"Negli Stati Uniti questa tecnica è tornata di moda perché remunerativa per le assicurazioni. Ma non ci sono evidenze scientifiche che la giustificano". La denuncia dello psichiatra Peppe Dell'Acqua

Peppe Dell'Acqua
Qual è la causa della malattia mentale? Dove si traccia il confine tra normale e patologico? Gli importanti avanzamenti degli studi in campo genetico, gli orizzonti aperti dalle neuroscienze e le nuove tecniche che visualizzano il cervello mentre è in funzione - dalla Pet alla Risonanza magnetica per immagini - suggeriscono che i fattori biologici hanno un ruolo.

Difficile dire tuttavia quale ruolo i nostri geni giochino nell’innescare la malattia mentale e in quale misura la loro interazione con l’ambiente sia determinante nell’attivarla. Forse dall’epigenetica, che studia le modificazioni dell’espressione genica ereditabili che non alterano però il Dna, potranno venire altre suggestioni.

Se negli anni ’70 la psichiatria basagliana propose un nuovo modello di intervento terapeutico basato sul riconoscimento dei diritti di cittadinanza e della dignità della persona, oggi il pendolo è tornato a oscillare verso il biologico. Un determinismo genetico in sintonia con i tempi, che nasce dall’esigenza di ridurre la complessità.

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“La dottrina del Dna”, come recita il sottotitolo del saggio di Richard Lewontin, Biologia come ideologia, si è imposta come una religione. «Sia la neurobiologia sia le neuroscienze in senso più ampio ci hanno detto finora poco o nulla di nuovo sul disturbo psichico, si dà per scontato che ci sia una lesione» sostiene Peppe Dell’Acqua protagonista, insieme a Franco Basaglia, della rivoluzione che ha portato alla chiusura degli ospedali psichiatrici. «Nel paradigma medico che domina la psichiatria a orientamento biologico prevale l’idea che ci sia qualcosa che non va nel cervello e si cerca di interferire con gli psicofarmaci con la biochimica cerebrale, modificandola. Nulla a che vedere con la cura o la guarigione, semplicemente si attenuano i sintomi, si lenisce la sofferenza e si consente di convivere con la malattia. Per arrivare ad altre forme di trattamento, come un progetto per il recupero di un ruolo sociale».

Come si colloca in questo contesto di “fideismo biologico” l’elettroshock? E quali sono le ragioni del suo revival? «Negli Stati Uniti il trattamento è stato ripreso e rivalorizzato perché gli interventi con farmaci o psicoterapie erano poco remunerativi per le assicurazioni. Mentre la terapia elettroconvulsivante prevede esami preliminari come elettroencefalogramma, visita cardiologica, anestesia, e anche un ricovero» risponde Dell’Acqua. Da noi improponibile come scelta di politica sanitaria perché i posti letto sono costosi e richiede un team specializzato.

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E continua lo psichiatra: «È una pratica non giustificabile da nessuna evidenza, da nessun risultato positivo e duraturo. Nel nostro paese, bene o male, la persona riesce a stare al centro degli interventi, non il cervello! È una scelta ideologica, una scelta di campo che aumenta le distanze già siderali tra chi soffre di un disturbo mentale, i curanti e il mondo che lo circonda. Contribuisce a cancellare l’umano che è l’unico strumento necessario per avvicinare le persone e le loro “incomprensibili” sofferenze. Nonostante le centinaia di ricerche fatte negli ultimi decenni non esiste ad oggi uno straccio di evidenza di che cosa faccia l’elettroshock, se non cancellare la persona e trasformarla in un oggetto». La convulsione provocata dalla scarica elettrica, sotto anestesia e in maniera indolore, «come se si fosse in un moderno ambulatorio dentistico», interrompe il dialogo fra i neuroni e lo modifica, ma non è che «una pausa. Anche se la tecnica sortisse un qualche risultato, è solo momentaneo ed è conseguente a una smemoratezza che accompagna il trattamento. Poi la sofferenza riemerge», prosegue Dell’Acqua.

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«Nel 1978 abbiamo avuto una legge, la 180, che ha cambiato i fondamenti della psichiatria. La dimensione umana con l’uso irrazionale dei farmaci e con l’elettroshock viene cancellata. Lo psicofarmaco da allora può collocarsi in una dimensione relativa, vale per un decimo del trattamento, il resto non può che avere a che fare con gli interventi psicosociali che altro non sono che garantire e sostenere l’abitare, il lavoro, le relazioni. È nella valorizzazione della storia della persona, nel riconoscimento dei suoi diritti di cittadinanza, e nelle relazioni che può realizzarsi la rimonta: la “ricovery”, come oggi si dice con un abusato termine anglosassone».