Trasandata, provinciale e senza l’energia delle grandi capitali. Però è la città 
del desiderio e della sensualità perché 
è intima. Tanto che la celebre scrittrice 
ha deciso di viverci. A Trastevere (Foto di Martina Cirese)

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Un viandante che arriva a Roma, sbarcato alla stazione Termini, ha un’immediata impressione di aver compiuto un viaggio nel tempo. Sembra di stare in una grande e distante metropoli di quella che fu l’Europa dell’Est nel periodo più triste.

Come a Bucarest degli anni Ottanta, si vede gente passiva, silenziosa, che attende dei bus; quando arrivano, sovraffollati, vengono presi d’assalto, tra imprecazioni pronunciate a bassa voce, come per rassegnazione davanti a un potere altro, invisibile, indifferente alle sorti dei comuni mortali.

[[ge:rep-locali:espresso:285129808]]A destra e a sinistra è un tripudio di bancarelle con merci di scadente qualità, tra le quali si aggirano persone malvestite. I turisti guardano perplessi, increduli. La sensazione è di essere venuti non in una città che ha ispirato poeti, pittori, cineasti, romanzieri; ha insegnato cosa è la civiltà a Goethe, ha permesso a Gogol di comporre i suoi capolavori, e con la sua aura ha intimorito perfino un uomo coraggioso come il padre della psicoanalisi Sigmund Freud (aveva paura di confrontarsi con Roma): la sensazione è di essere venuti in un luogo in cui è stata abolita ogni idea di futuro.

In questa città ha deciso di vivere Jhumpa Lahiri, forse la più trendy tra gli scrittori e le scrittrici anglosassoni della generazione dei quarantenni. Di origini bengalesi, di casa a New York, star della rivista “New Yorker”, donna di scrittura fine, delicata, nei suoi libri indaga sulle molteplici identità di ciascuno di noi e sul significato primo e ultimo della parola e dei nomi. E così nel romanzo “L’omonimo” (in Italia con Guanda), il protagonista ha due nomi, appunto. Nikhil, quello ufficiale, che non gli piace.Il secondo, Gogol (usato in famiglia perché la madre si è salvata la vita leggendo un librio di Gogol), diventa quello che usa e con cui lo conoscono. Jhumpa, con il marito giornalista e con due figli, due anni fa e si è installata in una bella casa fra Trastevere e Gianicolo. In questi giorni sta ultimando un nuovo libro, scritto in italiano, ormai sua lingua d’adozione (in autunno uscirà per Guanda). L’amore per l’italiano, lo stesso del grande poeta John Keats (le sue spoglie riposano nella nostra capitale) è la chiave per capire l’animo romano di Lahiri.

«Ho studiato per vent’anni la lingua italiana, senza alcun bisogno pratico. Solo per desiderio». Roma, città del desiderio. Curioso. Per molti scrittori stranieri, da Mann a Brodskij, la parola desiderio, declinata in italiano e con l’aggiunta di una certa aria di mistero, decadenza e morte si associa invece con Venezia. Ma per Lahiri desiderio significa vita. Dice: «Ho voluto trasferirmi qui per fare l’esperienza della lingua attraverso la vita vera». Spiega: «Ho vissuto quasi sempre negli States. Volevo espormi totalmente a un’altra cultura. E del resto i personaggi dei miei racconti e romanzi sono quasi tutti stranieri, volevo vivere fino in fondo la loro esperienza». Insomma, Lahiri a Roma ha cercato di trasformare la letteratura, che per lei significa la narrazione dell’esilio e identità incerte e labili, in vita vera.

