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La colpa di Tulinabo: aver portato al sicuro al di fuori del controllo di Aibi e del giudice quattro bambini adottati da famiglie italiane. Un trasferimento deciso a Roma in collaborazione con le autorità congolesi per presunte gravi difformità dell’ente di Griffini nelle procedure di adozione: a cominciare dalle bugie raccontate a quattro coppie italiane sul rapimento dei loro figli, in attesa di partire per l’Italia. È il seguito del film horror, questa volta visto con gli occhi delle mamme e dei papà italiani che aspettano i loro piccoli. Mesi di lacrime e paura. L’attesa straziante di una notizia. Fino a scoprire che la storia del sequestro dei quattro bimbi è una messinscena. Pianificata in Congo. E condivisa dai vertici di Aibi, nonostante le carte dimostrino che a San Giuliano Milanese da fine marzo 2014 siano al corrente che la verità è un’altra. Anche questo emerge dalle segnalazioni inviate alla Commissione per le adozioni internazionali, l’autorità di controllo della Presidenza del Consiglio che sta indagando: quei bimbi non sono orfani, non sono mai stati rapiti. Sono semplicemente tornati dai loro genitori.
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Ma su questo segreto viene costruita l’incredibile trama che per due anni protegge i ladri di bambini: la rete congolese che con la scusa di far studiare i piccoli, li ha sottratti alle loro povere famiglie. Lo scrive in un rapporto interno lo stesso rappresentante legale di Aibi a Goma, l’avvocato Martin Musavuli: «Le bimbe erano state prese per ragioni di studio». Insomma, non c’è niente da ridere. In quei giorni di fine aprile 2014 basterebbe essere sinceri con i genitori in Italia, che tra l’altro hanno pagato migliaia di euro ad Aibi per le pratiche di adozione. E avviare una verifica, in sintonia con la Commissione di controllo di Palazzo Chigi. Basterebbe insomma ammettere che Mirindi, 6 anni, assegnata a una coppia in provincia di Brescia, Melanie, 10 anni, destinata a Cosenza, il piccolo Aimé, 6 anni, a Roma e Nicole, stessa età, a Casorate Primo nel Pavese, non possono essere adottati: perché, contrariamente a quanto dichiarato nelle sentenze, i loro genitori naturali li reclamano. L’avvocato Musavuli e l’assistente sociale di Aibi, Oscar Tembo, scoprono infatti che i bimbi, prelevati da un orfanotrofio a Goma il 7 marzo 2014, sono tornati a casa. Di Melanie, Mirindi e Aimé rintracciano i familiari. Melanie la vedono addirittura di persona. E lei, per paura di essere riportata in istituto, si nasconde. Sapere che i bambini sono comunque al sicuro sarebbe un bene anche per le famiglie adottive che li attendono in Italia.

Invece sentite cosa accade. Quanti collaborano con Aibi e sono al corrente della delicata questione raccontano a “l’Espresso” che mamme e papà, ignari di tutto, vengono convocati soltanto nell’ultima decade di aprile. Cioè un mese e mezzo dopo la scomparsa dei piccoli dall’orfanotrofio. È il caso di una coppia di Roma contattata per telefono da Aibi. Chiamano il padre e gli chiedono di presentarsi con la moglie il giorno dopo, il 24 aprile, nell’ufficio dell’associazione nella capitale. Spiegano che riceveranno una comunicazione urgente su Aimé, il loro bimbo. Verrà data in videoconferenza da Valentina Griffini, la figlia del presidente, responsabile per le attività all’estero. I genitori non hanno mai abbracciato Aimé. Ma è solo un dettaglio fisico. L’amore non ha confini. L’hanno visto in fotografia, gli hanno parlato al telefono.

