Deborah Lipstadt: «La verità va sempre difesa, dall'Olocausto ai giorni nostri»
La storica statunitense ha parlato con l'Espresso de La verità negata , il film di Mick Jackson sul processo che la vide contrapposta al negazionista David Irving. «La libertà di parola è sacrosanta, ma le brave persone devono smascherare le menzogne»
«Spero che questo film possa ispirare le persone, soprattutto i giovani, e che la gente capisca che non è giusto negare la verità, quando è importante». Così Deborah Lipstadt, professoressa di Storia moderna dell’ebraismo alla Emory University, nei pressi di Atlanta, spiega l’importanza di La verità negata, sugli schermi dal 17 novembre, in cui si racconta il lungo processo che la vide scontrarsi dal 1996 al 2000 contro David Irving, saggista autore di libri su Hitler, Goebbels e la Seconda guerra mondiale e noto negazionista. Nell’accurato resoconto dei fatti di Mick Jackson, Deborah (interpretata da Rachel Weisz) viene convocata in tribunale da Irving (un Timothy Spall molto dimagrito), che la accusa di diffamazione per averlo citato nel suo libro Denying Holocaust, in cui la donna attaccava chi con capziose argomentazioni sosteneva che l’Olocausto non fosse mai avvenuto. «Quando è iniziata la lavorazione di La verità negata (basato sull’omonimo libro della Lisptadt, ndr) nessuno aveva idea della rilevanza che avrebbe avuto rispetto all’attualità», spiega la professoressa all’Espresso, quando la incontriamo al festival di Toronto.
In che senso? Si tratti della campagna per queste elezioni presidenziali, piena di bugie, o dell’idea che è stata costruita attorno all’11 settembre, secondo cui gli attentati sarebbero stati una cospirazione partita dagli Usa, la verità è sempre messa a dura prova. Queste menzogne quasi sempre sono oltraggiose, come nel caso del massacro alla scuola di Sandy Hook del 2012: morirono 20 bambini e 7 adulti, ma un professore (James Fetzer, nel suo libro Nobody Died at Sandy Hook, ndr) sostenne che la strage fosse totalmente inventata e andava dicendo ai genitori delle vittime di provargli che i loro figli fossero esistiti veramente.
Come si fa a credere a una follia del genere? Ovviamente la maggior parte delle persone è scandalizzata da queste affermazioni, ma c’è sempre qualcuno che finisce per crederci, soprattutto per quelle che circolano sul web. Io amo Internet e non potrei lavorare senza, ma è come un coltello, che può essere usato come bisturi per salvare una vita oppure per uccidere. La libertà di parola è sacrosanta, ma deve esistere anche una responsabilità nello smascherare le menzogne.
Da parte di chi, secondo lei? È responsabilità dei giornalisti, degli accademici e delle brave persone smontare le storie, dicendo con forza che non corrispondono a verità. Perché chi mente prova sempre a svicolare. Per esempio durante una convention politica Newt Gingrich interrogato riguardo a una sua falsa affermazione, in cui gli si contestava che ciò che diceva non era un fatto, ha risposto: questa è la mia opinione di quel fatto. Si può dibattere di tante cose, fare ipotesi, ma non si possono negare alcuni fatti. Io non voglio nemmeno discutere dei negazionisti e delle persone che li seguono, perché non c’è discussione. E dobbiamo fare attenzione a non dar loro troppo spazio.
Che ne pensa di come viene usato l’Olocausto nel dibattito pubblico? Ritengo che non lo si dovrebbe paragonare ad altri massacri né paragonare nessuno ai nazisti, perché così facendo ne si sminuisce la portata. Ma è altrettanto vero che non dovrebbe essere usato dagli ebrei per intensificare l’identità ebraica. Non si può essere “più ebrei” solo perché qualcuno nella Storia ha sterminato la tua gente: è assurdo.
Claude Lanzmann, autore del documentario del 1985 Shoah, una volta ha detto che dell’Olocausto non si può creare una versione fittizia al cinema. È d’accordo? Dirò qualcosa che sembrerà contraddittorio. Nonostante io utilizzi moltissimo nelle mie lezioni il suo documentario, perché è un capolavoro, e mi trovi sostanzialmente d’accordo con lui, allo stesso modo sono rimasta colpita da alcuni lavori di fiction sull’Olocausto. Il recente Il figlio di Saul ad esempio mi ha commosso profondamente.
E il suo film com’è? Molto fedele ai fatti. Ad esempio durante il processo, per cercare di smontare le tesi dei libri di Irving, insieme ai miei avvocati, guidati dal principe del Foro Richard Rampton (sullo schermo è Tom Wilkinson, ndr), ci recammo ad Auschwitz. E anche la troupe del film è voluta andare fin lì per girare il dialogo in cui, parlando con Rampton, mi arrabbiai moltissimo, dicendo che non si poteva parlare delle tesi negazioniste in un luogo sacro come quello. Non ho visto quella ripresa, ma Rachel Weisz (anche lei di origini ebraiche, ndr) poi mi ha raccontato che in quella scena non recitava ma diceva sul serio. Perché la verità va difesa sempre, anche a costo di essere rompiscatole come me.