Parla Lord Fellowes, barone di West Stafford e creatore della serie cult in tutto il mondo. E racconta: com'è nata, perché piace. E perché è l'immagine perfetta di un'Inghiterra che, dai Tudor a Kate Middleton, cambia per restare uguale
L'appuntamento è di quelli che non si dimenticano: House of Lords, lato sud del Palazzo di Westminster, Peers’entrance, l’ingresso dei Pari. Alle cinque, ovviamente: tea time. Lord Fellowes, Barone di West Stafford, per gli umani Julian Fellowes, due o tre cose su come creare effetti speciali le sa.
È l’uomo che ha inventato il fenomeno “Downton Abbey”, cult televisivo in tutto il mondo tranne che in Italia, dove preferiamo sturbarci di programmi di cucina: un serial venduto in più di duecento paesi, che ha collezionato premi Emmy, Bafta e Golden Globes, 12 milioni di telespettatori in Inghilterra, altrettanti negli Usa, nel cast due premi Oscar, costo più di un milione di sterline a puntata.
In Inghilterra e America è da poco finita la quarta stagione, in Italia abbiamo visto per ora la terza, nel frattempo la serie è diventata così popolare da far parte integrante della cultura contemporanea: i Simpson le dedicano un episodio; gli opinionisti del “Financial Times”, per mettere all’indice la diseguaglianza tra cittadini che sempre più permea gli Stati Uniti, parlano del rischio di “Downton Abbey economy”. E se si googla “Downton Abbey”, vengono fuori 239 milioni di risultati.
Julian Fellowes è attore, scrittore e sceneggiatore: per “Gosford Park”, di Altman, ha vinto un Oscar. Sa che niente conta più dei dettagli. Ordina lui, nella sala da tè interna alla House of Lords: piccoli sandwich al cetriolo e “regular tea”. Sembra il solito bizzarro concetto inglese di cibo, invece è una citazione: i “cucumber sandwiches” erano i preferiti dei nobili in epoca vittoriana per il tè del pomeriggio, perché di scarso valore nutritivo, quindi perfetti per gente sempre sicura che avrebbe presto fatto un altro pasto. Li cita anche Oscar Wilde, ne “L’importanza di chiamarsi Ernesto”. Però restano orribili. «Lei viene da Milano? Città stupenda, adoro che la Galleria Vittorio Emanuele II si chiami ancora così. Peccato che l’Italia non sia più una monarchia!». È ora di accendere il registratore.
Downton Abbey racconta le vicende di una famiglia della grande aristocrazia inglese, i Crawley, agli inizi del Novecento, seguendoli attraverso la Grande Guerra e negli anni Venti. Perché è diventata un successo planetario? «I soloni della televisione dicono che la gente non riesce a entrare in relazione con cose che non somiglino alla loro vita, ma è una sciocchezza. Altrimenti perché tanti amano “Via col vento”? Le persone si appassionano alle storie che le tirano dentro, che si tratti di Alien o Downton Abbey. Downton coinvolge persone di età, ambienti, culture e classi sociali diverse per la sua energia. Sembra uno sceneggiato della BBC, ma ha il ritmo degli show americani come The West Wing. Storie che si intrecciano, una battuta via l’altra, azione. Ambientazione antica, con aristocratici cui costantemente qualche domestico serve del tè, ma ritmo dell’azione moderno, pieno di avvenimenti. Con altre serie puoi andare a farti una tazza di tè e tornare senza perdere il filo, con Downton no, perché succedono moltissime cose».
Conta anche la dinamica “upstairs” e “downstairs”, cioè quella delle vite intrecciate tra nobili e domestici. «Narrativamente è interessante tutto ciò che fa coesistere situazioni molto diverse, per questo hanno successo le serie tv negli ospedali o poliziesche: puoi entrare in ogni tipo di situazione e ambiente sociale, anche distantissimi tra loro, in modo credibile. In Downton Abbey convivono sotto lo stesso tetto persone che hanno attese e prospettive della vita molto diverse tra loro, eppure sono a un solo piano di distanza. Uno dei motivi del successo è che trattiamo tutti i personaggi con la stessa attenzione e ricchezza narrativa. La governante, la signora Hughes, non ha meno qualità morali o intellettuali di Lady Cora, anzi. E Lord Grantham? I suoi sono imperativi morali, si sforza di fare la cosa giusta. All’inizio abbiamo avuto pressioni, un aristocratico doveva necessariamente essere un uomo orribile, ma il pubblico è più sofisticato di così. La vita è complessa, siamo contraddittori, ragionare per stereotipi è superato».
