L'ultimo libro del grande giornalista: uno Zibaldone di pensieri che trova nei versi dei grandi autori più verità che nei filosofi. Un viaggio nelle profondità dell'io, visto da un celebre critico

Eugenio Scalfari
Non c’è dubbio che nel corso degli ultimi anni Eugenio Scalfari abbia imboccato una nuova linea di ricerca. Mi riferisco a libri come “L’uomo che non credeva in Dio” (2008), “Per l’alto mare aperto” (2010), “Scuote l’anima mia Eros” (2011), “L’amore, la sfida, il destino” (2013). E naturalmente, e forse a miglior ragione, questo che ora è appena uscito, “L’allegria, il pianto, la vita” (tutti, credo non senza motivo, apparsi da Einaudi Editore). In che cosa consiste questa nuova linea di ricerca? Lo dirò qui molto sommariamente, per ritornarci sopra più avanti.

È come se Eugenio Scalfari - il grande giornalista, il polemista politico e civile, l’acuto interprete del nostro tempo - avesse avvertito, giunto a un punto alto della propria esistenza, il bisogno d’investigare “tutto ciò che c’è dietro”: non tanto le cause ultime (che anche per Scalfari restano remote, come dimostrano anche le pagine finali di quest’ultimo libro), quanto i sommovimenti profondi, le motivazioni essenziali e reali dell’agire, la più o meno esplicita, o più spesso implicita, relazione tra il pensare e il fare (non a caso il volume dei Meridiani, che raccoglie una parte dei suoi scritti, e che io ho avuto il piacere di prefare, s’intitola, con formula non così facilmente interpretabile, ma che mette insieme, appunto, le due cose, “La passione dell’etica”, 2012).

Questa nuova linea di ricerca parte dalla filosofia (“L’uomo che non credeva in Dio”; “Per l’alto mare aperto”); e arriva alla poesia: “L’allegria, il pianto, la vita”, appunto. Insomma: prima Pascal; Diderot e Montesquieu; anche, per certi versi, Voltaire. Poi, ora, alla fine, Villon, Leopardi, Pessoa, Rilke; e in un certo senso, o forse soprattutto, se stesso. Si può non essere d’accordo con Scalfari quando proclama “I quaderni di Malte Laurids Brigge” «il più grande romanzo moderno, perfino più della “Recherche”». Però, nel suo contesto il discorso è più che chiaro: è convincente. Infatti a Scalfari interessa individuare, e isolare, un punto estremo del suo ragionamento: quello in cui, le ragioni dell’essere coincidono con quelle del pensare, e in questo senso Rilke gli appartiene e gli serve più di Proust.

Dove, e come, sarebbe possibile cogliere le manifestazioni estreme di questa coincidenza se non nelle manifestazioni estreme della poesia europea contemporanea, al di là delle partizioni di genere e linguistiche con cui esse ovviamente si sono accompagnate?

A uno come me abituato a pensare (più o meno a ragione) per larghi quadri storici, si pone a questo punto un problema. In che rapporto sta lo Scalfari di cui qui stiamo parlando con lo Scalfari grande giornalista, polemista politico e civile, acuto interprete del nostro tempo, - insomma, per non andare troppo lontano, e farci capire subito, con lo Scalfari che ogni domenica, con il suo editoriale su “la Repubblica”, continua a illuminarci la strada, - rara avis!, in questi tempi perigliosi e oscuri? Io ritengo che qualsiasi contrapposizione, qualsiasi scelta identitaria estrema fra i due tipi ideal-intellettuali, di cui stiamo parlando, sarebbe profondamente sbagliata. I due tipi non solo non si contrappongono, ma coesistono: e anzi, oggi, si giustificano a vicenda. Io parlerei di una singolare, fortunata “duplicità”.
L'estratto
Scalfari: "Fu Narciso a inventare Dio"
30/9/2015

