Intellettuali e politica, Fois: "No alla fiera della vanità"
Il solo impegno che conta? La buona scrittura. Un’altra opinione nel dibattito ?sul ruolo degli intellettuali aperto da Paolo Di Paolo
A casa mia vige la regola di mostrare indifferenza nei confronti del mio mestiere di scrittore. Ciò, pare, avverrebbe per tenermi con i piedi ben piantati a terra e per evitarmi l’umiliazione pubblica di chi, posando ad intellettuale engagé, spara scemenze oracolari su tutto e tutti.
Per i miei familiari, dunque, ognuno dei miei colleghi scrive meglio di me, nessuno escluso. Mia figlia, che ha sedici anni, fin da quando ne aveva dieci continua chiedermi: «Perché non scrivi come Ammaniti?». Il che, tutto sommato, significa che l’ho allevata bene, cioè non troppo attaccata alle cose del mondo, perché la domanda delle domande, specialmente in rapporto al suo tenore di vita, dovrebbe essere: «Perché non vendi come Ammaniti?».
Mio figlio, ventenne, la prende più alla larga: a lui piacciono o interessano solo i classici. Addirittura gli ultraclassici. Diciamo che arriva al massimo a Seneca. E questo giusto per chiarire che, al momento, proprio non può, e non vuole, esprimere un giudizio sul mio conto. La sua deontologia di archeolettore glielo impedisce.
Ora potrei intavolare con lui la secolare questione intorno al primato degli antichi o dei moderni, potrei cioè chiedergli, con la dovuta nonchalance, se per lui in quanto classici si debbano intendere i moderni che arrivano dopo, perché possono contare su più informazioni; o gli antichi che, essendo nati prima, hanno organizzato quei paradigmi su cui si sono fondati tutti i saperi successivi. Ma non lo faccio perché sembrerebbe un tentativo di chiuderlo in un angolo e questo, magari, lo costringerebbe a dirmi veramente cosa pensa su quello che scrivo.
Forse più in là, quando sarò trapassato da un tempo sufficiente e lui sarà un ottuagenario, - quando, forse, e ribadisco forse, la mia città natale mi avrà dedicato una piazzetta in un quartiere satellite e la mia città d’adozione una rotonda che immette nella tangenziale, - un qualche talento, il mio giovanotto, nel segreto di sé stesso, potrà riconoscermelo.
Mia moglie guarda le classifiche, e mi fa notare che tutti, proprio tutti, prima o poi ci finiscono, tranne me. Il che dovrebbe sorprenderla e scandalizzarla. Invece no, la cosa né la sorprende, né la scandalizza, anzi le sembra del tutto naturale: «Vuoi fare lo scrittore troppo difficile, per carità per scrivere bene scrivi benissimo, ma…». Secondo lei non sono abbastanza intraprendente, non mi so promuovere, non so scegliere gli argomenti. «Vedi il tuo collega X che scrive cose che piacciono a tutti?» e «la tua collega Y che colleziona migliaia di mi piace su Facebook?». «Perché non sei su Facebook?», mi chiede a bruciapelo; e ancora: «perché cavolo non vai da Fazio?»; e poi: «perché non sei mai nelle vetrine delle librerie?». Domande serissime a cui lì per lì non so rispondere.
Tuttavia presumo di non essere su Facebook per vigliaccheria, più che per snobismo, sono terrorizzato da chi esprime giudizi senza filtrarli, tipo: «Dostoevskij fa schifo!»; oppure: «Beethoven non ha ritmo, Jovanotti sì!»; o ancora: «Pasolini? Un regista dilettante!». Adesso, ditemi sinceramente, che pietà potrebbero avere costoro di un Fois qualunque? Quanto alla mia presenza da Fazio, non ci sono mai stato semplicemente perché non sono mai stato invitato, e, di conseguenza, presumo di non apparire nelle vetrine delle librerie perché non sono mai stato da Fazio.