Ma Roma si presta a una simile operazione? Le città, si sa, si dividono tra inclusive e esclusive. Roma a quale delle due categorie appartiene? Risponde Lahiri. «Ad ambedue. È esclusiva e inclusiva. Quel che di più mi piace a Roma sono i rapporti umani, le amicizie». Insiste: «La lingua italiana è il grande amore. Ma la lingua, in fin dei conti, è uno strumento. Serve a qualcosa: a creare legami d’affetto, io quei legami li ho creati». La fa forse troppo facile, la scrittrice. A New York, dopo tre mesi uno si sente di casa, «oppure non ci si sente mai di casa», interrompe lei, «New York è come un grande aeroporto. Nessuno ti chiede di dove sei». E Roma? «Qui tutti me lo chiedono e in continuazione. E in questo senso Roma, tende ad escludere. Ma io invece mi sento di casa, sono felice, serena. Sembra la mia città. Però so che non lo è».

Guarda il panorama dell’Urbe (dalla terrazza si vedono i monumenti più importanti; dal Quirinale all’Altare della Patria, da Montecitorio, alle cupole delle basiliche, a Villa Borghese), pensa un attimo e aggiunge: «È impossibile diventare romani. Conosco tanti americani che sono qui da decine di anni. Non parlano l’italiano, e quindi non hanno un vero rapporto con la città». Lo dice per parlare della cosa più importante: l’esperienza dello sradicamento: «I miei genitori da decenni vivono negli States, ma i loro amici sono tutti bengalesi. Parlano l’inglese come gli americani, ma la loro vera vita emotiva è in un’altra lingua». La scelta di scrivere direttamente in italiano (e quindi di vivere a Roma) è dettata probabilmente anche dalla voglia di libertà. Viene in mente Joseph Conrad, polacco maestro della lingua inglese. L’ipotesi è la seguente: per Conrad, l’inglese appunto, era la quarta lingua (dopo il polacco, il russo, il francese), e la distanza emotiva gli permetteva di usare certe parole e termini con una disinvoltura impossibile nella lingua madre. Così è anche per Lahiri? Scrivere in italiano la rende più libera? «Certo. Scrivere in una lingua che ho imparato da adulta e in una città in cui ho deciso di vivere per un capriccio, è come mettermi addosso una maschera. Le parole che uso sono mie, ma sembrano parole altrui. Ecco perché in italiano riesco a esprimere cose che non avrei mai coraggio di rendere esplicite in inglese. Ed ecco la ragione per cui vivo bene a Roma». Precisa: «Qui acquisto la distanza dello sguardo, della posizione geografica e, grazie a dio, della lingua. E come se aggiungessi un altro strato di pelle che protegge la mia intimità. Allo stesso tempo scrivere in un’altra lingua è scomodo, è come crearsi un ostacolo artificiale».

Insomma, Roma casa ed esilio al contempo, come intuì già Camus. L’autore de “Lo straniero” qui ammirava la “luce rotonda, brillante e morbida” che gli rievocava la luce delle mattine della (sua) Algeria.
Ma Roma, a lei donna di mondo, sembra una capitale? «No», risponde, alzando il tono della voce. E racconta la sua delusione. «Prima di venire qui, pensavo che in questa città ci fosse un’altra energia come avviene nelle vere capitali. Ho cercato ambienti e luoghi in cui trovare questa energia (presente a New York o Parigi o Berlino o Londra). Sospettavo di aver sbagliato frequentazioni. Poi ho capito: Roma è diversa, un’eccezione». Sorride, indica con la mano: «Lì c’è il Quirinale, là il Parlamento. I politici sono tutti qui, ma...». Pausa e poi: «Sono stata recentemente a Stoccolma e a Helsinki (città in apparenza poco cosmopolite, rispetto a Roma e la sua storia). Lì c’è un aspetto internazionale che qui manca. Qui si mangia il cibo romano, si vedono persone che abitano a Roma. Ci sono poche cose e poche persone che appartengono ad altri luoghi. Roma è l’opposto di una metropoli come New York». Una delusione? «No, è un posto interessante proprio per il suo senso di appartenenza stretta e per la mancanza di energia». Tace per un mezzo minuto e continua: «È più fascinosa Napoli, con tutti i suoi contrasti. Forse è l’unica vera metropoli, l’unica capitale che l’Italia abbia mai avuto». E viene, inevitabilmente in mente Stendhal che a Roma si annoiava, mentre ammirava “la voluttà” (nonché il mare) di Napoli.