Le prove stanno innanzi tutto nel percorso storico, tutto intero, della ricerca scalfariana. Devo ricordare qui gli ormai lontani “Incontro con io” (1994) e “Alla ricerca della morale perduta” (1995), per segnalare come profondamente siano radicati nella personalità e nell’opera di Scalfari i temi più chiaramente insorgenti nella sua ultima fase di ricerca? Ma, senza andare tanto lontani, si leggano in “L’allegria, il pianto, la vita” , i due pensieri del 21 febbraio e del 21 aprile 2015: riflessioni sulla politica, il potere, la guerra, le forme ideali ed elementari del conflitto, che spaziano lungo tutta la storia civile italiana e arrivano fino ai nostri giorni, con fredda e anche spietata lucidità. Da quale parte del discrimine, che ho cercato di disegnare, le dovremmo collocare, se quel discrimine segnasse davvero un confine invalicabile fra due matrici diverse dell’attuale pensare e agire scalfariano?

In realtà, l’“assetto” scrittorio di “L’allegria, il pianto, la vita”, tiene conto di tutto questo, anzi, lo registra con tutta evidenza. Si tratta infatti di un “diario”, che filtra e organizza la materia senza costrizione alcuna: sì da assumere alla fine la “forma”, del resto più volta esplicitata nel testo, dello “zibaldone” di leopardiana memoria. Faccio un solo esempio: il pianto (2 e 10 marzo 2015). Scalfari ricorda quando ha pianto nel corso della sua vita. Ci sono steccati intorno a questa manifestazione elementare e sorgiva del dolore? No. Ha pianto per suo padre. Ha pianto per la sua prima moglie, Simonetta. Ha pianto per Enrico Berlinguer. Ha pianto per il suo vecchio amico e maestro, Mario Pannunzio. Ha pianto (niente di meno) per la scomparsa di Louis Armstrong. Sentimenti privati. E sentimenti pubblici. È possibile separare le due sfere? Anche in questo caso, no. La morte, e il dolore che ne viene, non conoscono confini. Ed è questo che Scalfari vuole dirci. L’uomo, la donna, stanno a cavallo delle loro duplicità: non da una parte sola, né dall’altra.

Il libro si conclude, - coerentemente, anche in questo caso con il senso della ricerca attuale di Scalfari - con un ragionamento sul divino. Naturalmente, per l’“uomo che non credeva in Dio”, Dio in quanto tale non esiste. Infatti, «solo l’esistenza dell’animale pensante suscita il divino». E però non è lecito disconoscere che, all’altezza attuale della sua riflessione, Scalfari si sofferma più a lungo e più intensamente del solito su questo snodo finale del suo ragionamento. Il pensiero umano crea Dio: ma chi crea il pensiero umano? Poste così le cose, la questione è irresolubile, e ovviamente Scalfari lo sa. È evidente, tuttavia, che anche porre questioni irresolubili ha un senso. In un’altra prospettiva, infatti, si potrebbe più semplicemente rinunciare a porre le questioni manifestamente irresolubili.

Per rientrare nell’universo scalfariano e su questo concludere, direi che Scalfari ha anche un altro modo, che a noi piace di più, di porre la questione irresolubile. «Dio - scrive Scalfari, - è stata una meravigliosa invenzione» e questa “meravigliosa invenzione” è stata opera di Narciso, il quale è stato lui stesso a inventare Dio, «conferendogli gli attributi che noi vorremmo avere». Questa conclusione ci sembra più soddisfacente dell’altra, che invece sembrerebbe aprire le porte al dubbio. Narciso, - non a caso figlio di uno scorrevole fiume e di una ninfa, - occupa un posto centrale nell’immaginario scalfariano (potrei fornire un elenco nutrito dei luoghi, nei quali, negli ultimi libri sopra citati, l’Autore vi si richiama). Mi sembra giusto concludere questo ragionamento con un riferimento alla divinità antropomorfica e antropocentrica, cui Scalfari ricorre intellettualmente così spesso per giustificare le sue e le nostre pulsioni.