Tuttavia, se conta, sono stato a "Sottovoce” da Marzullo, ho risposto, per quanto potevo piano piano, alla domanda sui sogni che aiutano a vivere, o viceversa, eccetera. E anche a “Uno Mattina” da Luca Giurato, che, detto per inciso, è alto quasi due metri e col mio metro e sessantaquattro mi faceva apparire un vero pigmeo trasportato dal Borneo appositamente per una puntata di Quark. [[ge:espresso:plus:articoli:1.264331:article:https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2016/05/05/news/intellettuali-e-politica-michela-murgia-noi-scrittori-del-reale-in-trincea-contro-i-media-1.264331]]
Comunque in quell’occasione si promuoveva “Memoria del Vuoto” il mio romanzo su Samuele Stocchino, che l’allampanato conduttore chiamò ininterrottamente Samuele Stecchino, come si trattasse di un parente del gangster di Benigni e non del mio personaggio letterario. Per il resto le mie esperienze televisive sono tutte in orari per insonni cronici. Trasmissioni che hanno uno share molto inferiore a “Sorgente di Vita” o alle lezioni di Analisi Matematica per ripetenti. Fois accompagna coloro che sono refrattari persino alle benzodiazepine.
Tutto ciò, mia moglie, che, va detto, è l’unica al mondo che sul serio abbia investito sulla mia carriera di scrittore, lo sintetizza in una frase meravigliosamente scivolosa: «Marcello è uno scrittore che piace agli scrittori». Il che, se considerato dal giusto punto di vista, può trasformarsi persino nell’abbozzo di un apprezzamento. Per fortuna esiste mia zia, che ha superato gli ottant’anni, e nonostante non abbia ancora esattamente capito che lavoro faccio, dice a tutti quelli che incontra per strada che io sono uno scrittore famosissimo. Peccato che esca assai di rado.
Comunque su una cosa sono tutti d’accordo, - la mia bambina che mi vorrebbe Ammaniti, il mio ragazzone che sospende il giudizio, mia moglie che mi pungola perché non mi chiuda nell’accidia snobistica dell’autore d’élite, e persino mia zia, che continua a chiedersi come faccia a campare i miei figli, - e cioè che, nella tassonomia degli scrittori contemporanei viventi, sono definibile uno scrittore engagé sostanzialmente in quanto sardo. O, per meglio dire, sardologo. Colui che viene interpellato dai media nazionali per tre argomenti fondamentali: La Sardegna era Atlantide? Quale attualità per il Codice Barbaricino? Si può ancora parlare di costante resistenziale nonostante il Billionaire?
Ci sono anche sporadiche sortite su faccende riguardanti Brigata Sassari, Giganti di Monte Prama, guai giudiziari di Renato Soru, gastronomia barbaricina, ma siamo lì. Questo mi qualifica come autore ingaggiato? Cioè se qualcuno pensa che io abbia qualcosa da dire e mi dà lo spazio per dirlo vuol dire che sono un interlocutore autorevole? I miei risponderebbero in coro di no.
Presumo che la soluzione, perlomeno l’unica che mi venga in mente, sia la responsabilità con cui si esercita il privilegio del proprio mestiere. L’idea cioè che la realtà di uno scrittore è uno spazio di connessioni in cui valgono più le domande che le risposte. Il fatto che l’intellettuale vive tra noi, ma ha uno sguardo differito, e lo dico fiero del mio strabismo.
Anche i dibattiti sull’ingaggio degli intellettuali, qualche volta, sono aria fritta, e viene la tentazione di non entrarci proprio, oppure di entrarci di sghimbescio, mettendosi in un angolo. Ma quando la famiglia ti pressa, e ti incita a partecipare perché finalmente non ti hanno interpellato per un fatto di sangue nell’orgolese, allora è la vanità che ha la meglio.
E infatti, temo, sarà la percentuale di vanità a farci naufragare o arrivare in porto a noi intellettuali contemporanei viventi. Perché, al di là delle gare di arguzia fra noi tutti interpellati per questo dibattito mediatico, quello che resterà, se resterà, sarà l’unico ingaggio vero e possibile dello scrittore: la buona scrittura.