Sfogatoi melensi pieni di acidità contro chi grande lo è davvero. Di quel che piace ai social non si salva niente
La poesia, nei social, ci sta ?come i cavoli a merenda. E la lapidaria, proverbiale sentenza non è per nulla snobistica, ma semplicemente strutturale, e per più motivi. Dunque. Ci sono migliaia, probabilmente milioni, in tutto il mondo, di blog e pagine Facebook dedicate, appunto, alla poesia. Nella stragrande maggioranza, sono più che altro “sfogatoi” in cui chiunque può pubblicare ciò che personalmente ritiene poesia. Per chi avesse voglia ?di seguirne qualcuna, non c’è che l’imbarazzo della scelta ed è facilissimo trovarle. Possono essere divise in tre categorie principali: ?quelle più, in una qualche accezione popolare, “tradizionali”, e che sono antologie di “poesie” prossime a quanto generalmente (per sentito dire) per poesia si intende, sono un tripudio di fiorellini, anime, tramonti vertiginosi, cuori infranti, sentimenti profondi ?e strazianti etc.
Poi ci sono le pagine “antagoniste” dove, per virtù paradossale della poesia stessa, “vale tutto”: pagine e pagine ?di versi sedicenti e un certo autocompiacimento nell’infrangere regole - e chi le infrange lo fa non sapendo di compiere un gesto quanto mai tradizionale. Insomma un anticonformismo di maniera che denota più che altro una mancanza ?di conoscenza della storia della poesia e delle sue complesse forme di autorigenerazione. Infine, le pagine astiose dei poeti, sempre sedicenti tali, scatenati contro chi poeta sedicente non è: dunque critica, spesso biliare, verso chiunque ?abbia o abbia avuto successo.
Vale a questo punto citare uno dei ?più grandi poeti italiani del secondo Novecento, Edoardo Sanguineti, che ?in una sua sibillina quanto potente affermazione ci ha ricordato che «la poesia è sempre impoetica». La frase, spesso spiegata, in molti contesti, dallo stesso maestro delle neoavanguardie, va colta nei suoi molteplici aspetti. Da una parte vuol dire che quello della “poesia” e quello del “poetichese” sono mondi antitetici. Il poetichese è stucchevole, prevedibile, appunto “poetico” quanto le frasi dei Baci Perugina o le lallazioni degli innamorati, spesso plasmate ?su vaghi ricordi scolastici; oppure ?si approssimano ai testi “profondi” ?di canzoni pop che bene assolvono ?al loro compito ma, separate dalla musica, si rivelano piuttosto imbarazzanti. Citando ancora ?un grande critico del secolo scorso, Witold Gombrowitz (che scrisse ?un provocatorio “Contro Dante”): ?«La poesia è come lo zucchero: ?un cucchiaino nel caffè può essere piacevole, ma una tazzina di solo zucchero, oltre a essere stomachevole, provoca il diabete».
?La frase non necessita di molte spiegazioni, ma vale la pena sottolineare che, direbbero i latini, “est modus in rebus”, e la misura risulta quanto mai fondamentale.
Ecco allora che, sfogliando le miriadi di pagine Facebook dedicate alla poesia, ci imbattiamo di continuo ?in flussi melensi di luoghi comuni per stomaci forti, una sorta di pornografia alla rovescia in cui l’ostentazione ossessiva del bello si trasforma ?in un brutto d’altro tipo: il caricaturale. Chi della poesia fosse davvero consapevole, ci potrebbe giocare ?(lo hanno fatto Giorgio Caproni, ?Aldo Palazzeschi e tanti altri), ma consapevoli sono ben pochi, anzi: nessuno dei bulimici di poetichese ?sui social lo è. Dunque “antipoesie” scritte da inconsapevoli “antipoeti” che poi, nei thread dei commenti, ?sono sommersi da complimenti ?di altri antipoeti in una valanga autoreferenziale di consensi spesso imbarazzanti quanto le “poesie” stesse. Sinceramente, tutto ?appare fuori luogo, sebbene ?innocuo alle sorti del Pianeta.
Per quanto riguarda la seconda categoria, quella dei “ribelli”, apparentemente fedele alla frase ?di Sanguineti che abbiamo voluto riportare sopra, è forse la più delicata. Dove tutto vale tutto, e non ci sono regole, manca l’elemento fondamentale di qualunque “gioco” artistico, la regola: che può essere ?e anzi deve essere strapazzata all’inverosimile, ma nella consapevolezza e nella lucidità di fare un altro gioco. Cosa che quasi mai avviene, a parte “l’andare a capo”, l’ultimo stilema a resistere quando della poesia non si sa niente.
Restano poi i siti di critiche nei confronti di chi poeta è davvero ?(per riconoscimento, per consenso ?di più pubblicazioni): sono parecchi e vi si trova di tutto, condensabile nella formula dell’ego insoddisfatto e nel tentativo di rispondere alla domanda, umanissima, «perché altri hanno successo e non io?». Depositi narcisistici, farciti quasi sempre da rabbia che il social network fa finta ?di permettere di sfogare.
Chiuderei con un’ultima riflessione sulla sentenza di Sanguineti: la poesia è ricerca, ricerca dura sul linguaggio al massimo livello di concentrazione, e ha tempi di elaborazione che richiedono in genere decenni. Ed è per questo che un poeta solitamente si afferma nell’arco di quaranta, trent’anni nel migliore dei casi. A volte, servono invece secoli. Diceva Ezra Pound che “Il classico è il nuovo che resta nuovo”. E la fulmineità dei social network con dinamiche così complesse e lunghe, non c’entra nulla. Un aspirante poeta diventa tale dopo un tempo incommensurabile rispetto ?a quello che anima i social. Ed è così svelato perché, come dicevamo all’inizio, i social network con la poesia c’entrano come i cavoli a merenda.