C’è una durissima frase di James Joyce (citata in un libro, “Magica e velenosa. Roma nel racconto degli scrittori stranieri”, curato da Valerio Magrelli per Laterza) per cui «Roma è come un uomo che porta in giro il cadavere della nonna». E anche oggi chi viene a Roma ha sovente l’impressione che si tratti di un luogo dove i turisti possono contemplare un passato glorioso, ridotto al folclore postmoderno, e dove l’eternità è sinonimo del presente. «Sembra un posto fermo», conferma Lahiri. E spiega quanto per comprendere una città sia bene vederla con gli occhi degli ultimi, degli immigrati; di coloro che sono alla ricerca di un avvenire. «Qui in piazza San Cosimato parlo spesso con un ragazzo del Bangladesh che aiuta alle bancarelle. Mi dice, “vorrei andare via da qui. Perché qui non c’è un futuro”». Spiega: «Io, Jhumpa, sono il frutto del processo di integrazione degli immigrati. Mio padre che oggi ha 83 anni ha creato una nuova vita in un nuovo Paese, è stato difficile, ma sapeva che ci sarebbe stato un futuro. Per cui so che se un immigrato non vede il domani la città è condannata».
Leggendo i libri di Lahiri si ha l’impressione che per lei le persone esistono in quanto testo scritto. A Roma prevale invece l’aspetto visivo: Bernini, il barocco, la bellezza delle opere della Controriforma. Apparenza e non lettura. E in fondo, perfino il papa è papa perché appare tale e non perché è il più bravo e il più colto tra i teologi. Lahiri riflette: «È vero, in Italia si legge poco, ma si legge bene, con passione e rispetto per la letteratura. Non è così in America. Negli States si legge molto, ma senza dare un significato, la lettura è uno svago». Continua: «La teatralità di Roma non mi opprime. In fin dei conti è una teatralità simbolo della vita». Precisa: «La confusione, il caos sono come la vita stessa». E il desiderio? L’eros? «Roma è una città erotica, una città in cui mi sento più viva che altrove, forse perché, come dicevo, questa è una città intima. Qui, nei dintorni conosco tutti, il farmacista, l’impiegata della posta, gli avventori del bar. Mi trovo bene a Trastevere, a patto di girarci la mattina non di notte». Così si arriva a parlare dei suoi luoghi preferiti. «Villa Sciarra, Villa Doria Pamphilj. Un paradiso. Ci vado spesso, provo stupore, tranquillità, pace. È lì che trovo le parole che uso nei miei libri: un’atmosfera magica, commovente». Altri luoghi? «L’Aventino, una specie di isola, anch’essa con una certa magia. Amo Testaccio, anche se sta cambiando. E il ghetto».

Roma è sempre stata un set cinematografico: «Dei registi italiani», allarga il discorso, «amo Antonioni per niente “romano”, adoro Pasolini, trovo grandissimo Visconti». E le immagini di Fellini? «Quella è una Roma che non esiste più». Così si torna all’inizio di questa conversazione, al fatto che Roma per lei non è importante, è fondamentale invece l’amore per la lingua e per il testo. Lahiri mostra la sua biblioteca italiana: Patrizia Cavalli, Ungaretti e Montale. E poi Sciascia («lo adoro») e Calvino («superfluo lodarlo»). E ancora: Ortese («magnifica») e Pirandello. Sul tavolo di lavoro: Manganelli, Moravia, Ginzburg, ElenaFerrante e Ovidio in traduzione italiana. Ma soprattutto Pasolini. «Per me l’Italia e Roma sono lui, il più grande e perspicace degli intellettuali di questo Paese».