Infatti i suoi personaggi non sono divisi in buoni e cattivi. «Io cerco di rappresentare i diversi punti di vista e comportamenti come tutti perfettamente ragionevoli. La maggior parte di loro è gente perbene che cerca di cavarsela al meglio possibile nella vita. Ma questo non vuol dire che vadano d’accordo. Mi piace che due personaggi si scontrino e il pubblico sia incerto su con chi schierarsi. È sbagliato drammaturgicamente che una sola posizione sia condivisibile. Anche personaggi come Bates, uno degli eroi della storia, ha lati oscuri. È interessante suggerire una possibilità inespressa. Tutti i personaggi hanno forze e debolezze: Thomas, che è il più negativo, in realtà ha molte buone ragioni per essere quello che è, perché gay in un periodo in cui questo poteva costare la rovina. Anche lui ha sfumature morali».
Quale personaggio ha disegnato per primo? «Lady Cora. Stavo leggendo un libro sulle giovani americane ricche che all’inizio del secolo scorso venivano in Europa per sposarsi con nobili inglesi…».
Le “bucaniere”, come le definì Edith Wharton. «Sì. Almeno in 300 partirono in nave dall’America e riuscirono a sposarsi con giovani dell’upper class. Grandi ereditiere divennero duchesse (Consuelo Vanderbilt, Duchessa di Marlborough), o baronesse, sposando in genere nobili molto meno ricchi. I loro soldi entrarono nei grandi casati, ma quasi mai riuscirono a salvarli. Nessuna somma sarebbe bastata a proteggere i loro mariti e le famiglie acquisite dall’arrivo del Ventesimo secolo. Negli anni Venti e Trenta in Inghilterra passarono di mano più proprietà di quanto accadde con la Riforma Protestante. Volevo raccontare queste giovani, arrivate in Europa con certi sogni, rimaste intrappolate nella fine di un mondo. Narrativamente è interessante che Cora sia un’americana».
È il mondo che racconterà nel suo prossimo sceneggiato, The Gilded Age? «È ambientato intorno al 1870. Alla fine della Guerra Civile americana, come sempre con una guerra, c’erano stati enormi progressi tecnologici e questo generò nuove fortune, legate a ferrovie e trasporti. Gente nuova scese su New York e scalzò le vecchie famiglie d’origine puritana - gli Stuyvesant, i Winthrop - le annichilì con i palazzi magnifici che si fece costruire su Fifth Avenue. I nuovi ricchi erano talmente superiori ai vecchi, per abiti e gioielli che indossavano, dipinti che possedevano, navi su cui viaggiavano, balli che davano… nessuno poteva resistergli. Oggi, se pensiamo a un’aristocrazia americana, sono loro i nomi che ci vengono in mente: gli Astor, i Vanderbilt. The Gilded Age è l’età dell’oro dei ricchi americani, fino agli anni Venti. Che per gli europei furono l’inizio della fine». Le sue sono sceneggiature darwiniane: qualcuno si estingue, qualcuno riesce ad evolversi. «Lord Grantham si sente un animale il cui habitat viene pian piano distrutto. Per lui la meritocrazia è territorio sconosciuto. La serie comincia nel 1912 per un motivo: avremmo avuto un ante guerra, la guerra, e gli anni Venti. Tre mondi diversi, in un lasso di tempo breve, con la nascita dei sindacati, l’inizio del Labour party, i diritti delle donne. All’inizio lo sguardo dell’aristocrazia su questi fatti che l’avrebbero cambiata per sempre era sereno, il vecchio mondo sembrava tenere. Poi la guerra cambiò tutto, e gli anni Venti… Un periodo che trae in inganno. Solo con la crisi del ’29 fu chiaro che era cambiato tutto. Nessuno voleva più servire, la terra non produceva più ricchezza per mantenere queste proprietà, le nuove generazioni avrebbero dovuto gestire un cambiamento enorme. Ciò che accade tra il 1919 e il 1939 da un punto di vista narrativo è uno scenario enormemente interessante».