Dal 15 agosto 2013, giorno della sentenza di adozione in Congo, Aimé è loro figlio a tutti gli effetti. E su di loro gravano tutti i doveri della potestà genitoriale. Compresa la protezione. L’operatrice che telefona al padre è invece tra i dipendenti di Aibi che a metà marzo hanno ricevuto il primo rapporto da Goma dell’avvocato Musavuli. Già in quel resoconto il rappresentante congolese dell’associazione di Griffini avverte che i bambini sono tornati in famiglia. E aggiunge: alla direttrice dell’orfanotrofio, Bénédicte Masika, «è stata fatta la domanda del perché non abbia mai anticipato la situazione, in modo da evitare ad Aibi di pagare le spese di mantenimento per quei bambini che hanno i genitori. E lei ha risposto che all’inizio non conosceva il legame di parentela. Quando l’ha saputo, purtroppo, la procedura di adozione era quasi alla fine. Ed era dunque troppo tardi». L’operatrice di Aibi però non rivela al padre di Aimé il contenuto del rapporto arrivato via email da Goma. E nella conversazione con lei, il papà ovviamente si preoccupa. Pretende di sapere la ragione della convocazione. La donna risponde che non è possibile parlarne al telefono. Per la delicatezza del tema, bisogna aspettare la videoconferenza. Panico. Il papà insiste. Lo tranquillizzano dicendo che il motivo non è comunque un problema di salute.

Il pomeriggio del 24 aprile alcuni colleghi di Aibi nella sede milanese vedono la stessa operatrice e Valentina Griffini sedute alla scrivania, davanti alla telecamera e allo schermo collegato con l’ufficio romano. Il padre e la madre del piccolo adottato in Congo si siedono accanto a un’impiegata e alla psicologa di Aibi. Il loro volto è pallido. La voce di Valentina Griffini comunica senza troppi giri di parole che sei bambini dell’orfanotrofio “Spd” di Goma sono stati rapiti. Tra loro c’è Aimé.

In realtà i bimbi scomparsi sono nove, non sei. La figlia di Marco Griffini ha ricevuto via email lo stesso report che il suo rappresentante legale a Goma ha mandato agli altri operatori. Da responsabile dell’attività all’estero, non può non averlo letto. Perfino lei, però, sostiene la finzione dell’assalto. Parlano di un gruppo armato. Raccontano che la notizia è stata data in ritardo perché le autorità locali hanno chiesto qualche settimana per avviare le indagini. Gli operatori di Aibi spiegano alla coppia che potrebbe essere stato un attacco di alcune bande di guerriglieri dell’Uganda, poiché è la prima volta che in Congo vengono presi di mira i bambini. Prima di chiudere il collegamento viene proposta la possibilità di adottare un nuovo piccolo al posto di Aimé: grazie alle conoscenze che Aibi ha con il giudice del Tribunale dei minori di Goma, il presidente che farà arrestare Raymond Tulinabo, poi torturato in prigione.

Dalla sede milanese dei Griffini dicono sia persona rispettabilissima e stimata. Chiedono anche la massima riservatezza, perché non tutte le coppie coinvolte sono state ancora informate. La madre italiana di Aimé esplode in un pianto inconsolabile. Il padre guarda impietrito verso l’obiettivo della telecamera. Fino a quando nella sede milanese qualcuno si alza e, con il collegamento, spegne anche la loro espressione di dolore. Passa un’intera settimana senza nessun nuovo contatto risolutivo. A fine aprile la coppia informa il ministero degli Esteri. La mamma e il papà del piccolo sollecitano un altro incontro con Aibi. Vorrebbero parlare di persona con Valentina Griffini. Non riescono. L’appuntamento dell’8 maggio è una seduta con la psicologa su come affrontare il dolore: basterebbe raccontare la verità e il carico psicologico sarebbe molto meno pesante. Ma nemmeno la psicologa conosce i retroscena.

Qualche giorno dopo Valentina Griffini al telefono fornisce le ultime novità. Racconta di sei uomini armati. Sono arrivati davanti all’orfanotrofio su un’auto di cui non si conosce la targa. Hanno attaccato l’istituto di mattina, a fine marzo. Perfino il giorno dell’assalto è diverso da quello della scomparsa dei piccoli ospiti. Il gruppo armato ha quindi preso i sei bambini ed è scappato con loro sulla stessa macchina. Sì, dodici persone su una sola auto. La Griffini sostiene che grazie agli ottimi contatti con la polizia, le indagini proseguiranno fino a quando lo vorranno i genitori italiani. Il 13 maggio però, sempre secondo quanto raccontano alcuni collaboratori di Aibi, nella sede milanese scoppia una grana. Qualcuno da Roma informa Valentina Griffini o suo padre che la coppia ha avvertito il ministero degli Esteri. È in arrivo una richiesta di chiarimento. E Valentina chiama i genitori di Aimé che disperati attendono novità. Ma non dà notizie del bambino. Li rimprovera. Sostiene che a causa della segnalazione al ministero, Aibi dovrà uscire allo scoperto con le istituzioni.

