Le corse su due ruote. Il primo amore. E l’angoscia esistenziale che già fa intravedere «una canna  di pistola». Sono i temi dei versi giovanili del giovane intellettuale goriziano, morto suicida a 23 anni nel 1910, finora sconosciuti. E riscoperti in un fascio di carte sfuggite alle SS

Un autore postumo. Morto a ventitré anni. La cui opera principale è una tesi di laurea, mai discussa. Sparatosi alla tempia il giorno del compleanno della madre. Proposto al pubblico da un opinion maker, Giovanni Papini, che non aveva avuto tempo di leggerne nemmeno una riga, ma con un articolo sensazionalista che divulgava il mito di un suicidio «metafisico» o per ragioni filosofiche, quasi fosse un gemello di Kirillov nei “Demoni” di Dostoevskij.

Eppure Carlo Michelstaedter, quell’autore postumo, quel ragazzo, più passa il tempo, il tempo che sparge oblio su tutto, più invece diventa attuale; e nuove carte e segni della sua prodigiosa attività vengono volta per volta alla luce ad arricchire un ritratto complesso, ad alta simbolicità, sino a farne un’icona degli ideali intangibili di una generazione e, ancor meglio, della condizione giovanile in quanto tale.

Nel 1974 pubblicavo la biografia “A ferri corti con la vita” e promuovevo la scoperta del pittore e del disegnatore organizzando a Gorizia, nelle sale di Palazzo Attems, la prima mostra su di lui, “Testimonianza per Carlo Michelstaedter”. L’eco dei due eventi favoriva un recupero della memoria, da diverse fonti. Tra le altre, all’inaugurazione una signora proveniente da Lubiana mi consegnava una silloge di scritti di Carlo.
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Cosa era successo? La storia è questa. Dopo la morte, le sue opere, autografi, album di disegni e caricature ecc., trovate in mezzo al sangue nella casa natale di Piazza Grande, erano state traslocate. Le conservava religiosamente, come la fiamma sempre accesa una vestale, la sorella del pensatore, Paula Michelstaedter Winteler.

Su quella famiglia si erano abbattute terribili calamità. E si può immaginare l’atmosfera che io respirai entrando per la prima volta, io stesso ventisettenne, nell’ultima residenza, quella di via Cadorna, per trasferire le carte alla Biblioteca Civica di Gorizia, dove creai un Fondo.

Un disegno di Michelstaedter su uno dei suoi taccuini
Calamità su una famiglia di rappresentanza sociale: in primo luogo, la catena suicidaria, che coinvolgeva, ma non solo, i due figli maschi, anche se allora su Gino, il fratello emigrato a New York, non si conosceva la verità. A questo si aggiungeva la barbarie nazista. I Michelstaedter erano ebrei; e in un giorno maledetto del novembre 1943 le SS fecero irruzione nelle case degli esponenti della comunità goriziana, deportando esseri umani e razziando beni.
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La sorella Paula invece si era messa in salvo in Svizzera insieme al figlio. Ma le carte erano rimaste nel suo appartamento di Via Pitteri, custodite dentro una cassapanca. Paula aveva dovuto lasciare il suo tesoro, i ricordi del fratello, tra quelle mura; e mai comunque poteva prevedere quello che sarebbe accaduto. Entrarono dunque i nazisti ed eseguirono lo sgombero feroce. Ma una vicina di pianerottolo, a cui Paula aveva affidato una seconda chiave, vigilando sulle scale, aveva fatto a tempo a svuotare, con rischio personale, il contenuto della cassapanca, salvando in pratica quasi tutta l’opera di Carlo. Si chiamava Maria Benedetti. E tanti anni dopo, all’inaugurazione della mostra, la figlia di lei, Maria, detta Bach, scultrice che lavorava in un suo atelier a Lubiana, veniva a portarmi una raccolta di scritti, copiata di pugno da Paula Michelstaedter Winteler e donata alla sua vicina e salvatrice in segno di imperitura gratitudine.
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Insomma, se quelle carte e disegni ancora esistono, lo dobbiamo a un miracolo e, in concreto, a un grande atto di coraggio e di fede. Un alone di violenza le circonda; e chiedono, in qualche modo, una catarsi. La madre di Carlo, Emma Luzzatto, quasi novantenne, abitava nel mezzanino di via Pitteri e fu trascinata fuori a forza, tra pianti e urla laceranti. Deportata ad Auschwitz, morì, sembra, già durante il viaggio. Quelle che mi consegnava Bach erano, a saper valutare, delle reliquie, trasmesse attraverso peripezie in una specie di staffetta nel corso dei decenni.
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Non è finita. Trentasei anni dopo, nel 2010, organizzavo a Gorizia un’altra mostra, “Far di se stesso fiamma”, con catalogo Marsilio. Era il 17 ottobre, centenario della morte. In questa nuova circostanza veniva a trovarmi la nipote di Bach, Anna, la figlia del fratello. Davanti alla visionaria scenografia della “Processione di ombre”, mi faceva dono di nuovi materiali, insieme ai due quaderni d’epoca, rilegati con copertine nere, copiati da Paula per ringraziare la sua vicina e ora per ringraziare me. Il cerchio si chiude. Un’occasione a date più alte, in una temperie culturale profondamente mutata, per fare un’ulteriore riflessione, e chiedersi: che cosa hanno queste carte per affascinare in maniera così intensa, persino al di là del loro valore filosofico e artistico? Quali scintille si celano per propagarsi in un fuoco? Segnalo che di recente, è stata ritrovata anche la biblioteca dei Michelstaedter, di Carlo e del padre Alberto (cfr. “La biblioteca ritrovata”, Olschki, a cura mia, di M. Menato, A. Trampus, S. Volpato).
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I documenti che mi decido a pubblicare oggi non si possono, se non ironicamente, definire giovanili, perché l’intera opera di Michelstaedter è di un giovanissimo. Ma qui le stagioni e gli anni sono intere fasi della vita per uno standard convenzionale, in un’accelerazione formidabile, in una febbre senza requie. Basti pensare che Carlo ha abbozzato un suo autoritratto da vecchio. Le poesie più importanti sono e rimangono, insieme a poche altre, quelle dell’ultimo periodo, attraversate dal vento della “Persuasione”: “I figli del mare” e le liriche “A Senia”. Cantano la metamorfosi di una creatura “risvegliata”, da figlio della terra a figlio del mare, e il tuffo in un mare senza sponde, sognando la donna-Sirena.