Lei è attore e sceggiatore. Pensa di capire meglio di altri le esigenze degli attori? «Nove decimi della riuscita di un personaggio dipendono dall’interpretazione. Una delle cose più interessanti, in una serie, è scoprire lentamente i personaggi. A volte lo spettatore crede di sapere come si comporteranno, invece no. Spingersi in luoghi imprevisti è divertente per attore e spettatore. Quando chiudo un episodio lo rileggo minuziosamente per controllare che ogni personaggio abbia abbastanza vita e complessità, che tutto abbia senso: Downton è la somma delle sue parti. Succede anche in un’altra serie tv, Mad Men: ti avvince vedere come Christina Hendricks, January Jones o Jon Hamm sviluppano i loro personaggi. Grande televisione. Una delle cose più interessanti della tv a episodi è l’impossessarsi dei personaggi da parte degli attori: ne diventano padroni. Io dico sempre loro che ognuno deve assumersi la responsabilità della propria storia. Gli attori sono i loro stessi storyteller. Per la televisione questo è un ottimo momento».
Perché? «Perché i costi di un film sono così alti che si deve necessariamente mirare a un pubblico tra i 14 e i 28 anni al massimo, l’età della big audience, che non è raffinato emotivamente, gli interessano gli effetti speciali. Il pubblico televisivo, invece, è adulto. Puoi dargli personaggi, storie, interazioni complesse, discussioni. Nei film, a parte casi come “Nevada”, è raro. Ma gli esseri umani sono contradditori: persone orribili possono fare buone cose, persone buone possono fare cose orribili. È questa possibilità narrativa offerta dalle serie che attira verso la tv sempre più autori e registi».
La “contraddittorietà” di Downton Abbey è la stessa in fondo della Gran Bretagna di oggi: una società sempre molto consapevole delle differenze di classe, che però perde la testa per Kate Middleton. Per il matrimonio tra il principe William e una “commoner”. «Di cui siamo molto felici. Credo che, in parte per un’influenza americana sulla società, in parte per un modo di pensare più moderno, la società sia arrivata alla conclusione che la performance è più importante del lignaggio. Quello che oggi vogliamo, dalle persone in quelle posizioni, è che: 1) vogliano starci; 2) svolgano molto bene il loro ruolo. Se qualcuno dimostra che è felice in quel lavoro, e sarà capace di farlo bene, poco importa che sia o no figlio di duchi e conti. Ogni istituzione e tradizione se vuole sopravvivere deve reinventarsi. Credo che la famiglia reale a un certo punto abbia compreso che era questa la priorità. Ci voleva un matrimonio felice. Ci voleva un buon performer, non qualcuno infelice di essere in quel ruolo com’era successo prima. Essere una principessa reale nei Cinquanta era diverso, l’intrusione nella vita di queste persone era pari a zero, facevi un giro in carrozza, salutavi, era tutto. Ma oggi i media hanno accesso a tutto, l’intrusione è costante, la pressione pazzesca, c’è bisogno di energia enorme per affrontarla, devi essere una specie di atleta. Il pubblico ha capito che se vuole uno spettacolo reale - e lo vuole di sicuro - bisogna trovare nuovi modi per metterlo in scena».
Un’aristocrazia non più ereditaria ma guadagnata sul campo, insomma. «Da meritare. Fa bene il re di Spagna che crea continuamente nuovi titoli ereditari, così l’aristocrazia spagnola si modernizza. È molto più sano che chiudere i cancelli e buttare via la chiave. L’aristocrazia deve aggiornarsi. Come tutto al mondo».
Perché la famiglia reale inglese riscuote così tanto interesse anche fuori dall’Inghilterra? «È emozionante l’idea di una famiglia che incarna un’intera nazione, ovviamente una volta che la questione del controllo politico sia stata risolta soddisfacentemente per tutti. Questa famiglia ha un legame col suo popolo che i politici non sono mai stati capaci di creare. In più la monarchia britannica, a causa dell’Impero, ha avuto un impatto molto più ampio dei confini del suo paese. Gli è rimasta quell’aura. Re Faruk diceva: “Tra pochi decenni al mondo rimarranno soltanto 5 re: di picche, di fiori, di quadri, di cuori, e il Re d’Inghilterra”»