L'intervista

Lidia Bastianich: «La mia cucina, un ponte tra culture e generazioni»

di Sabina Minardi   18 agosto 2017

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La fuga dall’Istria dopo la guerra. La nuova vita negli Usa. E l’impero gastronomico tra ristoranti e show. La chef italiana, famosissima negli Stati Uniti, a colloquio con L'Espresso: «Il cibo è un fortissimo elemento culturale che assomma radici e ricordi»

C'è un cibo che salva, un cibo che nutre, un cibo che consola, un cibo che porta al successo. Un cibo contemporaneo e un cibo-memoria. E un cibo internazionale, che sa proiettare nel piatto l’incontro di mondi locali.

Lidia Bastianich, partita dall’Italia e approdata negli Stati Uniti, chef, imprenditrice, star televisiva, a capo di un impero gastronomico che comprende ristoranti, aziende vinicole, linee di prodotti gourmet e business in diverse attività della ristorazione, li conosce tutti. Sin da quando, esule istriana, fu costretta a lasciare l’Italia, fino a oggi, che è chef con papi e star di Hollywood nel curriculum. Italian Talent Award. E punto di riferimento indiscusso nella galassia del food.

«Sono nata a Pola nel 1947. Nel 1956, la mia famiglia fu costretta a lasciare casa, terra, patria e radici a seguito dell’annessione dell’Istria alla ex-Jugoslavia di Tito. Fu una tragedia per oltre 350 mila persone. Per un po’ andammo a vivere a Trieste, ospiti di una zia; ma il lavoro scarseggiava, le prospettive erano peggiori. I miei genitori - mio padre era meccanico, mia madre insegnante - decisero di emigrare. Chiedemmo asilo in America come profughi. Prima, però, trascorremmo due anni durissimi alla Risiera di San Sabba», racconta Bastianich, caschetto biondo e sguardo che tradisce di continuo la più micidiale formula di vita: curiosità e intraprendenza.

«Io so cosa vuol dire fuggire dal proprio Paese e ricominciare altrove da zero», dice seria: «Quel tempo in fila, in attesa della razione quotidiana - prosciutto cotto, formaggino, mela - è ancora davanti ai miei occhi. Quanto rimpiangevo la fattoria di mia nonna, con tutti gli animali, il profumo delle minestre di verdure appena raccolte dall’orto. Quella nostalgia non mi ha mai abbandonata». Così il cibo diventa per lei eco di sapori perduti. E ancora d’identità, quanto intorno il paesaggio muta drasticamente.

«Avevo dodici anni quando sbarcammo in America. Un mondo tutto da scoprire. Con entusiasmo, da parte di noi ragazzi. Con grandissima fatica, per gli adulti. Preparavamo piatti italiani, e in tavola arrivava immediatamente il Paese perduto. Il cibo rappresentava una connessione con le nostre radici», rievoca. E sudore, sperimentazione, ricerca di una possibilità.

A quattordici anni comincia a lavorare per un fornaio di Astoria. A sedici anni conosce un altro emigrato dall’Istria, Felice Bastianich, che diventerà suo marito. Insieme danno vita a “Buona Via” e subito dopo a “Villa Secondo”, nel Queens. Dopo qualche anno nasce “Felidia”, il salto a Manhattan, sulla cinquantottesima strada. Apripista di una lunga serie di locali, fuori e dentro New York.

«Ho avuto due doni: essere nata in Italia ed essere diventata americana. Appartengo a due grandi culture: da una ho ereditato la creatività, il culto per la bellezza, l’attenzione al benessere e l’importanza dei rapporti umani; dall’altra lo sguardo aperto al mondo, la capacità di trasformare la diversità in ricchezza, lo spirito per gli affari, la scoperta del marketing».

Il cibo, da potente antidoto alla solitudine, è diventato chiave di lavoro. «Negli anni Settanta, per cucina italo-americana si intendeva una cucina prevalentemente del sud: piatti della tradizione calabrese, siciliana e campana, che dovevano fare i conti con la mancanza di alcuni ingredienti tipici. Anch’io mi misi al fianco di uno chef campano, e per un po’ di tempo proponemmo quella cucina. Poi aggiungemmo delle ricette di piatti che mangiavamo a casa, e da cucina regionale del sud il nostro ristorante cominciò a proporre anche una cucina del nord Italia. Gli americani apprezzavano. Non solo: erano curiosi di scoprire di più. Volevano andare oltre lo stereotipo della pizza e degli spaghetti. Fu in quel periodo che mi invitò al suo show Julia Child, cuoca, scrittrice e popolarissimo personaggio tv. Mi chiese di insegnarle a fare il risotto. Io ho sempre amato spiegare, raccontare. E fu l’inizio dell’avventura televisiva». È la svolta: il cibo si fa strada per il successo.

«Sono tornata a studiare: scienza del cibo, antropologia, chimica. Volevo trasmettere la passione per la cucina, ma da vera professionista. Ho un forte senso della spiritualità: non in senso religioso, ma come etica di vita: se vuoi qualcosa, devi investire su te stesso, senza cercare scorciatoie. Essere donna? È un limite, lo era allora e lo è anche oggi. L’importante però è sentirsi una professionista, e pretendere di essere trattata come tale».
La cucina di casa sua diventa lo studio dal quale insegnare a milioni di americani a cucinare: “Lidia’s Italy”, “Lidia’s Family Table” nascono lì. E arrivano i libri: pubblicazioni sulla geografia gastronomica italiana, che vanno a ruba.