In particolare, con la Commissione per le adozioni internazionali. E questo potrebbe mettere in pericolo la soluzione del caso e tutte le adozioni in Congo. Eppure Aibi avrebbe dovuto avvertire immediatamente l’autorità di controllo della Presidenza del Consiglio. I genitori adottivi di Aimé insistono nel voler vedere qualcosa di scritto sul rapimento del bimbo: i verbali di polizia, oppure i rapporti interni dell’associazione. Lo chiedono agli operatori dell’ufficio romano. Ma al telefono dalla sede milanese Valentina Griffini prende tempo. E ripete che senza la segnalazione al ministero degli Esteri e quindi alla Commissione per le adozioni, tutta la procedura sarebbe stata gestita con più facilità.

Se ne vanno altre due settimane e il 17 giugno la figlia del presidente di Aibi, sempre al telefono, rivela al papà italiano di Aimé che a Goma l’inchiesta verrà probabilmente chiusa. Invece è già archiviata da una settimana: dal 10 giugno 2014, come conferma il rapporto della polizia locale. È comunque un’indagine surreale. Nel senso che viene formalmente aperta il 31 marzo, ventiquattro giorni dopo il fatto, quando la direttrice dell’orfanotrofio mette a verbale la storia dell’assalto armato da parte di uomini non identificati. E smentisce così la sua precedente denuncia in cui, il giorno dopo la scomparsa dei bambini tra i quali i quattro italiani, accusava quattro persone, con nomi e cognomi. La versione inventata il 31 marzo aiuta a risolvere la lite documentata nelle carte tra l’avvocato di Aibi, che minaccia di denunciare la direttrice dell’orfanotrofio per frode, e lei che propone di chiedere un prestito in banca, per rimborsare l’associazione italiana delle spese sostenute con i bambini rientrati in famiglia.

La questione arriva fino alla sede milanese. Lo si legge in un report interno già a metà marzo, quando viene scritta la seguente nota: «Sulle problematiche sorte presso il centro Spd, abbiamo ricevuto da parte di Eddy il report di Martin con le valutazioni di Oscar. Pensiamo che organizzare un incontro tra Martin, Oscar e la direttrice sia importante e necessario per mettere chiarezza in merito alla situazione dei bambini spariti e le loro vere famiglie d’origine».

Eddy Zamperlin è il rappresentante italiano di Aibi, inviato per l’occasione a Goma. Martin è l’avvocato Musavuli. E Oscar Tembo, l’assistente sociale a Goma dell’associazione di Griffini. Così il primo aprile la comoda messinscena del sequestro viene sottoscritta da tutti i protagonisti al termine di una riunione nella sede locale di Aibi: ci sono l’avvocato Musavuli, la direttrice, il presidente del Tribunale dei minori e Zamperlin. Anche lui, come la collega Filomena Giovinazzo, ha già ricevuto via email i resoconti di Musavuli che aggiornano Aibi sulla reale storia dei bambini. Nessuno di loro però dirà mai la verità ai genitori di Melanie, Mirindi e Nicole. E nemmeno alla mamma e al papà di Aimé. Quando molto tempo dopo vengono a sapere da funzionari della Presidenza del Consiglio che i bambini stanno bene, liberano l’angoscia in un pianto incontenibile. I piccoli sono salvi. Ma loro, se vogliono adottare un altro bimbo, hanno perso anni preziosi. Di quei giorni di terrore restano come affreschi le comunicazioni interne di Aibi.

«Capiamo la difficoltà nell’individuare due sorelline che rispondano ai criteri di Melanie e Amini», è scritto nel report numero 2014 del 19 maggio di due anni fa, quasi un mese dopo la comunicazione della scomparsa alle coppie italiane: «La bimba che ci proponi purtroppo è troppo piccola. Come età dobbiamo almeno essere su quella delle due bimbe sbinate». Sbinate: contrario di abbinate ai genitori. Amini, 9 anni, è stata assegnata a una famiglia di Cosenza con Melanie. Nella sentenza di adozione le fanno risultare sorelle germane, ma non lo sono. Infatti Melanie torna dalla sua mamma. Amini resta in istituto. E lì viene dimenticata. Trovare bambini che si assomiglino è un’attività di Aibi. Lo si legge in un altro report con le comunicazioni dalla sede centrale: «Come procede la ricerca di due sorelline in sostituzione delle sorelline Issa?» 

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