A partire dal 1905 e sino a quell’epilogo si compie un apprendistato, sotto influenze carducciane e dannunziane, con esiti vari. Adesso, con l’apporto di questi documenti, veniamo a conoscere l’antefatto, in zona adolescenziale, arretrando ancora, per l’arco di un altro quinquennio. È anche la conferma di una consuetudine alla versificazione nella vita quotidiana, che è un dato della cultura del tempo, ma anche un tratto dell’educazione familiare, soprattutto nell’interpretazione paterna. Metri e rime sono irregolari. Il periodo è quello della frequenza scolastica allo Staatgymnasium. Gli autografi sono perduti. Si tratta di copie della sorella Paula, ma anche delle liriche maggiori sono rimaste soltanto le copie, della stessa mano.
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È una cartolina d’epoca la prima di queste poesie. Si apre il 1900 con l’immagine del futuro filosofo, il filosofo che si esprimerà in greco antico, considerando suoi contemporanei Socrate e Platone, ma che intanto corre in bicicletta sulla strada che porta dalla Mainizza a Gorizia, dopo una pioggia battente e quando già il sole rilancia le sue promesse. È l’ebbrezza del vitalismo, attraverso il mezzo di trasporto di quell’inizio di secolo. Il ritratto è di un giovane energico, amante degli sport, l’opposto, per intenderci, di un Leopardi. Vale la pena di ricordare che a metà degli anni cinquanta Ubaldo Fortini su “La Gazzetta dello Sport” lasciò una curiosa testimonianza sul «filosofo sportivo» e sulle sue scorribande in bicicletta.

La mente vibra «entusiasta». E l’entusiasmo, si sa, è un privilegio che discende direttamente dagli dèi. È anche una risorsa a doppio taglio, che può imporre, prima o poi, un’espiazione. La crescita avviene nel confronto con i compagni. Non manca una manifestazione di tenerezza ambigua, senza precedenti e senza conferme. L’impegno sale nel dialogo con Enrico Mreule, l’amico di sempre, quello con cui impostare un serrato dibattito filosofico, in greco e in latino. A lui Carlo confida i suoi pensieri segreti, il suo pessimismo, il suo bisogno di preservare dei valori. Contro la volgarità circostante vuole alzare «una bandiera / ...di giustizia e libertate». Incontra dei soldati che marciano irrigiditi dalla disciplina: ecco la sconfitta degli ideali civili e pacifici, con l’ingresso in società! Prima vantavano un decoro, ora appaiono come «macchine di carne».

Si indovina una preoccupazione sottostante, alimentata da sentimenti filo-italiani. A Gorizia erano di stanza guarnigioni dell’esercito austro-ungarico. Incombe la prospettiva del servizio militare. Il massacro della prima guerra mondiale è ancora lontano, eppure la mente presaga, oltre che entusiasta, può avvertirlo nell’aria, nelle trasformazioni in corso, negli anacronismi che resistono. Mreule, per sottrarsi alla trappola, lascerà quelle terre, partirà per gli spazi sterminati e liberi della Patagonia. Carlo rimarrà solo, a scrutare una via di fuga, di realizzazione.

Quando meno ce lo si attende, scattano domande eversive, si varca la linea di confine. Perché mai si uccide un delinquente, se quella è la sua natura? «O si condannerà forse un vitello / perché bovino nacque e non uccello??» Menzogna ed egoismo si nascondono dietro la facciata del perbenismo e della moralità dominanti. Un punto fondamentale: questo ragazzo ha infranto precocemente «i vetusti ceppi della fede». «Manifeste mi furono le frodi / dei giusti, e le malvagità dei buoni,? / e manifeste delle religioni / le infamie». Nelle ultime liriche, una possibile svolta: la giovane età chiede un tributo. Carlo si innamora, per la prima volta. La ragazza è Elsa, quella di “Se camminando vado solitario”, che apre la mia edizione Adelphi e che da queste nuove tessere andrà integrata. Ma si tratta di un’infatuazione di breve durata. Il tono è quello languido e predestinato della Manon di Puccini. Mancava una corrispondenza d’amorosi sensi. Carlo ribadisce la sua predisposizione, il suo “vizio”: «Nel futuro con l’orrenda gola / guatami là una canna di pistola».