«Gli americani ci invidiano il nostro senso di convivialità. Insieme alle ricette, trasmettevo il gusto di stare insieme intorno a una tavola: lo spirito di condivisione, tipicamente italiano. Il cibo unisce, spezza l’isolamento, scalda il cuore. Esattamente come sta avvenendo oggi, con la riscoperta della buona tavola, in un mondo in continuo e frenetico movimento: è specchio di identità. Ma al tempo stesso è strumento che torna a legare tutti, rompendo l’isolamento tecnologico».

Il cibo-gioia è arrivato: chiacchierando, insegnando, mostrando spezie e verdure dal suo orto, e proponendo ricette italiane talvolta rilette alla luce del gusto americano, Bastianich, dalla sua villa nel Queens affacciata sulla Little Neck Bay, conquista il pubblico americano. E oltre alla madre Erminia, fedelissima presenza sempre accanto, si ritrova i figli al suo fianco: Tanya e Joe, «i miei alleati più stretti, sono loro che più di tutti mi danno coraggio. A sorpresa: mai mi sarei aspettata che mia figlia, dopo un dottorato a Oxford in arte rinascimentale, scegliesse di lavorare con me»: è lei a gestire tutte le attività legate ai libri, agli show, ai ristoranti di Kansas City e Pittsburgh, ai viaggi. «Joe, invece, aveva frequentato il Boston College, era avviato a lavorare a Wall Street. Certo, ci aveva sempre accompagnato, sin da piccolo, nei nostri viaggi alla scoperta di piatti e vini nuovi; aveva respirato lo spirito imprenditoriale di casa. Ma non l’ho mai influenzato, e anche la sua scelta non era scontata», nota mamma Lidia. Divenuto popolarissimo come giudice di Masterchef, Joe si occupa di altri business: la partecipazione in Eataly, i vigneti dal Friuli alla Maremma, e “Orsone” a Cividale del Friuli, ristorante tra le vigne a due passi dalla Slovenia.

Mentre la tribù familiare si compatta, l’America fa la fila davanti ai suoi ristoranti. E Lidia non molla un attimo: «Il cibo è la base di tutto: nutrimento che diventa piacere della vista, del gusto, dell’olfatto: quando riesce a suscitare tutto ciò è anch’esso opera d’arte». Ripete: «Il mio obiettivo, però, non è mai stato quello di stupire, ma di trasmettere vera cultura del cibo. L’innovazione? La cucina, proprio come l’arte, ha bisogno di momenti di avanguardia, ma in certi casi si è esagerato. Io non amo stravolgere i prodotti: non sono a mio agio a girare un fagiolo in una schiuma», dice, comunicando la sua idea di haute cuisine. «Specialmente in un momento come questo, nel quale da una parte c’è una sovrapproduzione alimentare, dall’altra una fame autentica, gli sprechi non sono consentiti: di un animale dobbiamo tornare a mangiare tutto, in segno di rispetto verso una natura e una terra sempre più sfruttate e impoverite. E dobbiamo avere il coraggio di cambiare i nostri comportamenti alimentari».

Perché il cibo ha anche una valenza politica. «Certo. Il cibo è un fortissimo elemento culturale, che trascende le generazioni, che assomma radici e ricordi. Ma è anche un indicatore di nuovi territori mentali. Io, ad esempio, sono stata accettata dall’America per la sua grande capacità di accogliere tutte le culture, la sua forza. Sono stata lasciata libera di esprimere la mia. Ciò che l’America richiede a tutti è di essere uniti per lei e nel suo nome. Anche ragionare per confini in campo gastronomico è un modo di fare tipicamente europeo: la bellezza è nella varietà, nell’apertura agli altri, senza perdere la propria identità. La cucina globale di oggi va dall’Amazzonia, dalla ricerca sugli insetti, come forma pura proteica, alla Calabria, da dove arrivano prodotti tutti da scoprire come il peperoncino, la liquirizia, il bergamotto».

Cos’è accaduto, allora, agli Stati Uniti che hanno scelto Trump? «Ha vinto la paura degli americani da cinque-sei generazioni. La sua elezione è stato il riscatto rispetto ad Obama che aveva spinto troppo su temi di sinistra. Forse oggi c’è stato un numero eccessivo di ingressi di immigrati: ma l’America è questa: una terra che sa fare tesoro delle differenze. Che ti lascia cantare il “Va’, pensiero” dal “Nabucco”, come facevamo noi emigranti, quando siamo arrivati. Trump ha tanto da imparare: speriamo lo faccia in fretta, sennò avremo problemi».

Identitaria e globale, la musica classica è rimasta la grande passione di Lidia Bastianich, amica di direttori d’orchestra («Gianandrea Noseda e Antonio Pappano sono tra quelli che amo di più»), e fan della lirica, appena può. Ma più di tutto è al viaggio che non rinuncia: su e giù per l’Italia, alla riscoperta di piatti regionali, che, smartphone alla mano, fotografa e immediatamente spedisce al suo chef, Fortunato Nicotra («La cucina del futuro: tradizionale, semplice e sana come una volta»). In giro con i suoi cinque nipoti («Gli offro viaggi, anziché altri regali: in Giappone, finita la scuola, o a pescare salmoni in Alaska: offro loro delle esperienze, e la possibilità di passare del tempo insieme, per trasmettergli anche un po’ della mia filosofia di vita»). E soprattutto in barca a vela, con un fedele entourage tutto al femminile, di amiche newyorchesi di origine friulana: «Adoro il mare: ogni anno veleggiamo per il Mediterraneo, tra le Eolie, per la costa dalmata: il modo migliore per stare insieme e non pensare al lavoro. Sui moli», aggiunge con un sorriso, «da una barca all’altra, si stabiliscono connessioni meravigliose e uniche con la cucina di un territorio».